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25.12.25

La tregua di Natale del 1914: quando nemici armati scelsero di riconoscersi uomini Dove l’umanità resiste, anche quando non dovrebbe.

 La tregua di Natale del 1914 è uno dei paradossi più potenti della storia:

un gesto di pace nato non dall’alto, ma dal basso.Non dai governi, che rifiutarono la proposta di Benedetto XV,ma da soldati esausti, immersi nella morte, che decisero di sospendere l’odio almeno per un giorno.È un episodio che smaschera la struttura stessa della guerra:chi la decide non la combatte, chi la combatte non la vuole.E quando i soldati si incontrano senza armi, la propaganda evapora,e resta solo la nudità dell’umano.Nel dicembre del 1914, nel fango di Ypres, la guerra di logoramento sembrava aver inghiottito ogni residuo di senso. Trincee scavate da chi non era sopravvissuto, cadaveri disseminati nella “terra di nessuno”, assalti sanguinosi per pochi metri destinati a essere persi il giorno dopo.Eppure, proprio lì, nel punto più buio, accadde qualcosa che nessun comando aveva previsto.La notte della vigilia, i soldati tedeschi accesero piccole luci lungo il filo spinato. Un soldato inglese vide i bagliori e sentì una voce: “Soldato inglese, buon Natale!”.Uomini che fino a poche ore prima si sparavano addosso uscirono


disarmati, si incontrarono a metà strada, si strinsero la mano, si scambiarono sigarette e auguri. Per un giorno, nessuno sparò.La tregua non cambiò la guerra, ma incrinò la sua logica. Ricordò a tutti che il conflitto è deciso da chi non combatte, mentre chi combatte desidera solo tornare a casa.
Infatti L’avvicinarsi del primo Natale di guerra sembra offrire un’occasione. È papa Benedetto XV a proporre una tregua natalizia. Il 7 dicembre 1914 scrive ai governi delle potenze belligeranti, chiedendo che “i cannoni possano tacere almeno nella notte in cui gli angeli cantano”. La proposta viene respinta, come accadrà anche nel 1917, quando il pontefice definirà il conflitto un’“inutile strage”. I governi rifiutano. Ma chi combatte è stanco. Così, la notte della vigilia di Natale, accade qualcosa di inatteso. Nelle linee tedesche attorno a Ypres compaiono piccoli segnali luminosi lungo il filo spinato. Una vedetta inglese annota nel suo diario: “Mentre osservavo il campo, ho notato un bagliore nell’oscurità. Poi un’altra luce, e un’altra ancora, lungo tutta la linea tedesca”. Poco dopo, nel silenzio, si sente una voce: “Soldato inglese, buon Natale!”.
Alcuni soldati tedeschi escono dalle trincee disarmati, le mani alzate. Provano a spiegare, in un inglese incerto, che non vogliono combattere almeno quel giorno. Con esitazione, anche alcuni britannici fanno lo stesso. Attraversano la terra di nessuno, evitando crateri, reticolati e corpi insepolti. Il rumore della guerra si spegne.I primi uomini si incontrano a metà strada. Si guardano negli occhi. Si stringono la mano. È un gesto semplice, eppure impensabile fino a poche ore prima. Nemici pronti a uccidersi scoprono di essere uomini simili. Il coraggio si diffonde: sempre più soldati escono dalle trincee, si scambiano sigarette, sorrisi, auguri. Non serve una lingua comune per riconoscersi.
Il tenente inglese Alfred Dougan Chater scrive: “Penso di aver assistito a uno degli spettacoli più straordinari che si possano immaginare. In pochi minuti, il terreno tra le trincee era pieno di uomini di entrambi i lati che si stringevano la mano e si auguravano un felice Natale”.
Per un giorno, la tregua restituisce umanità alla guerra. Ogni soldato capisce che dall’altra parte c’è la stessa paura, la stessa stanchezza, la stessa voglia di tornare a casa. “La maggior parte di loro sarebbe felice di tornare a casa, come noi”, conclude Chater. “Per tutta la giornata nessuno ha sparato”. La notizia raggiunge i civili. I giornali raccontano l’evento, Arthur Conan Doyle lo cita come prova che la guerra può spezzare le vite, ma non cancellare l’umanità. Alcune fotografie mostrano persino una partita di calcio improvvisata tra le trincee. Quando i cannoni riprendono a sparare, molti soldati si chiedono che senso abbia uccidere perfetti sconosciuti. La guerra, ancora una volta, è decisa da chi non combatte mai.

È il paese più vuoto d’Italia, perfetto per chi odia le personeed ama la solitudine

L ’Italia è il Paese dei paesi, paesini e paeselli, dei piccoli borghi, delle contrade, dei villaggi, scegliete voi il vostro sinonimo preferito. Posti fiabeschi, abitati da una manciata di persone che si godono il paesaggio

ogni mattina e che devono però anche convivere con le difficoltà intrinseche alla vita nei paesini. Per esempio: c’è poca gente. E c’è un posto in Piemonte dove c’è meno gente che altrove – che in tutta Italia in realtà. Si chiama Briga Alta, sta in provincia di Cuneo, a due passi dalla Liguria e dal confine con la Francia, e al 31 maggio 2025 conta esattamente 43 abitanti, distribuiti però su oltre 52 chilometri quadrati di territorio. Briga Alta non è semplicemente spopolata, è vuota nel senso più concreto e geografico del termine. Per farsi un’idea, basta questo confronto: Milano ha più di 7.000 abitanti per km², Briga Alta meno di uno.
“Ma qui non c’è nessuno!”
Briga Alta si estende tra i 1.300 e i 2.600 metri di quota, occupando le valli Tanarello e Negrone. È un comune alpino vastissimo, fatto di montagne, boschi, pascoli e praterie d’alta quota: la superficie di 52 km² ne fa quasi un gigante territoriale. Soprattutto se rapportato al numero di residenti: parliamo di 0.82 abitanti per chilometro quadrato, come a dire che ogni cittadino di Briga Alta ha a disposizione più di un chilometro quadrato di terreno tutto per sé.
Come spesso capita in questi paesi sempre più spopolati, un secolo fa la situazione era molto diversa: alla fine dell’Ottocento, Briga Alta contava 1.300 abitanti, scesi a 700 già negli anni Dieci del secolo scorso. Poi è successo quello che potete immaginare: guerre, emigrazione, difficoltà economiche, e quindi un declino demografico costante, fino ai numeri microscopici di oggi. Il risultato è un territorio enorme dove la presenza umana è diventata un’eccezione.


gettyimages-2227437465© Pietro Trig / 500px - Getty Images

La vastità di Briga Alta
Briga Alta non ha un centro unico ma è un comune sparso: è formato da una costellazione di piccoli borghi, distribuiti peraltro tra due valli separate. Alcune di queste frazioni sono ancora abitate, altre invece sono sedi di sole , altre invece sono sedi di soleseconde case e hanno quindi una vita stagionale.Questa struttura “a macchia” è tipica dei comuni di alta valle, ma qui è portata all’estremo: poche famiglie sparse in un territorio vastissimo, con distanze che rendono complicato anche il semplice incontrarsi. Briga Alta è un comune sparso non solo per definizione amministrativa, ma per destino geografico.



mountain village with roads and buildings© Andre86, Pubblico dominio

A due passi dai confini
Il primato della vuotezza ha anche un risvolto positivo: l’ambiente naturale è rimasto intatto. Briga Alta è immersa nel Parco Naturale del Marguareis, un’area protetta che custodisce uno dei massicci carsici più importanti delle Alpi Liguri, crivellato di grotte profonde, doline, pareti calcaree e popolato da una biodiversità sorprendente, con fiori rari e stambecchi che pascolano liberi.
Il confine con la Francia e la vicinanza al mare creano un microclima particolare, dove specie mediterranee e alpine convivono. È un territorio che attira escursionisti, speleologi e amanti della natura, ma sempre in numeri contenuti: il turismo di Briga Alta non è mai affollato, e forse, rarefatto com’è il paese, non potrebbe mai esserlo.

24.12.25

STANCO NATAL e NATALE DEI POVERI

Cari amici    vicini e  lontani   . Ecco  giunti alla  vigilia      e  a  chiderci      come ogni   anno  . A che serve una festività rossa sul calendario? A non andare al lavoro pur essendo pagati, per i cinici. A tenere liberi i credenti, che devono fare il “tagliando” alla propria fede, visto che per la maggior parte le festività sono religiose, pensa la Chiesa. E a ricordare che, in fondo, una fede i credenti ce l’hanno, pur se male in arnese. Premesso che questi Caffè sono scorretti e non c’è un ufficio reclami, esagerare sarebbe
sbagliato. Perché c’era, ora meno, un’altra ragione per cui la festa, per quanto sempre più “commerciale”, sia osservata: è l’unico giorno dell’anno in cui è difficile sfuggire al dovere di riunirsi alla famiglia. In molti casi, poi, mette assieme diverse famiglie, o quella allargata. Certo, Benjamin Netanyahu, detto Bibi (in ebraico בנימין נתניהו‎) continiuano i.n maniera diretta o indiretta a massacrare e far massacrare da coloni sionisti i palestinesi e Putin continua a bombardare gli ucraini e il contrasto con le ingozzate al cenone, talvolta degne di un reparto di gastroenterologia, è lacerante. Ma è giusto festeggiare, anche per i non credenti: ci si riunisce comunque intorno alla stessa tavola, cosa che dovrebbero fare anche le coppie separate che hanno figli, evitando di torturarli con i turni: «Cenone con mamma e pranzo del 25 con papà». E sì, ci stanno pure il cugino antipatico e il nonno catarroso: è famiglia. Per una sera, al diavolo guerre, tg e slogan pubblicitari. E' Natale .  Ma  non per     questo    dimentiucare     chi soffre

  da  unione      sarda  del  24\12\2025 


Giuseppe, 74 anni, vive in un giaciglio di fortuna sotto l’Asse mediano di scorrimento, di fronte all’ex Motel dell’Agip, all’uscita da Cagliari. «Siete arrivati, posso avere un tè caldo?», dice ai volontari della Croce Rossa di Cagliari che, ogni notte, arrivano a portargli pasti caldi, bevande e alimenti. Carmen e Stefano, neanche trentenni, un passato di tossicodipendenza e prostituzione, vivono, hanno trovato rifugio sotto un ponte in via Po. Bruno, poco più che cinquantenne, dopo aver perso il lavoro è finito a vivere in strada: adesso la sua casa è un materasso poggiato su due piazze di cartone, il suo tetto è la vecchia scala mobile del mercato di San Benedetto (chiuso per ristrutturazione). «Non dormo da tre giorni, con la pioggia è impossibile», racconta.
Invisibili
Poche storie, invisibili, ai margini delle strade della città, oscurate dalle luci natalizie. Ma quelle di Giuseppe, Carmen, Bruno non sono storie isolate di vite sfortunate. C’è quella di Pierluigi, nelle gallerie Ormus, o Marino, in viale Marconi. I senza fissa dimora nel capoluogo assistiti dai volontari dell’Unità di strada della Croce Rossa di Cagliari sono un vero e proprio esercito silenzioso che continua a crescere: 55 persone vivono al freddo in strada. Esistenze precarie, vite riscaldate anche a Natale dai volontari della Croce Rossa. «Ogni sera, fino a mezzanotte, usciamo con la scusa di portare un pasto caldo, ma l’obiettivo principale è quello di fare con loro una chiacchierata, capire come stanno, scherzare con loro, se possibile, portarli per un attimo fuori dalla condizione di vulnerabilità in cui si trovano», dice Alessandro Montis, referente dell’Unità di strada della Croce rossa di Cagliari.
Il giro
Il servizio dell’Unità di strada viene garantito tutti i giorni, Vigilia, Natale, Santo Stefano e Capodanno compresi, da una decina d’anni grazie all’accordo con l’assessorato comunale alle Politiche sociali, ma è da vent’anni che i volontari girano la notte a portare un po’ di conforto alle persone senza fissa dimora. Nei giorni di festa, come ogni notte, si comincia verso le 19. L’appuntamento è nella sede della Croce Rossa, in viale Merello. Da qui i volontari dell’unità di strada partono per distribuire la cena e conforto: la notte di Natale è una come tutte le altre dell’anno per i volontari. Solo il menù è una festa, e questo cambia per gli assistiti. «Per Natale un pasto diverso, lasagne, cotoletta impanata, panettone o pandoro», spiega Luisa Pellerano, delegata obiettivo inclusione sociale della Cri di Cagliari.
Le vite
Tutti i volontari dell’unità di strada della Croce Rossa di Cagliari conoscono e chiamano per nome i senzatetto, per restituire loro un’identità che altrimenti si perderebbe fra cartoni, roulotte, tende e ricordi del passato. Spesso si tratta anche di persone che prima avevano uno “status”: «Ho fatto per tanti anni il muratore, ero capo cantiere e pure bravo», racconta Giuseppe, da 30 anni in strada. «Mi è sempre piaciuto lavorare, poi le cose sono andate male e sono finito così». Cosa desidera per Natale? «Solo una casa, un letto dover poter dormire al caldo e un bagno dove fare una doccia con l’acqua calda tutte le mattine».
Nella vita dei senza fissa dimora i giorni di festa sono uguali a tutti gli altri: sempre in strada. Perché chi vive in strada è sempre un ex qualcosa, un impiegato, un operaio, un marito, finito senza un tetto per le avversità della vita. «Vivevo con i miei genitori in affitto in via Monti, poi sono morti ed è cominciato il calvario», racconta Bruno. «Ho trascorso dieci mesi in ospedale per una broncopolmonite. Chiedo solo un posto per dormire, per mangiare mi arrangio». Che regalo vorrebbe per Natale? La risposta è sempre la stessa. «Un posto dove poter dormire e lavarmi», risponde Bruno. Perché in roulotte vivono i più fortunati. Chi non ha un mezzo, proprio come Bruno, dorme all’addiaccio.
Il servizio dei volontari della Croce rosse finisce a mezzanotte. Piove ancora, i volontari consegnano gli ultimi pasti e regali.

a volte la realtà è più comica dei film comici . Trending News “Gomorra” e “Suburra” a rischio sanzione? la deputata FdI Maria Carolina Varchi, di Fratelli d’Italia presenta un ddl contro chi “esalta” la mafia. “Censura mascherata da tutela morale

     in questa  caramellosa  e   melliflua     atmosfera    natalizia   oltre  alle  soliter  polemiche strumentali  su  presepi   , alberi  , luminarie , ecc   i nostri  politicanti  e  hano approfittato  (  speriamo 


che   il predidente     della  repubblica    fretello di una  vittima  di  mafia  )   per    fare  una  legge  liberticida  e   mettere  il  silenzio   su  certi argomenti  . Il potere   teme  il  dissenso  artistico e letterario .    Infatti   ho  scoperto     grazie   a questo duo comico
 


 da il  Fqmagazine  el 14\12\2025 

Presentato dalla deputata FdI Maria Carolina Varchi, il ddl sembra esporre serie tv, canzoni e post al rischio di sanzione penale

di
Claudio Savino


Una legge per contrastare gli “episodi di vera e propria apologia della criminalità organizzata, in particolare di stampo mafioso”, che da anni si susseguono “sotto varie forme”. Come, ad esempio, “gli ‘inchini’ dinanzi alle residenze di personaggi legati alla malavita nel corso di processioni religiose” o “la costruzione di altarini e monumenti in memoria di persone legate alla malavita organizzata o mafiosa”. O, ancora, “serie televisive che mitizzano personaggi reali o immaginari delle varie associazioni criminali di stampo mafioso”. È sulla base di questi presupposti che la deputata di Fratelli d’Italia Maria Carolina Varchi ha presentato una proposta per introdurre una norma che prevede fino a tre anni di carcere e una multa da 10mila euro.
Il disegno di legge, che è stato depositato alla Camera lo scorso 14 ottobre e assegnato alla Commissione II Giustizia di cui Varchi è capogruppo FdI, prevede l’estensione dell’articolo 416 del codice penale e introduce il reato di “apologia e istigazione” dei comportamenti mafiosi. La norma, se approvata, non punirebbe soltanto chi “pubblicamente esalta fatti, metodi, princìpi o comportamenti propri delle associazioni criminali di tipo mafioso”. Ma anche chi “ne ripropone atti o comportamenti con inequivocabile intento apologetico ovvero istiga taluno a commettere i medesimi delitti”.
È quest’ultimo passaggio, in particolare, a sollevare qualche dubbio. Formulata in questo modo, la legge sembrerebbe esporre al rischio di sanzioni penali anche opere artistiche, testi di canzoni e post sui social. È la stessa Varchi a indirizzare la sua proposta di legge verso un’interpretazione di questo tipo. In particolare quando, nella relazione introduttiva, inserisce le “serie televisive che mitizzano personaggi reali o immaginari delle varie associazioni criminali di stampo mafioso” e “i testi delle canzoni, che contengono messaggi espliciti di esaltazione della malavita e della criminalità organizzata, attraverso la glorificazione di figure o di episodi ad esse collegate” tra gli esempi di “episodi di vera e propria apologia della criminalità organizzata”.
Secondo la deputata, infatti, queste condotte ad oggi “non configurano nel nostro ordinamento alcun fatto penalmente rilevante” e necessitano quindi di una norma ad hoc, dal momento che “l’indignazione, la condanna mediatica, la stigmatizzazione e l’allarme sociale rimangono le uniche concrete risposte che si registrano”. E chi commette il reato verrebbe punito con “la reclusione da sei mesi a tre anni” e una multa che va dai mille ai 10mila euro. La pena può aumentare di un terzo o della metà se il fatto è commesso attraverso stampa, televisione, Internet o social.
A mettere in luce i possibili rischi interpretativi del disegno di legge è Roberto Saviano, autore di Gomorra, che sul “Corriere della Sera” ha definito la norma “legge Omertà”, perché, a suo avviso, “trasforma il racconto del crimine in un sospetto penale senza intaccare il potere criminale, colpendo invece chi lo osserva, chi lo racconta, chi lo rende intelligibile”.
Secondo l’analisi di Saviano, se questa legge passasse così com’è formulata “solo i tribunali, solo le sentenze, solo i giudici e magari qualche politico” potrebbero trattare pubblicamente il tema della criminalità organizzata. Mentre qualsiasi altro prodotto culturale, come arte, letteratura, musica e cinema, “diventa una zona grigia, potenzialmente criminale”, aggiunge. Per lo scrittore, dunque, si tratta di una “gravissima censura mascherata da tutela morale”. Insomma, la proposta di legge presentata da Fratelli d’Italia, conclude Saviano, “trasforma la cultura in una zona sorvegliata, la narrazione in un rischio penale, il pensiero critico in un sospetto”.

23.12.25

Maria inedita, uno sguardo femminista L’Osservatore Romano prova a riscoprire la Madre di Gesù oltre i dogmi e le idealizzazioni altro che obbediente come dice Giusepe laterza

Il  titolo   da  me   proposto  trova   conferma    in quest articolo del  10mdicembre   2025     di  https://www.rsi.ch/cultura/filosofia-e-religione/


 La figura di Maria, da secoli al centro della devozione popolare e della riflessione teologica, sta vivendo una nuova e stimolante fase di ripensamento, in particolare grazie all’apporto del pensiero femminista. L’inserto dell’Osservatore Romano “Donne Chiesa Mondo” ha recentemente ospitato un articolo della teologa Marinella Perroni che getta luce su questa prospettiva inedita, evidenziando come teologhe contemporanee stiano rileggendo la Madre di Gesù con uno sguardo critico e innovativo, liberandola da stereotipi e idealizzazioni. Per troppo tempo la narrazione su Maria ha oscillato tra
  

l’esaltazione e la modellizzazione esemplare, categorie che, sebbene con buone intenzioni, hanno spesso allontanato la sua figura dalla realtà storica e umana. Come sottolinea Perroni, «la storia della devozione mariana ci dimostra che parlare della Madre di Gesù è molto meno semplice di quanto si pensi perché è facile confondere il trono della Sapienza con la Sapienza stessa». Questa confusione ha portato a un allontanamento dal testo biblico e a forme di devozione non sempre in linea con la tradizione teologica cristiana. Tuttavia, il confronto con il pensiero femminista e l’ecumenismo ha aperto nuove strade. Negli ultimi decenni, il dialogo con le teologhe protestanti ha evidenziato l’importanza di un ritorno alle Scritture e di un ripensamento critico della mariologia. In questo contesto, l’interesse per una riflessione mariologica di qualità, che non veda le donne solo come “pie destinatarie”, sta prendendo sempre più piede. Due figure di spicco in questo panorama sono Linda Pocher e Teresa Forcades, le cui recenti pubblicazioni su Maria stanno generando un vivace dibattito. Entrambe partono dalla decisiva indicazione del Concilio Vaticano II, che scelse di non dedicare a Maria un documento separato, ma di inserirla nell’ultimo capitolo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, la Lumen gentium. Questa scelta intendeva ribadire che «del mistero dell’incarnazione sono protagonisti unicamente il Padre e il Figlio», e che il ruolo di Maria nella vita della comunità ecclesiale è prima di tutto simbolico in rapporto alla Chiesa stessa. Eppure, il percorso delle due teologhe si differenzia. Linda Pocher, con il suo Maria di Nazaret. Una biografia teologica (Edb), invita il lettore a seguire la “peregrinatio fidei” di Maria, un pellegrinaggio di fede che la libera dalla “inarrivabile fissità” in cui è stata imprigionata. Per Pocher, la storia di Maria è una “biografia teologica”, un racconto che rispetta «una caratteristica fondamentale del racconto biblico» che «pur narrando le vicende dell’unico Dio e del suo Unigenito, si infrange di fatto in una moltitudine di storie». Teresa Forcades, invece, nel suo Queer Mary. Il futuro dell’esperienza cristiana (Castelvecchi), dichiara che per lei riflettere su Maria ha significato ricostruire la propria biografia teologica. La monaca benedettina catalana, medico e teologa femminista, propone una rilettura dei quattro dogmi mariani, individuando nella teologia mariana «un crocevia, divenuto ineludibile nel XXI secolo per recuperare i tratti autentici dell’esperienza cristiana». Forcades arriva a suggerire che Maria possa aiutarci ad «andare più in profondità nella nostra piena umanità e a scoprire una chiamata alla queerness che non esclude nessuno». Questi nuovi approcci ricordano l’antico detto “De Maria, nunquam satis” (Di Maria non si dirà mai abbastanza), che ha spesso legittimato secoli di eccessiva devozione. Oggi, però, si aggiungono voci nuove, quelle di teologhe cattoliche che, senza timore, si confrontano con il pensiero femminista, arricchendo la nostra comprensione di Maria e aprendo nuove prospettive per la fede cristiana contemporanea.

l'atmosfera nataliza ha fatto presa su un Grinch - Ebenezer Scrooge . natale non ha solo un aspetto caramelloso e mellifluo

infatti
   

io vero significato del natale non sono tanto i regal in se ma il fatto di ritrovarsi e rinascere ogni volta . come suggerisce quest articolo

  da  https://www.italiachecambia.org/ 22 Dicembre 2025 |

Solstizio d’Inverno, tra la Natura in apnea e il significato (vero) del Natale antico

Un viaggio nel significato profondo del Solstizio d’Inverno: tra archeologia, tradizione e scienza, il buio come grembo della rinascita.

Marta Serra
 
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Quando la terra trattiene il suo nome, tutto sembra dimenticare di respirare. La luce si assottiglia fino a diventare un filo, gli alberi si spogliano fino a mostrare la loro architettura di ossa, gli animali arretrano verso tane profonde e persino il vento si muove senza spiegarsi. È il Solstizio d’Inverno, la notte più lunga, il momento in cui la natura entra in apnea. Non è morte: è concentrazione. È ascolto. È un antico gesto di preparazione al parto della luce.

Le culture che ci hanno preceduto non hanno mai letto questo passaggio come un evento lieve. La nascita del Sole non è solo una festa: è una tensione, un dolore, un respiro trattenuto. Il Sole arriva al punto più basso della sua traiettoria, come se il cielo non avesse la forza di sollevarlo ancora. Si ferma, sospende il passo e proprio in quel fermarsi, nell’immobilità della luce compressa, il mondo comincia a cambiare direzione. Il Solstizio è quindi un travaglio cosmico: la spinta silenziosa con cui la luce torna al mondo.

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Immagine di repertorio Canva

Solstizio: nel grembo delle civiltà più antiche

Prima dei Greci, molto prima, il Mediterraneo sapeva parlare molto bene il linguaggio dell’ombra. I Minoici scendevano nelle grotte come in un ventre, sicuri che la rinascita avesse bisogno del buio. Gli Anatolici narravano di un dio solare che attraversava annualmente un corridoio oscuro prima di riemergere. Le culture neolitiche costruivano templi ipogei dove la luce poteva entrare solo in due o tre giorni dell’anno, come fosse messaggio. In Sardegna, questa sapienza diventò pietra.

I nuraghi, in questo specifico senso, sono colonne vertebrali del paesaggio, luoghi dove il buio del cielo e della terra si incontrano in una stanza centrale. La loro architettura canalizza la luce, soprattutto quella solstiziale, trasformando l’alba di metà inverno in un rito di penetrazione cosmica. I menhir, verticali e immobili contro il vento, collegamento assiale tra cielo e terra, sono antenne. Aste di roccia che comunicano e fanno comunicare, radicate lì dove il Sole cambia direzione, come marcatori di un patto antico tra luce e terra. 

Mondo sotterraneo dei Greci e mondo solare dei Romani

I Greci osservavano il Solstizio come incontro tra due tempi: Kronos, il tempo che consuma, rallentava fino a quasi spegnersi, mentre Aion, il tempo eterno, apriva una fessura nella notte più lunga. In quel varco camminavano gli dèi. Era una delle stagioni di Persefone, della luce che scende nel profondo, del mondo sotteraneo. Era il momento in cui Helios faticosamente rimontava la sua ruota. Era il preludio al ritorno di Apollo, il cui passo verso la primavera non è mai immediato, ma lento, inevitabile.

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Menhir – immagine di repertorio Canva

A Roma questo periodo era una soglia viva. Nei Saturnalia, l’ordine si capovolgeva: chi comandava serviva, chi serviva comandava, i ruoli si scioglievano come neve sul fuoco. Non era caos per divertimento: era memoria del principio. Era un ritorno simbolico al brodo primordiale, affinché la società potesse rinascere. Pochi giorni dopo, il 25 dicembre, arrivava il Dies Solis Invicti: la nascita del Sole Invitto. Non un Sole forte, non un Sole estivo, ma un Sole che, pur avendo toccato l’abisso del buio, non è stato vinto.

Era la celebrazione della sua fragile vittoria: un raggio sottilissimo che, da quel giorno, avrebbe ricominciato a salire sull’orizzonte. Il Natale cristiano si è posato esattamente su questo gesto cosmico: la luce che rinasce nel punto più profondo della notte. Prima che il Carnevale prendesse forma, questo era il tempo delle maschere antiche: uomini-bestia, spiriti cornuti, ombre che camminavano tra i villaggi.

Il solstizio è un momento in cui il mondo parla in un linguaggio più sottile

Non erano mostri. Erano guide. Erano la forma che la notte prende quando accompagna la luce a rinascere. Portavano il caos necessario per sciogliere ciò che deve morire e proteggere ciò che sta per cominciare. Nella notte più lunga, le comunità accendevano fuochi. Non per illuminare, ma per invocare. Il fuoco era ed è un filo rosso tra terra e cielo, pare sussurrare padronanza di fuoco ctonio e fuoco manifesto. Ventre incadescente di terra e cuore e lume abbagliante di sole e intelligenza. Attorno a quelle fiamme, la comunità diventava e diventa un solo respiro.

La scienza del buio e download di coscienza

La natura, in questa apnea, non dorme. Rallenta. Raccoglie. Riorganizza. Le piante abbassano il metabolismo, la linfa si ritira, gli animali riducono il ritmo. Il mondo non smette: approfondisce. Anche il corpo umano si fa più denso. Cerca calore, interni, silenzio. Si nutre di ciò che radica, sogna di più, sente di più. È la nostra partecipazione al grande respiro cosmico. Nelle ore più scure dell’anno, la mente diventa un organo ricettivo. Le neuroscienze lo vedono. Le tradizioni lo sapevano.

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Nel buio il pensiero simbolico si intensifica, le intuizioni si liberano, le visioni si precisano. Il solstizio è un momento in cui il mondo parla in un linguaggio più sottile. Contrariamente a ciò che si pensa, il seme non dorme nel cuore dell’inverno. Agisce. Rompe il guscio. Si idrata. Si ancora. Mette radice. Nel solstizio, il seme comincia già a crescere. Il buio lo protegge. Il freddo gli indica la direzione. La prima spinta verso la vita si compie qui, nel ventre gelido della terra. La gioia dell’estate nasce sempre in un punto di buio.

Quando il mondo inspira di nuovo

Dopo la notte più lunga, la luce avanza di un respiro impercettibile. È appena un soffio, ma basta: il mondo inspira di nuovo. Il ciclo ricomincia. Il Natale antico non celebrava un evento, ma un mistero: ogni nascita – cosmica, vegetale, umana – è un atto di coraggio nel buio. Proprio nell’apnea del mondo tutto comincia davvero a vivere

22.12.25

fedeli all'arma da quattro generazioni continua la tradizione della famiglia contini

   credevo      fosse  uno stereotipo   ironizzato   da  checco zalone   in un  suo film     . Invece    .... 

   nuova  sardegna   22\12\2025



un segno ti salva la vita Picchiata e violentata dall’ex, donna si salva con il segnale antiviolenza






 a  tutti  quelli  che   tempo  fa     avevano messo   alla  condivisione      di questo video  

 
sul  mio  vecchio  facebook    avevano messo la  faccina   delle risate   . Suggerisco     quuesta  storia  


 da   https://www.fanpage.it/milano/

Picchiata e violentata dall’ex, donna si salva con il segnale antiviolenza: arrestato 37enne
Una 50enne sarebbe stata picchiata, perseguitata e violentata per mesi da un 37enne incontrato sui social. La donna è riuscita a chiedere aiuto grazie al segnale antiviolenza.

A cura di Giulia Ghirardi

Segnale antiviolenza
Tutto è iniziato lo scorso maggio quando una donna di 50 anni ha incontrato un uomo di 37 su una pagina social dedicata agli appassionati di moto. Tra di loro è iniziata una frequentazione che li ha portati a partecipare a diverse escursioni. Durante questi incontri, l'uomo le ha raccontato di essere divorziato ma non era vero. È iniziata così a Ferno, nel Varesotto, una storia di violenza che, stando al racconto fatto dalla donna ai carabinieri, sarebbe andata avanti fino a venerdì scorso quando lei, mentre era in macchina con il 37enne, ha fatto il segnale antiviolenza.
Proprio grazie al gesto mimato dalla donna è scattato l'allarme e, in breve tempo, l'uomo è stato arrestato su disposizione del pubblico ministero Ciro Caramore, con l'accusa di stalking, violenza sessuale, violenza privata e rapina. Al momento, non è escluso che a queste accuse si possa aggiungere anche quella di sequestro di persona.
La vicenda
Dopo le prime frequentazioni, l'uomo si sarebbe rivelato geloso e violento nei confronti della 50enne. Contestualmente, la donna avrebbe scoperto che l'uomo era sposato e avrebbe conosciuto la moglie quando il 37enne l'avrebbe portata in casa dopo averla picchiata, con il naso sanguinante. "Pensavo peggio" sarebbe stato il commento della donna, anche lei sembra "soggiogata".
Un'altra volta, stando sempre al racconto della 50enne, il 37enne l'avrebbe picchiata a tal punto da farla finire al pronto soccorso, e poi ricominciare all'uscita dell'ospedale convinto che avesse avuto un rapporto con il medico. Inoltre, la donna sarebbe stata costretta a denunciare per stupro un vecchio amico e all'incirca un mese fa, dall'11 al 18 novembre, sarebbe stata costretta a stare in casa con lui la moglie e loro figlia per aspettare che i segni delle violenze, troppo evidenti, si attenuassero, costringendola anche ad avere rapporti sessuali.
La svolta è arrivata quando, un mattino, il 37enne è salito in macchina insieme alla moglie e alla 50enne per accompagnare la figlia a scuola. È lì, ferma in macchina, che la donna avrebbe fatto il segnale antiviolenza che è stato colto da una donna che ha fatto scattare l'allarme.

La vita nel bosco no, il cambio di sesso a 13 anni sì Ogni giorno un po' di veleno sulle cose del mondo

 
come  volevasi    dimostrare  pur  d'attaccare    i  giudici  e  giustificare se  pur  indirettamente  la  riforma    sulla  giustizia  e  fare   campagna  per il Si  al referendum   questa  destra  e  i loro  fans   si mettono  a  fare    dei    paragoni idioti e  bambineschi \ puerili     del  tipo : « [...]  Ma perché far vivere i bambini nel bosco non va bene e imbottire una tredicenne di triptorelina sì? E se do da bere un caffè al bimbo, cosa faranno i giudici? Mi condanneranno perché fa male? »  ( da  https://www.nicolaporro.it/  in  La vita nel bosco no, il cambio di sesso a 13 anni sì ) .
 Per  quanto  riguarda    i  bambini  del  bosco   mi    sono  già  espresso    più volte  vedere   post  precedenti  in particolare  l'ultimo .  Ora  per    quanto   rigiuarda il  fatto  di  La Spezia, cioè della ragazza ( la più giovane d'italia ) di 13 anni che ha cambiato sesso   Sarà  vero che  come  dice  sempre  la Newsletters   di Nicola  porro 
 

A La Spezia, il tribunale autorizza una ragazzina di 13 anni, con l’assenso dei genitori, a cambiare sesso. Era già finita nella rete degli psicoterapeuti del Careggi di Firenze, uno degli ospedali dove il ministero doveva mandare gli ispettori perché pareva che, lì, si desse il via libera alle terapie ormonali per i minori, presunti affetti da disforia di genere, con troppa leggerezza. Fatto sta che lei i bloccanti della pubertà li ha assunti. E gli esperti dicono che non è come accendere e spegnere un interruttore: una volta iniziato questo percorso, tornare indietro è quasi impossibile. Può ben darsi che quello della bimba/bimbo ligure fosse uno dei rarissimi casi in cui, a tutela della persona, si doveva veramente intervenire così. E che la decisione delle toghe sia giusta.


Ma     qui   si  omette   in  malafede   che   nel fatto in questione    non   c'è solo l'assenso   dei  genitori   o  meglio  della  famiglia visto   che  la  prima  ad  accorgesi  del travaglio interiore  è stata la  gemella  e  poi  i genitori ,  il  cui assenso è avvenuto  dopo   un percorso  psicologico  in  cui  «L’adolescente ha maturato piena consapevolezza dell’incongruenza tra il suo corpo e il vissuto d’identità» ( da Vanity Fair Italia   )  e il giudice    ha  deciso   di conseguenza      ritendo  favorevole  il  responso    del medico . Quindi   ecco che  l'accusa ai  giudici   è  strumentale   e il  paragone   dei casi   :  

Però poi vediamo che, per molto meno, i giudici applicano un metro diverso: i bambini del bosco vengono tenuti ancora nella struttura protetta, non si sa se riuniti con padre e madre per Natale, perché, secondo i magistrati, hanno una tinozza al posto della doccia, non sanno fare bene la divisione in sillabe e non sono bravi a socializzare.


in  opportuno   come i cavoli  a merenda  visto che  sono  due  casi differenti   tra  loro  

21.12.25

Linda Campostrini in viaggio da sola da 13 anni: “Tutto in uno zaino e mi sposto sempre, è fattibile” o no ?

oltre alle domande dell'articolo io gli avrei chiesto  di sicuro un minimo di finanziamento per il cibo, passaporto, contratto telefonico è necessario. Se è tutto auto finanziato tramite sponsor o recensioni per di viaggioo fnanziato dai genitori oppure  ? e sei davvero in grado di vivere così oppure ogni tanto devi fermarti per ricaricare le batterie ?


da  fanpage  tramite  msn.it



Linda, in viaggio da sola da 13 anni: “Tutto in uno zaino e mi sposto sempre, è fattibile”

I segnali c'erano tutti: sin da piccola Linda Campostrini ha mostrato una certa propensione per la scoperta, l'esplorazione, una grande curiosità, una forte connessione con la natura. Queste caratteristiche hanno preso il sopravvento molto presto e ha capito di non volere una vita "normale": una casa, una residenza stabile, un lavoro scandito da orari e appuntamenti. Ha cominciato a viaggiare a 19 anni e non ha più smesso, passando da una parte all'altra del mondo con uno zaino in spalla e poca organizzazione, sempre all'avventura. Non si ferma mai molto nello stesso posto: cerca di fare il pieno di esperienze e conoscenze, per poi portare con sé questo bagaglio altrove, un bagaglio ben più pesante e importante di quello che porta sulle spalle. In quello, c'è davvero l'essenziale, senza troppi fronzoli. Il Sud America, la Lapponia, l'Islanda, il Marocco e poi Australia, Nuova Zelanda, Colombia, Francia, Finlandia, Colombia: di ogni posto conserva ricordi preziosi, ogni posto l'ha fatta crescere un po' di più, l'ha portata a comprendere di sé cose che, altrimenti, non avrebbe mai scoperto stando ferma. Viaggiare per Linda è uno stile di vita a tutti gli effetti, una vera e propria filosofia che va di pari passo alla crescita umana e personale. A Fanpage.it ha fatto un resoconto di questi entusiasmanti 13 anni in giro per il mondo.

Cominciamo dall'inizio: quando matura la tua passione per i viaggi e quando inizi a viaggiare in modo consistente?


La mia storia da viaggiatrice inizia più o meno quando avevo 19 anni. Stavo facendo il quinto anno del liceo e mia mamma prende una decisione che mi svolta la vita, ossia quella di andare a vivere in Sicilia. Mi dà tre mesi di tempo per trovare un'altra casa, perché lei si sarebbe trasferita al sud d'Italia e avrebbe iniziato la sua nuova vita giù, sposandosi con un altro uomo. All'inizio per me è stato uno shock, ma nella vita ci sono due alternative: una è farsi abbattere dagli avvenimenti, l'altra è guardare il rovescio della medaglia e reagire, sfruttare quella che magari può sembrare una sfortuna e trasformarla in un trampolino di lancio. Così ho fatto e mi sono detta: "Se devo devo andare via perché non farlo in grande". Ho quindi sfruttato quella possibilità per realizzare il mio sogno, viaggiare. Sono partita per Parigi e non sono più tornata indietro.

Quando hai capito che il viaggio era la tua ragione di vita?

Il viaggio che veramente mi ha svoltato la vita è stato quello in Australia. Ci sono stata un anno: mi ha fatto capire che potevo viaggiare, che il viaggio era alla portata di tutti, che fare vacanze è diverso da fare viaggi.




Linda, in viaggio da sola da 13 anni: “Tutto in uno zaino e mi sposto sempre, è fattibile”

Qual è la differenza?

Per fare vacanze ci vuole realmente un budget, ci vuole una disponibilità economica. Mentre viaggiare lo può fare chiunque. Io non ho mai fatto una vacanza, ho sempre fatto viaggi: lo amo. Per me è la cosa più bella del mondo, mi fa stare bene ed è fattibile per tutti.

Hai una base che consideri casa?


No, non ce l'ho una base! Mi sposto sempre. Il periodo in cui sono stata più ferma è stato quando sono stata in Australia, ma anche negli ultimi due anni sono stata più ferma, perché mi sono dedicata alla scrittura di un libro che uscirà a febbraio-marzo. Nel frattempo mi sono anche laureata in Psicologia: mi interessa aiutare gli altri, la crescita personale, il mindfulness.




Linda, in viaggio da sola da 13 anni: “Tutto in uno zaino e mi sposto sempre, è fattibile”

Quando capisci che è arrivato il momento di lasciare un posto alla volta di un altro?

Quando smetto di imparare, perché per me il viaggio è crescita personale. Quello che mi fa continuare a intraprendere queste avventure è la crescita, il fatto di uscire dalla zona di comfort, l'adrenalina, il fare cose che mi stimolano e mi obbligano a scoprire nuovi lati di me, a mettermi in gioco. Sento che impiego il mio tempo per per qualcosa di buono. Ora sono un nomade digitale, lavoro online, ma fare la lavapiatti in Nuova Zelanda, per dire, non mi peserebbe, perché so che è un'esperienza nuova e mi dà qualcosa. Se lo dovessi fare in Italia, non lo farei perché non imparerei nulla.


Ma banalmente, coi bagagli come ti organizzi? Suppongo tu sia abituata a viaggiare leggera per forza.


Adesso con me ho uno zaino di 12 kg, davvero minimal: dentro c'è tutta la mia vita. Ho due cambi al momento: due pantaloncini corti, due magliette, un paio di pantaloni lunghi e una giacca. Letteralmente l'essenziale.




Linda, in viaggio da sola da 13 anni: “Tutto in uno zaino e mi sposto sempre, è fattibile”

Ora dove ti trovi, in cosa ti stai cimentando?

Adesso sto facendo il Te Araroa, che è un cammino di 3000 km che parte da Cape Reinga, che è il punto più a nord della Nuova Zelanda e arriva a Bluff, che è il punto più a sud della Nuova Zelanda. Dovrei metterci quattro mesi, ma devo sbrigare questioni legate al visto prima!


È un viaggio improvvisato o organizzato?


In realtà io parto sempre all'avventura, quindi anche stavolta ci ho pensato poco e sono partita senza organizzare: infatti ne sto pagando le conseguenze! Avrei dovuto informarmi di più, ma io sono fatta così! Se avessi aspettato avrei dovuto rimandare all'anno prossimo, perché la gente parte da fine settembre fino a massimo aprile. Se avessi sprecato il tempo a informarmi eccetera, avrei perso tempo. Qui è una cosa folle: o la vivi o non lo puoi immaginare! Mi sveglio la mattina, non programmo nulla, poi quando mi fermo o campeggio oppure trovo un camping, oppure trovo una famiglia che mi ospiti. Questa è l'esperienza più estrema mai fatta, siamo proprio al limite. Ieri stavo per chiamare SOS elicottero! Ero finita in un punto dove c'erano tipo le sabbie mobili, una melma, un mix tra fango e sabbia bagnata, quindi si sprofondava. Faceva tipo effetto colla. Ho pensato di morire: "Non ne esco se la marea si alza e il mare mi investe". Panico! Ci ho messo 2 ore ma alla fine ce l'ho fatta.




Linda, in viaggio da sola da 13 anni: “Tutto in uno zaino e mi sposto sempre, è fattibile”

Come sempre, sei da sola…


È questa la difficoltà: che sono sola. Se ci fosse qualcuno sarebbe mentalmente un po' meno faticoso. Per i viaggi normali non mi pesa affatto, è tutta un'altra roba, sono super abituata ormai. Ma questo è considerato uno dei trekking più duri al mondo per mille ragioni: ci sono cose tecniche e logistiche che io non conosco, quindi per me è tutto nuovo. Io poi vivo molto molto bene il fatto di viaggiare da sola, ho una mentalità molto ottimista. Poi certo: in Marocco, Africa, Giordania o posti islamici è un po' più delicata la situazione. Lì sono stata un po' più attenta, però non ho mai avuto grandi problemi.


Da sola hai fatto anche quattro volte il giro del mondo in autostop…

Io faccio queste cose che ai miei occhi sembrano impossibili per dimostrare a me stessa che invece sono possibili. Quella mi sembrava così tanto fuori dalla mia portata che l'ho fatta quattro volte alla fine. È stato bellissimo.

Qual è il Paese che ti è rimasto nel cuore?

La Nuova Zelanda. La gente di qui, assieme ai giamaicani, è il popolo più accogliente dell'universo, li sto amando. Ma anche l'Islanda è uno dei miei Paesi del cuore, con Canada e Australia.




Linda, in viaggio da sola da 13 anni: “Tutto in uno zaino e mi sposto sempre, è fattibile”

E l'Italia in tutto questo dove si posiziona?

Con l'Italia ha un rapporto un po' difficoltoso. Rappresenta le mie radici, lì ho la famiglia, torno ogni tanto, ma non sprizzo gioia da tutti i pori!

La tua famiglia ha accettato questo tuo stile di vita, il fatto che, appunto, inevitabilmente vi vediate poco?


Sì e mio papà è il mio sostenitore numero uno. Mi dice: "Sono fiero di te", è contento, sono tipo il suo trofeo.

E tu, pensi a una famiglia, a un'eventuale stabilità in futuro?


Sì, desidero una famiglia un giorno, ma sarà sempre fuori fuori le righe, vivendo fuori dall'ordinario, in maniera alternativa.




Linda, in viaggio da sola da 13 anni: “Tutto in uno zaino e mi sposto sempre, è fattibile”

Un ricordo positivo e uno negativo di questi anni in viaggio?

Quello negativo è quando a Singapore mi hanno accusata di narcotraffico all'aeroporto. Io non avevo fatto nulla, ma loro avevano dei sospetti su di me. Poi lì nessuno ti dà spiegazioni: sembra che io abbia fatto la tratta che a quel tempo facevano i narcotrafficanti di droga, ero stata una settimana a Singapore e poi ero andata in Cambogia. Mi hanno tenuto lì per accertamenti 2-3 giorni, mi hanno tolto tutto, non avevo diritto di chiamare: ero in ostaggio. È stato abbastanza traumatico: avevo solo 21 anni. Il ricordo positivo, e quando ci penso mi viene da piangere, è l'amore che ricevo dalle persone, sempre pronte ad aiutarmi.


Cosa significa per te viaggiare?


Viaggiare va di pari passo con la crescita personale: impari sul campo, strada facendo, a ogni incontro, in ogni Paese. È una metafora della vita che ti insegna, ti apre la mente e ti fa scoprire lati di te stesso che ovviamente stando a casa non potresti conoscere. Ma ti fa scoprire anche la cultura e i lati umani di un altro posto. Viaggiare è una scuola di vita.

20.12.25

gli umarell ed i politicanti strumentalizzano il caso della famiglia del bosco nella natura di Palmoli (Chieti),




premetto che non sono laureato e ho solo una conoscenza superficiale delle scienze sociali ed antropologiche  e  possani esere  considerate     come: 
I politici che intervengono su qualsiasi argomento mi ricordano gli “umarell”, quei curiosissimi individui, pensionati da tempo, che stazionano davanti ai cantieri cittadini. Osservano, suggeriscono agli operai, dissentono, propongono soluzioni alternative e, ovviamente, migliorative. Poco importa che in quel cantiere ci siano un geometra, un architetto, un ingegnere, un idraulico. No, gli umarell sono impietosi: hanno sempre una soluzione diversa per tutto. Sempre. Senza esitazioni.
Sui bambini del bosco si è detto di tutto. Da una parte i giudici, dall’altra gli umarell. Beninteso: non solo politici, ma un’orda di esperti con laurea conseguita all’università della strada. I giudici, anche quelli della Corte d’Appello, hanno ribadito che il nodo più delicato per quei bambini riguarda la socializzazione e la convivenza con i loro coetanei.
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Hanno quindi dato ragione alle assistenti sociali, che in questa vicenda avevano espresso un parere netto, parlando di “deprivazione” alla quale i tre bimbi erano stati sottoposti.
Sono questioni che non dovrebbero essere discusse nei bar o davanti ai cantieri. Ma gli umarell non si scoraggiano. Subito dopo la decisione della Corte d’Appello hanno replicato, puntuali. Il primo è stato Salvini, che si è limitato a una sola parola indirizzata ai giudici: vergogna. A corredo, l’argomento che i figli non sono proprietà dello Stato e devono vivere con mamma e papà. Presumo comprendesse, in questo ragionamento, anche le famiglie rom.
La ministra Eugenia Roccella, titolare del dicastero per la famiglia, la natalità e le pari opportunità, ha sottolineato che “neanche a Natale i bambini potranno tornare a casa con mamma e papà”. Un’ovvietà, per gli umarell. Nessuno, per esempio, ha chiesto se quei genitori siano cristiani. Infine Michela Vittoria Brambilla, presidente della Commissione infanzia, ha dichiarato: “Un’ingiustizia è stata fatta: neppure a Natale i bambini potranno tornare a casa”.
Gli umarell, si sa, hanno un cuore d’oro. Non sopportano che a Natale esistano i cattivi. Subito dopo sì, ma proprio nei giorni della nascita del Salvatore la cattiveria non è ammessa. Sono basici, allegri, simpatici. Si rivolgono ai giudici non per chiedere di applicare la legge, che è cosa complicata, ma di mettersi una mano sul cuore, almeno a Natale.Gli umarell sono persone amorevoli, speciali, empatiche, curiose. Osservano i quartieri e dispensano suggerimenti anche se non sanno nulla di geometria, di ingegneria quantistica, di giurisprudenza. Fanno una tenerezza immensa. [... ]
» 

Ma davantgi a tali strumentalizzazioni politiche e da bar non riesc a stare in silenzio . Ora Qui non si sta condannando o giudicando tale scelta di vita ma come si è messa in atto Infatti un minimo di dignità e cura della persona ci dev 'essere . Quindi i giudici ed assistenti sociali sono stati costretti a prendere tale dolorose decisione . Un  minimo di dignità e cura della persona ci dev 'essere . Per quanto riguarda la Homeschooling scuola parentale . Non serve una laurea perché il bambino cresca "imparato". In classe non si socializza, lo si fa nella vita reale  . Infatti non rfiesco a biasimare Erika Di Martino, presidente Fondazione Libera Schola, si occupa di educazione ed è una delle voci più autorevoli in Italia sul tema dell’homeschooling, scuola paentale   che ha applicato tale metodo ai suoi 5 figli ( qui le  sue  dichiarazoni  e  la sua storia ). Non  ha  tutti i torti   .  in effetti anche se non mi sono  occupato di  scuoola e  non ho esercitato dopo la laurea nel  lontano 2011  e non ho più conoscenze  dirette    in quanto   i miei genitori  ex insegnanti sono in pensione da più di trent anni . da quel che sento da : amici insegnanti , da genitori , che hanno nipoti a scuola purtroppo c'è  di  vero sul  fatto   , salvo eccezioni che si contano sulle dita della mano ,   che  la  scuola   attuale    fornisce  solo   nozioni  teoretiche   e  poca  pratica   e  aprture  al  mondo  e  la scuola  parentale  può essere   un alternativa . Ma  va  saputa  fare   e  qui  on è stata saputa  fare   visto che a 8  anni non  sapevano  ancora  leggere  e  scrivere   e  il più  grande sa   a   malapena scrivere se non sotto dettatura  il  proprio nome  e  cognome . 

Aggressione al Sant'Andrea, operatrice sanitaria salva grazie alla difesa personal Fijlkam La donna si è messa in salvo respingendo il suo assalitore grazie alle nozioni apprese durante il corso MGA Fijlkam organizzato del dottor Mauro Aquilini vice-primario di pneumologia della struttura


 A  chi  mi dice   che    i miei  copia  e  incolla  (  in  realtà   essi  sono integrati  ed  approfonditi   da  mie aggiunte   \ integrazioni  )  delle  puntate  settimanali     dei consigli   di Antonio Bianco     esperto  antiaggressione     siano     fuffa     ed  inutili     dico  che esse   posso serivre come dimostra    quest  articolo  di  romatoday.it del 18 dicembre 2025



La  donna si è messa in salvo respingendo il suo assalitore grazie alle nozioni apprese durante il corso MGA Fijlkam organizzato del dottor Mauro Aquilini vice-primario di pneumologia della struttura


Grazie alla formazione del Metodo Globale Autodifesa (MGA) Fijlkam Simonetta Veneri operatrice del reparto di psichiatria dell’Ospedale Sant’Andrea è riuscita a difendersi dall’aggressione di un paziente in forte stato di agitazione. Una preparazione che ha permesso alla donna di mettersi in sicurezza e contenere una situazione che avrebbe potuto creare spiacevoli disagi.


“Purtroppo sono contesti in cui possiamo trovarci anche con una certa frequenza. Il corso è stato importante perché si impara a leggere l’atteggiamento del paziente: la postura, lo sguardo, i movimenti. Si impara a prevedere, e quindi a prevenire, un’eventuale azione aggressiva. Inoltre, si apprendono strumenti per la gestione delle emozioni. All’inizio rimanevo perplessa, stupita, immobilizzata. Non è la prima volta che subisco un’aggressione, e in passato, non riuscendo a intuirla in tempo, non sapevo come reagire. È una formazione che insegna a difendersi senza far male all’altro, evitando il rischio di passare dalla parte del torto. Il nostro è un lavoro molto complesso, soprattutto in ambito psichiatrico: siamo sempre in allerta e sotto pressione. A livello mentale dobbiamo mantenere un equilibrio costante” - – ha dichiarato Simonetta Veneri.
L’episodio si è verificato lo scorso novembre. L’operatrice del reparto di psichiatria del Sant’Andrea è riuscita a bloccare l’aggressione, parando il pugno in arrivo e spingendo via l’aggressore. Successivamente ha allertato i colleghi e la situazione è tornata alla normalità.
Fondamentale per scongiurare il peggio la formazione MGA Fijlkam che alla donna è stata trasmessa dal dottor Mauro Aquilini vice-primario di pneumologia del Sant’Andrea nonché allenatore di judo 4° dan e istruttore MGA di primo livello che ha attivato col supporto del Comitato Regionale Fijlkam Lazio, all’interno della struttura un corso di dieci lezioni settimanali aperto a personale medico e infermieristico che realizzato nell’ambito della Medicina del Lavoro, il percorso formativo proseguitasse come attività volontaria a tutela del personale sanitario
“Abbiamo organizzato questo corso in maniera sistematica e ha dato i suoi frutti. Una delle cose che avevo spiegato è che, quando si è da soli, l’obiettivo è mettersi in sicurezza; se invece si è in più persone, si possono applicare le tecniche di contenimento. La sicurezza viene prima di tutto ed è ciò che ha fatto egregiamente Simonetta Veneri. Mi ha reso orgoglioso anche l’assenza di traumi fisici, perché ha applicato perfettamente la tecnica di parata, e l’assenza di traumi psicologici. È importante sottolineare che circolano molti corsi in cui vengono applicate tecniche che sono però di competenza degli atleti e che rischiano di essere lesive sia per la persona che le subisce sia per chi le applica. Il nostro protocollo, invece, è specifico per le persone comuni. È tutto un altro mondo ed è questo l’approccio che vorremmo portare anche nelle scuole” - ha spiegato il dottor Aquilini.
“Noi facciamo un lavoro particolare che deriva anche dalla mia esperienza in Polizia. Andiamo oltre il discorso del combattimento perché ci rivolgiamo alle persone comuni. I nostri corsi sono rivolti a tecnici del Lazio, i quali poi portano la formazione acquisita nei loro ambiti. Ed è quello che è successo con il Maestro Aquilini, il quale ha portato sicurezza e padronanza nella gestualità del contenimento e della difesa da un’aggressione” - conclude il Maestro Giorgio Mascellini fiduciario regionale del Lazio e docente nazionale MGA che aveva seguito nel suo percorso di formazione il dottor Aquilini.



Irene Vella: «Ho pensato che Giulia Cecchettin poteva essere mia figlia. Ho deciso di raccontare i femminicidi dando voce alle donne»

   da   msn.it   

Scrivevo di femminicidi già  da diversi anni e ho sempre cercato di raccontarli in maniera “gentile” per quanto questo termine strida con la parola femminicidio. Ho cercato sempre di non soffermarmi sul dettaglio cruento ma ho sempre pensato al fatto che tra le persone che leggevano, ci potessero essere i parenti, i genitori. Sono andata oltre quando è scomparsa e poi è stata ritrovata morta Giulia Cecchettin». C'è un prima e un dopo per Irene Vella nel racconto dei femminicidi all'interno di Era mia figlia, che pubblica con Solferino. È il novembre del 2023 e il caso è fra quelli che più hanno colpito l'opinione pubblica.

Irene Vella «Ho pensato che Giulia Cecchettin poteva essere mia figlia. Ho deciso di raccontare i femminicidi dando voce...

Cosa ha cambiato per lei il femminicidio di Giulia Cecchettin?
«Io abito a 100 metri in linea d'aria da dove è stata uccisa. Vedo dalla finestra quella zona industriale, quel capannone. Tante componenti me l'hanno fatta sentire vicina. Mi sono arrabbiata quando ho visto che tanti parlavano di fidanzatini, cercavano di romanticizzare la storia dei ragazzi scomparsi, quando era già evidente, da così vicino, come erano andate le cose. Scrissi che c'era una vittima c'era un carnefice, e girai questo editoriale a Gino Cecchettin su Facebook, lasciandogli il numero del cellulare. E Gino, la mattina, il venerdì, quindi il giorno prima che ritrovassero Giulia, mi telefonò. Siamo rimasti 40 minuti al telefono parlando di questa ragazza e dei suoi sogni. C'era un misto di speranza e rassegnazione. Il giorno dopo c'è stato il ritrovamento. Lontano da noi, ma per tutta la settimana io uscivo con il pensiero di poterla trovare, in uno dei fossi vicini dove la cercavano. Tutta questa situazione ha cambiato il mio modo di vedere le cose. Quando poi l'hanno ritrovata, mi sono girata verso mio marito e gli ho detto che poteva essere nostra figlia. Queste cose, in quel momento preciso, mi hanno fatto dire: "D'ora in avanti, ogni volta che racconterò queste storie, le racconterò come se la persona di cui io stia parlando, che sia una mamma, che sia una nonna, che sia una figlia, una sorella, la racconterò come farei se fosse mia figlia».

La tregua di Natale del 1914: quando nemici armati scelsero di riconoscersi uomini Dove l’umanità resiste, anche quando non dovrebbe.

  La tregua di Natale del 1914 è uno dei paradossi più potenti della storia: un gesto di pace nato non dall’alto, ma dal basso.Non dai gover...