Lea, la regina delle lettere classiche: «All’estero con il latino si lavora» Romana, 28 anni, premiata da Cambridge e Borghi e aree interne, cosa fare? La visione dell’antropologa Anna Rizzo sulla vita nei piccoli paesi, sulla mancanza di servizi e sul ruolo delle comunità

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dal corriere  della sera  del 28\9\2020 

di Marco Gasperetti

Lea, la regina delle lettere classiche: «All’estero con il latino si lavora»
Romana, 28 anni, premiata da Cambridge: devo tutto a Seneca e ai miei professori. «Non mi sento un cervello in fuga, ma in Italia sarebbe stato tutto più difficile»


                                    Lea Niccolai a Cambridge



L’attrazione per la classicità, se così si può definire quella misteriosa pulsione che spinge a decifrare le antiche lettere, a Lea si è manifestata in prima liceo classico durante una lezione su Seneca. Perché a volte anche le frasi latine sono come frecce che raggiungono l’inconscio più profondo. E quelle parole del filosofo, Omnia aliena sunt, tempus tantum nostrum est («Niente ci appartiene, solo il tempo è nostro») fu per quella ragazzina di 16 anni una rivelazione sconvolgente e probabilmente il primo passo verso quel cammino faticoso di studi che l’ha portata a vincere un premio secolare all’università di Cambridge.
Dal liceo classico alla Normale di Pisa
E già perché Lea Niccolai, che oggi di anni ne ha 28, si è diplomata al liceo classico «Anco Marzio» di Ostia, è allieva della Scuola Normale Superiore e a Pisa ha ottenuto due lauree — Lettere Classiche e Orientalistica —, è stata appena premiata con l’«Hare Prize» per la migliore tesi di dottorato di ricerca dall’università di Cambridge, dove dal 2019 è ricercatrice in «Classics/Oriental Studies». La tesi premiata resterà nell’archivio dell’Università inglese e poi diventerà anche un saggio, al quale la ricercatrice italiana ha già iniziato a lavorare.
La tesi su Giuliano l’Apostata
«Ho studiato Giuliano l’Apostata andando alla ricerca di testi in greco — racconta Lea — e cercando di capire perché lui, nipote di Costantino primo imperatore cristiano dell’Impero Romano, avesse scelto di tornare al paganesimo. E ho trovato una risposta al quesito: Giuliano vedeva la cristianità come un’intromissione nella filosofia e nella politica del tempo. Credo che l’Apostata debba essere rivalutato». Che, raccontata con questa semplicità, sembra l’intuizione più facile al mondo e invece è costata alla studentessa, oggi ricercatrice, anni di lavoro rigoroso, fatica e sacrifici per costruirsi un bagaglio di conoscenze invidiabile per la sua giovane età.
«Insegnanti bravissimi»
«Certo, il mio amore per il latino mi ha stregata sin da adolescente — confessa Lea — ma non avrei mai pensato di diventare una classicista. Ho avuto insegnanti bravissimi che mi hanno raccontato Virgilio, Orazio, Catullo e Seneca in un modo straordinario. Con loro mi si è aperto un universo». Che non è, badate bene, quello di una incorreggibile secchiona. Lea è una ragazza del suo tempo, ha tanti hobby. «Amo la musica — racconta —. Suono il pianoforte e la chitarra. Mi piacciono Bach e Chopin ma anche il rock-folk sperimentale dei Bon Iver, la profondità del jazz mi appassiona, Lucio Battisti mi emoziona». Poi ci sono lo yoga e l’amore infinito per gli animali: «Sono animalista e vegana», dice con orgoglio. Infine ecco i libri, naturalmente. Librerie intere. Classici greci e latini, ma anche contemporanei, saggi, raccolte di poesie di ogni epoca e tendenza.
«Le aziende apprezzano la formazione classica»
La dottoressa Lea si sente un cervello in fuga? «No, io sono una ragazza che ama molto viaggiare, avere nuovi stimoli, conoscere culture diverse — risponde —. Non fuggo, mi muovo per conoscere. Però ammetto che se avessi desiderato restare in Italia tutto per me sarebbe stato più difficile. Sono molto grata alla scuola pubblica italiana, dal liceo sino alla Normale. I miei connazionali che arrivano a Cambridge sono stimati per la loro cultura umanistica, che nel Regno Unito è molto apprezzata e aiuta a trovare lavoro». Un lavoro grazie a Eraclito e Seneca? «Sì, a differenza che in Italia dove le discipline umanistiche vengono un po’ svilite e non danno sbocchi professionali — spiega Lea —. Qui ci sono molte aziende che apprezzano una formazione classica. Ci sono imprenditori che ritengono importante la flessibilità intellettuale che si conquista imparando le lettere antiche. Amano chi coltiva la capacità critica dei romani e dei greci, chi possiede un’ampiezza culturale fuori e dentro il suo tempo, chi ha la capacità di imparare dal passato»


 da https://officinadeigiornalisti.com    del   24\9\2020
Borghi e aree interne, cosa fare?

La visione dell’antropologa Anna Rizzo sulla vita nei piccoli paesi, sulla mancanza di servizi e sul ruolo delle comunità

Quella appena trascorsa è una estate in cui i borghi, dopo la pandemia, sono tornati ad animarsi più del solito. Qualcuno ha trascorso qualche settimana in più anche grazie alla possibilità di lavorare in smart working. Con l’arrivo dell’autunno e con la riapertura delle scuole, però i piccoli comuni – anche in Molise – tornano alla solita routine. Ai passi lenti dei suoi abitanti. Al silenzio e alla voglia di ripartire, perché il percorso (forse) è quello giusto, ma è necessario colmare della mancanze.
Anna Rizzo, antropologa che studia ed esplora contesti culturali arcaici e si occupa della trasformazione economica in aree a forte spopolamento in Europa e di forme residuali di culture rurali, spiega che ad oggi vivere in un borgo delle aree interne potenzialmente è possibile, ma fattivamente no.
“Mancano le infrastrutture e i servizi di base come le strutture sanitarie, di primo soccorso, le scuole, i centri culturali e i luoghi di aggregazione per le fasce più giovani. Per non parlare dei gravi problemi idrogeologici che obliterano il territorio italiano, e hanno causato migrazioni o spostamenti necessari.
Parliamo di paesi e non di borghi. Il termine borgo è solo un hype. Un cliché per individuare un luogo ameno e dal sapore antico. La maggior parte dei paesi definiti borghi sono luoghi in cui l’abusivismo e l’abbandono di qualsiasi criterio di tutela del paesaggio ha fatto da padrone. Non cadiamo nella trappola semantica delle parole. Il ritorno “nei borghi” non è un caso, perché se si sono mantenuti integri e ben ristrutturati è grazie all’intervento dei privati o di chi ha seconde case che si è preso cura del luogo. Il ritorno di cui si parla è nei paesi, che descrivono un ambiente sociale ben diverso. Da cui molti se ne sono andati in cerca di una vita migliore. Per realizzarsi nel lavoro e come persone, per lavorare in maniera dignitosa e uscire da un “ciclo dei vinti”.





Servizi che mancano e che portano a quello scoraggiamento che fa scattare la voglia di andare via, perché ci si sente poco considerati. Molto spesso il pensiero comune di chi vive in un paese della aree interne è di “essere l’ultima ruota del carro” e anche l’unione delle persone, poche volte, riesce a fare la forza. Ed è per questo che secondo Rizzo bisogna sostenere bambini, giovani e adulti nella loro realizzazione dando loro la stessa possibilità di scelta che c’è nelle città.
E se per tanti sarebbe dannoso, per questi territori, perdere persone, Anna Rizzo, da antropologa sostiene che bisogna lasciarle andare e dare sostegno economico a chi vuole formarsi.
“Con borse di studio per formarsi, e dando la possibilità di spostarsi per cercare lavoro altrove. Molti non hanno né l’istruzione, né gli strumenti economici per andarsene. Sono nella trappola del paese, tra una perenne disoccupazione e lavori in nero sottopagati.
Non si può chiedere a un ragazzo o a una giovane coppia di rimanere in un paese senza servizi e di lottare per averli. Dovrebbe essere di competenza delle amministrazioni, e finora queste carenze sono baratri. Nei paesi manca tutto, oltre alla mancanza dei servizi, di un piano di mobilità, scuole, e presidi medici, manca un piano culturale. Non si può vivere solo di famiglia e cibo. Mancano spazi fondamentali come le biblioteche, le librerie, i cinema e i teatri. In molti posti manca anche la connessione internet e una copertura telefonica. Non si possono fare crescere i bambini con gli anziani, è una brutalità. Usciamo dalla retorica delle radici, le mani sapienti, e gli anziani. Tutti ogni giorno ci chiediamo di imparare qualcosa in più rispetto al giorno prima. Nei paesi la vita culturale è avvilente. Non bisogna confondere le giornate estive con i turisti in piazza, nei paesi bisogna andarci d’inverno”.
Sarebbe dunque necessario lavorare per poter riempire quelle piazze anche l’inverno. Lavorare sulle comunità che hanno un ruolo importante all’interno di un paese e dovrebbero quindi unirsi per poter lavorare in micro-progetti, superando anche quelle ostilità che in alcuni territori ancora ci sono.
“Per esperienza le comunità non si costruiscono, si ricettano o si formano da sole. Quando leggo proposte, di start up, di gruppi di ricercatori, di associazioni che lavorano sul sociale con lo scopo di creare una comunità ho i brividi. Far parte di un gruppo per la creazione di una comunità, in questo caso legata ad un luogo, ha a che fare con qualcosa di intimo ed esistenziale. Ci vogliono anni per conoscere un paese, le famiglie e le persone. Sempre se te lo permettono. Tutti i metodi possono essere validi, Ma se non hanno fiducia nel progetto e in chi lo propone è solo tempo perso. I tempi delle call for action che promuovono costruzioni comunitarie sono molto veloci e spesso con finalità effimere, non legate al territorio, al paese, ma tendono solo a far parte di un contesto, di un trend che in questo momento solletica molti.
Il termine comunità, per il suo significato implicito di aggregante, ecumenico e di rassicurante è molto usato in tutti i progetti, e lo usa anche tanto la pubblicità.
Borghi, comunità, sono termini del momento, cosa ne rimarrà quando saranno argomenti defunzionalizzati. Si sarà data un’immagine errata di luoghi dove in verità la malversazione e il clientelismo, la mafia rurale, hanno fatto da padrona, rimasti arretrati in un divario economico e culturale spaventoso, senza servizi e rappresentati da sindaci che hanno scelto di puntare su un racconto falsato del proprio territorio: il borgo autentico”.
Sul fenomeno dello spopolamento Anna Rizzo ha poi una visione molto chiara: non lo si può arginare, o per lo meno non lo si può fare nelle condizioni in cui vertono oggi le aree interne.
“La storia e l’archeologia ci insegnano che per motivi economici, o dei disastri ambientali o a causa di guerre molte città, insediamenti si sono spopolati. In cerca di luoghi più sicuri e più ricchi. Lo spopolamento di un luogo non indica la sua morte. In questo momento non ci sono le condizioni per vivere lì. Ed è una brutalità sponsorizzare il ritorno in questi posti, dove si vivono condizioni estreme. Non abbiamo più le competenze per vivere così isolati e senza servizi minimi. Tornare a vivere in un paese spopolato vuol dire anche sostenere delle spese folli per mettere l’impianto idrico, fognario, elettrico, sistemare strade, provvedere al riscaldamento e avere dei mezzi di spostamento per muoversi in condizioni anche critiche.
I piani di recupero per alcune comunità, sono legati prima allo studio specifico del luogo. Non si può prescindere da una ricognizione archeologica, geologica, storica, artistica e sociale di un luogo. Dai dati che emergono si possono fare diverse valutazioni sulle prospettive di intervento. Sono lavori di team che durano anni, ma sono fondamentali per creare delle reali prospettive economiche in cui le persone sono coinvolte”.
Ma si potrebbero creare degli esempi virtuosi, per questo bisogna partire da ciò che ogni borgo e ogni territorio possiede.
“È possibile, creando team di professionisti del territorio. I molti ragazzi, che sono andati via potrebbero lavorare insieme sulla ricostruzione territoriale. Sarebbero in grado di progettare e avere una visione elettiva sul loro luogo di origine. A differenza delle generazioni precedenti, la nostra è molto critica sulle modalità di predazione condotte finora. In cui l’ambiente, il paesaggio e lo sfruttamento delle risorse minerarie è stato condotto senza ritegno.
Sarebbe un bel risarcimento, perché sono sicura che molti di loro hanno immaginato modalità diverse e sostenibili per tornare a frequentare quei luoghi. Non dico ritornarci a vivere ma dargli una seconda possibilità”.
In questi posti dove la determinazione e la caparbietà di chi ci abita porta a fare cose per quel luogo. In molti territori, sono proprio gli abitanti che si rimboccano le maniche e si danno da fare.
“Sono sfiniti di vedere il disfacimento strutturale del proprio paese, a cui si unisce poi quello morale. Sono persone straordinarie, che vanno riconosciute e va sottolineato che la comunità o la frazione è intervenuta in maniera operativa anche autotassandosi per il rifacimento di muretti o la pulizia del paese. Purtroppo l’uso errato del termine resilienza ha fatto fin troppi danni”.
E se per molti i paesi delle aree interne dopo la pandemia possono tornare al centro della scena, non solo turistica, l’antropologa Anna Rizzo e di tutt’altro parere.
“Le città sono indispensabili. Non ci sarà un ritorno nei paesi. Manca tutto e soprattutto, il controllo sociale che vivi nei paesi è vessatorio. Il paese ha le sue regole, e se vuoi viverci devi accettarle. La mentalità dei paesi è anche un humus di ignoranza, superstizione, e atteggiamenti consuetudinari spesso arretrati che sono paralizzanti. Non hai un contraddittorio. Sono luoghi del dogma. Non ci vuole molto prima che tu te ne accorga”.
Nulla però deve scoraggiare chi in questi posti vuole continuare a viverci, ma è necessario che per farlo degnamente vengano colmate quelle mancanze che sono ancora troppo evidenti. E l’arrivo dell’autunno, quando questi posti tornano alla loro regolare quotidianità, possa dare la vera visione delle cose.

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