5.9.20

Il porno che emancipa Per i ragazzi dei Paesi repressivi, l’industria del sesso è spesso l’unico strumento di liberazione dell’immaginario

da d di repubblica DI NICOLA BARONI

 I film porno piacciono anche alle donne | RagazzeOnline

 Porn is business». Michael Lucas risponde senza neanche pensare alla domanda se abbia mai consideratoil suo lavoro come una forma di attivismo. Nato a Mosca nel 1972 da genitori ebrei e naturalizzato statunitense, una laurea in legge, nel 1998 ha fondato la casa di produzione cinematografica Lucas Entertainment, specializzata in pornografia gay.
 «Ciò non significa che non possa avere un impatto positivo sulle persone. È quello che ho vissuto io stesso: la società russa in cui sono cresciuto considerava l’omosessualità qualcosa di criminale, di cui vergognarsi. Non se ne parlava, e quando lo si faceva gli omosessuali erano rappresentati come clown, esseri umani effeminati, volgari e senza sessualità». Poi nel 1990 un amico che viaggiava per lavoro in Occidente tornò con un porno in videocassetta. «Per la prima volta vidi che le persone gay erano esseri umani sensuali, di bell’aspetto, maschili e muscolosi: cose che prima non avrei neanche potuto immaginare. Inoltre facevano sesso divertendosi, senza paura, orgogliosamente: fu una liberazione».L’omosessualità in Russia è stata depenalizzata nel 1993, ma dal 2013, con la scusa di proteggere i minori, è vietata la “propaganda gay”, concetto volutamente ambiguo. Il consumo di pornografia è permesso, ma non la sua produzione, con conseguenze paradossali. L’attivista Yulja Tsvetkova lo scorso giugno è stata accusata di “produzione e diffusione di materiale pornografico” per aver postato sul social VKontakte disegni stilizzati di vagine, e rischia fino a 6 anni di carcere; ma questo stesso social è una delle piattaforme più utilizzate dai russi per accedere alla pornografia pirata statunitense, omosessuale e non. «I social e i media del Paese oggi permettono di conoscere la realtà occidentale, inoltre ci sono club e associazioni gay. Una situazione simile a quella della Russia in cui sono cresciuto si ritrova oggi in molti paesi africani e mediorientali», continua Lucas. «Ricevo migliaia di messaggi sui miei profili social da giovani di tutto il mondo, molti da paesi musulmani, che mi esprimono gratitudine per il mio lavoro».La Lucas Entertainment è rimasta una casa di produzione indipendente, mentre tutte le altre negli ultimi anni sono state acquisite dai due colossi del settore (AEBN e MenGeek), incapaci di fronteggiare da sole la pirateria e la concorrenza delle piattaforme che monetizzano la produzione amatoriale, come OnlyFans. Eppure è solo attraverso la pirateria che i video di Lucas - scaricati, tagliati, rimaneggiati, compressi - arrivano agli smartphone dei ragazzi ugandesi, che se venissero scoperti a ripetere quegli atti rischierebbero addirittura l’ergastolo. «Fino all’università non immaginavo nemmeno esistessero porno gay», racconta uno studente di 30 anni di Kampala, da tre anni in Italia, che preferisce mantenere l’anonimato. Poiché il costo della connessione a Internet in Uganda è elevato, per molti l’unico modo per accedere a questi contenuti è lo scambio su chat a basso consumo di dati: «C’erano diversi gruppi WhatsApp in cui si condividevano immagini e video porno. Un amico mi ha fatto entrare in un gruppo di cinquanta persone: non ci conoscevamo, si parlava di tutto ma in maniera superficiale. Poi, un giorno alla settimana (il porn Tuesday), era dedicato alla condivisione di video da parte di chi poteva scaricarli, magari dall’ufficio. I video erano di pochi minuti, di bassa qualità, ma bastavano». Più che un piacere superfluo, quello era il loro unico spazio di libertà: «Il sesso gay era considerato una deviazione innaturale e immorale, con quei video ho scoperto che due uomini potevano divertirsi facendo sesso, che questo poteva essere una gioia e che l’omosessualità non c’entrava nulla con la pedofilia, al contrario di quanto volevano farci credere».

da d   di repubblica  

di Nicola Baroni


L’Uganda è il Paese con il maggior numero di ricerche su Google per “gay sex pics”. Al secondo posto la Nigeria, dove gli atti omosessuali sono puniti con la pena di morte. Il costo della connessione e la scarsità dei mezzi tecnologici per ora consentono a entrambi gli Stati africani di non preoccuparsi di bloccare l’accesso alla pornografia online. Cosa che invece la Cina fa sistematicamente da 12 anni: nel solo 2010, 60mila siti web sono stati chiusi e migliaia di cyber cinesi puniti per diffusione di pornografia online. Nonostante la censura, la Cina è il terzo Paese per numero di accessi a Pornhub Gay, sottosezione della più grande piattaforma di pornografia online, che nel 2019 ha avuto 42 miliardi di visite, circa 115 milioni al giorno (il 6% del traffico del sito riguarda la sezione gay). «I giovani sono sempre riusciti ad aggirare la censura in vari modi», spiega Runze Ding, 31 anni, originario di Shenzhen e dottorando in Media e Comunicazione all’Università di Leeds. «I più tecnologici oggi usano VPN, cioè una rete di telecomunicazioni privata che permette di cambiare la posizione virtuale del proprio IP, per accedere a piattaforme occidentali, da OnlyFans a Twitter, che è sempre più utilizzato per diffondere pornografia. Molti utiizzano i gruppi di WeChat -il WhatsApp cinese - per vendere e acquistare video, poi ci sono le chat online, i social come Weibo, le app di live-streaming, insomma ogni piattaforma è buona». Ding ha passato quasi un anno, tra il 2016 e il 2017, con alcune comunità di giovani omosessuali di Guangzhou e Pechino, e ha intervistato 82 ragazzi nati tra gli anni ’80 e ’90. Uno degli obiettivi era capire il loro rapporto con la pornografia per uno studio pubblicato lo scorso giugno sul Porn Studies Journal. «Tutte le persone che ho incontrato hanno consumato pornografia fin da giovani: hanno imparato tutto lì, perché l’educazione sessuale nel Paese non include ovviamente i rapporti omosessuali».
Con la diffusione di Internet, quei ragazzi hanno avuto libero accesso alla pornografia occidentale e giapponese, fino a quando il governo non se ne è accorto. Tra il 2010 e il 2013, all’apice della censura online, hanno cominciato a comparire alcuni video della serie Chitu, una misteriosa casa di produzione locale. «Gli attori erano cinesi, forse prostituti, i video non di buona qualità se confrontati con quelli occidentali e giapponesi, e molto focalizzati sull’atto sessuale, senza contesto», spiega Ding. Prodotti scadenti, ma in cui per la prima volta compariva il corpo cinese sessualizzato e quei ragazzi scoprivano di essere non solo voyeur ma chiamati direttamente in causa: «A sorpresa, nonostante la scarsa qualità, tutti i miei intervistati apprezzavano quei video perché li sentivano più autentici. Per loro era più facile immedesimarsi».
La produzione locale negli ultimi anni era riemersa attraverso alcune app di live-streaming, ma il Governo nel 2018 ha attribuito la responsabilità dei contenuti trasmessi dagli utenti alle società proprietarie delle app, incoraggiandole a spiarsi e denunciarsi a vicenda. Nello stesso anno due donne sono state condannate a 10 anni di prigione per aver diffuso racconti a tema omosessuale. Il gruppo Lesbian Database ha sfidato la censura pubblicando video porno con attrici vestite: sono stati rimossi. «Ora i creatori cinesi di contenuti pornografici, piccole compagnie o individui, si stanno spostando su piattaforme occidentali come Twitter e OnlyFans», spiega Ding. «Rischiano, ma sono più determinati della censura». Con oltre 100 miliardi di dollari di fatturato annuale, stigmatizzata dai moralisti, disapprovata dalle religioni, snobbata dall’intellighenzia, trascurata dagli economisti, ostacolata dalla politica, l’industria del porno sarà anche solo un business, ma in alcuni casi è l’unica che racconti a molti ragazzi quanto sia eccitante la libertà.  

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