da d di repubblica
DI NICOLA BARONI
Porn is business». Michael Lucas risponde senza neanche pensare alla
domanda se abbia mai consideratoil suo lavoro come una forma di
attivismo. Nato a Mosca nel 1972 da genitori ebrei e naturalizzato
statunitense, una laurea in legge, nel 1998 ha fondato la casa di
produzione cinematografica Lucas Entertainment, specializzata in
pornografia gay.
«Ciò non significa che non possa avere un impatto
positivo sulle persone. È quello che ho vissuto io stesso: la società
russa in cui sono cresciuto considerava l’omosessualità qualcosa di
criminale, di cui vergognarsi. Non se ne parlava, e quando lo si faceva
gli omosessuali erano rappresentati come clown, esseri umani effeminati,
volgari e senza sessualità». Poi nel 1990 un amico che viaggiava per
lavoro in Occidente tornò con un porno in videocassetta. «Per la prima
volta vidi che le persone gay erano esseri umani sensuali, di
bell’aspetto, maschili e muscolosi: cose che prima non avrei neanche
potuto immaginare. Inoltre facevano sesso divertendosi, senza paura,
orgogliosamente: fu una liberazione».L’omosessualità in Russia è stata depenalizzata nel 1993, ma dal 2013,
con la scusa di proteggere i minori, è vietata la “propaganda gay”,
concetto volutamente ambiguo. Il consumo di pornografia è permesso, ma
non la sua produzione, con conseguenze paradossali. L’attivista Yulja
Tsvetkova lo scorso giugno è stata accusata di “produzione e diffusione
di materiale pornografico” per aver postato sul social VKontakte disegni
stilizzati di vagine, e rischia fino a 6 anni di carcere; ma questo
stesso social è una delle piattaforme più utilizzate dai russi per
accedere alla pornografia pirata statunitense, omosessuale e non. «I
social e i media del Paese oggi permettono di conoscere la realtà
occidentale, inoltre ci sono club e associazioni gay. Una situazione
simile a quella della Russia in cui sono cresciuto si ritrova oggi in
molti paesi africani e mediorientali», continua Lucas. «Ricevo migliaia
di messaggi sui miei profili social da giovani di tutto il mondo, molti
da paesi musulmani, che mi esprimono gratitudine per il mio lavoro».La Lucas Entertainment è rimasta una casa di produzione indipendente,
mentre tutte le altre negli ultimi anni sono state acquisite dai due
colossi del settore (AEBN e MenGeek), incapaci di fronteggiare da sole
la pirateria e la concorrenza delle piattaforme che monetizzano la
produzione amatoriale, come OnlyFans. Eppure è solo attraverso la
pirateria che i video di Lucas - scaricati, tagliati, rimaneggiati,
compressi - arrivano agli smartphone dei ragazzi ugandesi, che se
venissero scoperti a ripetere quegli atti rischierebbero addirittura
l’ergastolo. «Fino all’università non immaginavo nemmeno esistessero
porno gay», racconta uno studente di 30 anni di Kampala, da tre anni in
Italia, che preferisce mantenere l’anonimato. Poiché il costo della
connessione a Internet in Uganda è elevato, per molti l’unico modo per
accedere a questi contenuti è lo scambio su chat a basso consumo di
dati: «C’erano diversi gruppi WhatsApp in cui si condividevano immagini e
video porno. Un amico mi ha fatto entrare in un gruppo di cinquanta
persone: non ci conoscevamo, si parlava di tutto ma in maniera
superficiale. Poi, un giorno alla settimana (il porn Tuesday), era
dedicato alla condivisione di video da parte di chi poteva scaricarli,
magari dall’ufficio. I video erano di pochi minuti, di bassa qualità, ma
bastavano». Più che un piacere superfluo, quello era il loro unico
spazio di libertà: «Il sesso gay era considerato una deviazione
innaturale e immorale, con quei video ho scoperto che due uomini
potevano divertirsi facendo sesso, che questo poteva essere una gioia e
che l’omosessualità non c’entrava nulla con la pedofilia, al contrario
di quanto volevano farci credere».
da d di repubblica
di Nicola Baroni
L’Uganda è il Paese con il maggior numero di ricerche su Google per “gay
sex pics”. Al secondo posto la Nigeria, dove gli atti omosessuali sono
puniti con la pena di morte. Il costo della connessione e la scarsità
dei mezzi tecnologici per ora consentono a entrambi gli Stati africani
di non preoccuparsi di bloccare l’accesso alla pornografia online. Cosa
che invece la Cina fa sistematicamente da 12 anni: nel solo 2010, 60mila
siti web sono stati chiusi e migliaia di cyber cinesi puniti per
diffusione di pornografia online. Nonostante la censura, la Cina è il
terzo Paese per numero di accessi a Pornhub Gay, sottosezione della più
grande piattaforma di pornografia online, che nel 2019 ha avuto 42
miliardi di visite, circa 115 milioni al giorno (il 6% del traffico del
sito riguarda la sezione gay). «I giovani sono sempre riusciti ad
aggirare la censura in vari modi», spiega Runze Ding, 31 anni,
originario di Shenzhen e dottorando in Media e Comunicazione
all’Università di Leeds. «I più tecnologici oggi usano VPN, cioè una
rete di telecomunicazioni privata che permette di cambiare la posizione
virtuale del proprio IP, per accedere a piattaforme occidentali, da
OnlyFans a Twitter, che è sempre più utilizzato per diffondere
pornografia. Molti utiizzano i gruppi di WeChat -il WhatsApp cinese -
per vendere e acquistare video, poi ci sono le chat online, i social
come Weibo, le app di live-streaming, insomma ogni piattaforma è buona».
Ding ha passato quasi un anno, tra il 2016 e il 2017, con alcune
comunità di giovani omosessuali di Guangzhou e Pechino, e ha
intervistato 82 ragazzi nati tra gli anni ’80 e ’90. Uno degli obiettivi
era capire il loro rapporto con la pornografia per uno studio
pubblicato lo scorso giugno sul Porn Studies Journal. «Tutte le persone
che ho incontrato hanno consumato pornografia fin da giovani: hanno
imparato tutto lì, perché l’educazione sessuale nel Paese non include
ovviamente i rapporti omosessuali».
Con la diffusione di Internet, quei ragazzi hanno avuto libero accesso
alla pornografia occidentale e giapponese, fino a quando il governo non
se ne è accorto. Tra il 2010 e il 2013, all’apice della censura online,
hanno cominciato a comparire alcuni video della serie Chitu, una
misteriosa casa di produzione locale. «Gli attori erano cinesi, forse
prostituti, i video non di buona qualità se confrontati con quelli
occidentali e giapponesi, e molto focalizzati sull’atto sessuale, senza
contesto», spiega Ding. Prodotti scadenti, ma in cui per la prima volta
compariva il corpo cinese sessualizzato e quei ragazzi scoprivano di
essere non solo voyeur ma chiamati direttamente in causa: «A sorpresa,
nonostante la scarsa qualità, tutti i miei intervistati apprezzavano
quei video perché li sentivano più autentici. Per loro era più facile
immedesimarsi».
La produzione locale negli ultimi anni era riemersa attraverso alcune
app di live-streaming, ma il Governo nel 2018 ha attribuito la
responsabilità dei contenuti trasmessi dagli utenti alle società
proprietarie delle app, incoraggiandole a spiarsi e denunciarsi a
vicenda. Nello stesso anno due donne sono state condannate a 10 anni di
prigione per aver diffuso racconti a tema omosessuale. Il gruppo Lesbian
Database ha sfidato la censura pubblicando video porno con attrici
vestite: sono stati rimossi. «Ora i creatori cinesi di contenuti
pornografici, piccole compagnie o individui, si stanno spostando su
piattaforme occidentali come Twitter e OnlyFans», spiega Ding.
«Rischiano, ma sono più determinati della censura». Con oltre 100
miliardi di dollari di fatturato annuale, stigmatizzata dai moralisti,
disapprovata dalle religioni, snobbata dall’intellighenzia, trascurata
dagli economisti, ostacolata dalla politica, l’industria del porno sarà
anche solo un business, ma in alcuni casi è l’unica che racconti a molti
ragazzi quanto sia eccitante la libertà.
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