due storie di legalità

da ilfattoquotidiano online de 22\2\2011
 la prima  Storia

Bentivoglio, storia di un commerciante antimafia
Poco più di un mese fa la 'ndrangheta ha tentato di ucciderlo. Ma l'imprenditore di Reggio Calabria assicura: "Rifarei tutto"

La ‘ndrangheta ha tentato di ucciderlo poco più di un mese fa, ma l’imprenditore di Reggio Calabria Tiberio Bentivoglio rifarebbe tutto. Ha denunciato i mafiosi che volevano chiedergli il pizzo e gli hanno incendiato la sanitaria che gestisce assieme alla moglie. Voleva costituire un’associazione di volontariato e dalle intercettazioni telefoniche è emerso che il boss Santo Crucitti non era d’accordo. Ha testimoniato in aula durante il processoPietrastorta” che si è concluso il 9 febbraio 2010 con la condanna per associazione mafiosa dei suoi aguzzini i quali, però, sono stati assolti dall’estorsione nei suoi confronti.
Precisamente un anno dopo, il 9 febbraio 2011, l’imprenditore (che ora collabora con Libera) è stato gambizzato da due killer mentre si trovava in un suo terreno. Un proiettile ha colpito il marsupio che teveva a tracollo. Adesso, dopo almeno 5 attentati, vive sotto scorta.




“Io non vorrei mai diventare un simbolo per questi fatti – dice Bentivoglio – Sono semplicemente un piccolo imprenditore di questa città che ha deciso, insieme alla moglie, di aprire un’attività commerciale nel settore sanitario e prima infanzia. Le cose andavano molto bene e poi, a un certo punto, siamo incorsi nei cosiddetti “incidenti ambientali”. Il primo disturbo con la ‘ndrangheta l’ho avuto a luglio 1992 quando mi sono opposto e mi sono reso conto che stare dall’altro lato della barricata era l’unica cosa da fare. Ho dovuto subire, per la mia determinazione, diversi attentati. Ne ho avuto uno nel 1992, due nel 1998, uno nel 2003, uno nel 2005 quando un incendio mi ha completamente distrutto il negozio e nel 2008 hanno raso al suolo un mio deposito. Mi ero opposto a certe richieste che la criminalità organizzata fa a tutti i commercianti. Tutti i due processi si concludono con la condanna degli imputati per associazione mafiosa, però il mio capo di imputazione viene rigettato e viene annullata la mia costituzione di parte civile. Durante il processo, sono stato individuato dallo Stato come parte offesa, sono stato invitato a testimoniare e a dire la verità. E l’ho fatto, ma nonostante questo gli indizi non si sono trasformati tutti in prove”.
Quegli imputati, riconosciuti mafiosi per il giudice di primo grado, oggi sono liberi e vivono a poche centinaia di metri da Tiberio. Stando alle inchieste “Eremo” e “Pietrastorta”, Bentivoglio e la moglie sarebbero stati minacciati dal boss Santo Crucitti e dal braccio destro Giuseppe Romeo e “invitati” a recedere dall’iniziativa di dare vita ad un’associazione culturale a Pietrastorta.
 Un messaggio mafioso recapitato, secondo l’originario impianto accusatorio, il 13 aprile 2005 quando una bomba ha devastato l’esercizio commerciale di Tiberio che non aveva ricevuto il placet del boss come è emerso in un’intercettazione ambientale tra Giuseppe Romeo e Pasquale Morisani, oggi consigliere comunale di centrodestra.
“L’evento del 2005 è legato senz’altro a un’associazione culturale che insieme ad altri amici stavamo cercando di portare avanti. – spiega ancora l’imprenditore vittima della ‘ndrangheta – Stando alle intercettazioni, per alcuni malavitosi quest’associazione non si doveva fare e da qui, sono certo, è scaturita la distruzione del negozio. La ‘ndrangheta, qualsiasi cosa si fa nel territorio, deve tenere il controllo. Prima di tutto io disconoscevo che in quasi tutti i no-profit c’è sempre un profit. Non sapevo che, per fare un onlus, si dovrebbe chiedere il permesso ai capizona. Non l’avrei fatto comunque, figuriamoci per un’associazione di volontariato”.


di Franco Cufari e Lucio Musolino


la seconda dall'unione  del 22\2\2011 
A monserrato ( paese del cagliaritano ) degli ostaggi ,   i dipendenti di un bar, assalito da dei  rapinatori , vengono  liberati dal fratello di un bandito
«Pistola puntata addosso, mi hanno obbligato a mettermi in testa una busta. Per guidarli alla cassaforte hanno fatto due fori nella plastica all'altezza degli occhi. Ho avuto paura e mi sono sentito male». Alessandro Pistis ha 28 anni. Lavora al Cixi Bar di Monserrato saltuariamente. La notte della rapina stava sostituendo una collega: «Meglio sia capitato a me». Con lui c'era un amico della proprietaria, incappucciato dai tre rapinatori che dopo il colpo li hanno chiusi a chiave nel bagno. Ironia della sorte: a liberarli dopo un'ora e mezza è stato il fratello di uno dei tre malviventi arrestati dai carabinieri. La mattina dopo il colpo le serrande del bar sono abbassate. In via 31 marzo 1943 la notizia della rapina è argomento d'attualità. «È chiuso», dice un giovane, «dopo la rapina di ieri notte resteranno chiusi». Un'altra persona passeggia davanti al locale. Il taccuino del cronista e la macchina fotografica attirano la sua attenzione. «Siete qui per il colpo? Scrivetelo: io merito una medaglia». Perché? «Sono stato io a liberare i due baristi dal bagno». A parlare è Francesco Picciau. Il fratello Mattia è uno dei tre presunti rapinatori. «È stato un caso. Abito da queste parti e ho sentito i rumori e le urla che arrivavano dal locale. Sono entrato e ho sfondato la porta. Dentro c'erano due persone». Del fratello preferisce non dire nulla. Saluta e si allontana.La proprietaria del bar, Emanuela Murtas, nonostante la preoccupazione per quanto accaduto a un suo dipendente e all'amico è al lavoro in un altro locale che gestisce a Cagliari. Con lei c'è anche Alessandro Pistis. «Mi hanno avvisato quando sono stati liberati», racconta la titolare. «Non è la prima volta che il bar viene preso di mira. Tre mesi fa abbiamo subito un furto, hanno approfittato di un guasto all'allarme e sono entrati durante la notte. Avevano portato via un po'di soldi e merce».Domenica notte è andata diversamente. «Stavo uscendo dal bar», ricorda Pistis, «e con me c'era un amico della proprietaria. Ci dà una mano per chiudere le serrande. In due ci si sente più sicuri. Improvvisamente, dal buio, sono comparse due persone, incappucciate e con una pistola in mano». Il sospetto è che l'arma fosse un giocattolo. «Ma in questi casi non conviene rischiare. Ci hanno bendato. A me hanno fatto mettere in testa una busta, forata per permettermi di guidarli alla cassaforte e respirare. Poi ci hanno chiusi nel bagno». Sequestrati in pochi metri quadri. «Dopo abbiamo visto che avevano distrutto l'impianto di videosorveglianza per il timore di essere stati ripresi». Quando nel bar è calato il silenzio, i due prigionieri hanno provato ad attirare l'attenzione. «Abbiamo urlato e cercato di abbattere la porta», continua Pistis. «È passata più di un'ora. Poi finalmente qualcuno ci ha aperto». Il barista ammette di avere avuto paura: «Ero sotto choc. Quando mi hanno puntato la pistola addosso ho avuto una crisi di panico. E quei due mi hanno anche riso in faccia». Difficile dimenticare quei momenti: «Dai fori della busta ho cercato di capire se la pistola fosse finta. Questo mi avrebbe tranquillizzato, ma non ci sono riuscito». Eppure entrambi gli ostaggi hanno memorizzato tono di voce e abbigliamento dei rapinatori. Elementi che hanno permesso ai carabinieri di rintracciarli e arrestarli. Uno era un cliente abituale. «Lo avevamo immaginato», concludono Emanuela Murtas e Alessandro Pistis, «perché si vedeva che conoscevano bene il bar e anche le nostre abitudini. Probabilmente era da un po' che studiavano tutte le mosse per mettere a segno la rapina».
MATTEO VERCELLI

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