23.4.13

Nella loro solitudine



Ha compiuto 66 anni lo scorso 21 aprile ed è sempre il solito: eccessivo, grandguignolesco. Espressionista, aggiungerei, se non temessi di scivolare nella banalità. Perché Iggy Pop “è” l’espressionismo. Nella sua forma più conclamata, popolare e popolaresca.
È tornato con un album incendiario con copertina incendiaria, da kamikaze, e testi incendiari. Gli stessi, anche nei riff energici e cavernosi. Eppure non potrebbe essere che così, eppure lo riconosci sempre pugnace, vecchio e rabbioso. Mi ha attratto e l’ho pure amato, ma confesso di conoscerlo piuttosto superficialmente. Solo i brani più famosi, così clamorosamente anticipatori del punk, dell’indie, dell’heavy metal, del grunge e di tutto il graffio e la bruttura che riassumono quest’epoca incerta. La mia non vuol essere una recensione prettamente musicale. Semmai estetica; perché spesso si dimentica che il rock non è solo fenomeno musicale, ma stato d’animo. Visione e corpo. Se segno esiste della sua internazionalità, lo si percepisce nell’accostamento di due figure solo all’apparenza lontanissime: la sua, appunto, e quella d’un artista nostrano, anch’egli in questo periodo in clima di ricorrenze: disco appena pubblicato, una serie di concerti da tutto esaurito di qui a tre giorni. Mi riferisco a Renato Zero.
Che di anni ne ha 62 compiuti (ne farà 63 il prossimo settembre), che pare, e in qualche caso è, ormai alieno dagli eccessi degli esordi; eppure, se c’è stato un artista autenticamente cosmopolita, e autenticamente rock, quest’ultimo era proprio Zero.
Il giovane Iggy e il giovanissimo Renato. Immortalati nello stesso periodo (1971) da due grandi dell’obiettivo, Gerard Malanga e Arpad Kertesz. Pittori e artigiani, prima che fotografi. Entrambi nudi, entrambi frontali, entrambi maschi. Il primo, manco a dirlo, dionisiaco. Tutto muscoli e tendini, vibrante di poderosità malata, rude, ma con una malcelata grazia da Egon Schiele, e che non deve ingannare. Non un San Sebastiano, tranne una languida sensualità. Sguardo sfrontato. Renato, manco a dirlo, apollineo. Più bellino, più aggraziato. Ma stessi occhi di Iggy, persino identica posa. Bombetta in testa, a sottolineare l’ironia e la giocosità d’un frizzo altrimenti troppo ardito. In ambedue, una sessualità esibita e contemporaneamente velata, e, al suo posto, un triangolo strano; oscuro o sovraesposto in una luce confusa. Che scompare nell’istante esatto in cui si scopre. Un petto ossuto, marcato, simile a mammelle di donna. Quelle che vediamo in altre due immagini, dove un Pop ormai stagionato e un Renato ancora imberbe, conciato dal genio maligno di Patroni Griffi in isterica donna incinta (!), irridono la maschilità sfoggiandola in abiti goffi, inadatti e impertinenti.
Iggy e Renato evocano asperità da camionisti, nella voce, nelle immagini a tinte forti. Ma camionisti d’un’autostrada senza fine, quella della vita. Soffocati nella sperdutezza d’un mondo senza più identità precise. Iggy ha continuato a sorridere e a irridere, con sarcasmo e disperazione. Renato ne ha sofferto atrocemente fino a cercare consolazione in accenti sfibrati, per taluni manieristici. Ambedue icone d’un passaggio d’epoca, nevrastenica e balbuziente. Due uomini divenuti corpo senza esserne possessori. In questo, Cristi pagani – e blasfemi. Testimoni loro malgrado della crisi del maschio, del suo tragico e maestoso declino.

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