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2.8.24

Le imprese e quei sospetti di doping che inquinano il clima., L'Olimpo degli sconfitti Perché perdere non è più un dramma

 lia_capizzi


Il record del cinese Pan è abnorme (46"40 nei 100sl) e a bordovasca spiccano gesti di insofferenza, battutine. Il caso di doping della Cina, venuto alla luce ad aprile, ha avvelenato l'atmosfera. Gli atleti insorgono: non si sentono tutelati L' FBI indaga sul caso, il Parlamento tedesco chiede risposte alla Wada. Etcc La credibilità del sistema antidoping è ai minimi termini


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Questione di centimetri, di centesimi di secondo, di decisioni arbitrali dubbie. Negli ultimi giorni ai giochi olimpici abbiamo visto diversi giovani atleti italiani venire eliminati, mancare il podio o la medaglia più ambita per poco. Anzi, pochissimo.A fare più discutere è stata forse la vicenda di Filippo Macchi, che ha perso l’oro olimpico nel fioretto individuale per una sola stoccata dopo ben tre decisioni dubbie dell’arbitro. Ma si è parlato molto anche di Benedetta Pilato, arrivata quarta per un solo centesimo nei 100 metri rana – e che in più è stata oggetto di alcune più o meno velate critiche in diretta nazionale. Oggi Massimo Stano è arrivato quarto per appena un secondo dopo 20 chilometri di marcia. Ma ci sono stati anche i casi di Jasmine Paolini, eliminata al tie-break nel singolare femminile di tennis, dei judoka Odette Giuffrida e Manuel Lombardo, usciti dal giro delle medaglie per via di discutibili penalità inflitte dagli arbitri, e infine di Irma Testa, eliminata nel pugilato in un modo che ha prodotto molte polemiche.

Eppure, c’è un’altra cosa che accomuna tutti questi atleti: la grande sportività e serenità con cui hanno accettato il verdetto del campo. Notevole soprattutto la Pilato, che a caldo ha parlato del fatto che si trattasse comunque del “giorno più bello della sua vita”. Ma anche Macchi, che a meno di 24 ore dalla bruciante sconfitta ha scritto in un post sui social di “sentirsi un ragazzo fortunato” e che “le decisioni arbitrali vanno rispettate, sempre!”. Paolini, poi, uscita dal campo ha subito ammesso che l’avversaria “meritava di vincere” – e dopo poche ore è tornata in campo passando il turno del doppio. Infine Stano, che nonostante aver mancato il podio per un soffio si è presentato davanti ai microfoni con un grande sorriso.Tutto questo ci può forse dire qualcosa del modo con cui le nuove generazioni guardano allo sport – e quindi, in generale, all’impegno, alla competizione e al miglioramento di sé. Capirlo può essere prezioso anche per coinvolgerli maggiormente nelle organizzazioni e nella società, e cogliere così al meglio i cambiamenti che le nuove generazioni giocoforza porteranno – e stanno già portando – in varie dimensioni della società: dalla politica all’impresa; dalla cultura allo spettacolo.
Com’è cambiato lo sport nelle ultime decadi? La cosa più evidente, mi pare, è che è diventato una professione a tutti gli effetti. Se negli anni ’80 a potersi dedicare esclusivamente all’attività sportiva erano solo gli atleti delle discipline più popolari e nei Paesi più ricchi, oggi praticamente ogni olimpionico fa dello sport il proprio lavoro. Questo ha ovviamente molti aspetti positivi, ma alla lunga presenta anche qualche problema.
Fino a non troppo tempo fa le stesse Olimpiadi erano dedicate ai soli atleti non professionisti. L’ambizione, di cui era grande promotore il barone De Coubertin, era quella di rendere i Giochi una competizione di “battaglie pacifiche e cortesi, non contaminate dalla caccia al denaro” in cui, notoriamente, “l’importante non era vincere ma partecipare”. Soltanto a Seul 1988 furono ammessi ai Giochi anche atleti dichiaratamente professionisti.Che effetti ha un professionismo diffuso? Tra quelli positivi, una maggiore “democratizzazione” delle discipline: se si limita una competizione ai soli amatori, è chiaro che sarà molto avvantaggiato chi per censo non deve guadagnarsi da vivere ogni giorno e ha più tempo per allenarsi. Inoltre, le prestazioni migliorano, e con esse la loro spettacolarità, permettendo alle stesse manifestazioni di crescere e svilupparsi.Il pericolo che vedeva De Coubertin nel professionismo – cioè un’eccessiva competizione che portasse a imbrogli, scontri e a un generale abbruttimento di atleti e gare – si è forse manifestato negli anni tra i ’70 e ’90, in cui il doping spesso dilagò e dove pur di vincere le nazioni erano disposte a ricorrere quasi ad ogni sotterfugio. Tuttavia, oggi questo rischio pare perlopiù svanito in favore di un vero “spirito olimpico”. Semmai, quello che si vede oggi è l’effetto opposto.Il diffuso professionismo, l’ineluttabile sviluppo della tecnica e degli strumenti, stanno rendendo le competizioni sempre più eccellenti ma anche sempre più combattute. Se una volta in molte competizioni si poteva vedere chiaramente qualche atleta “una spanna sopra gli altri”, oggi le gare sono sempre più spesso tiratissime e decise sul filo di lana. Il che è un bene ma anche un male, visto che sempre più spesso le gare e i tornei vengono decisi da accidenti e incidenti; da dettagli o dal caso.Questo alla lunga porta i partecipanti a dover fare i conti col fatto di non poter contare solo sulle loro forze e sulla loro determinazione per vincere. Si tratta di un cambio di mentalità profondo rispetto all’idea di competizione e di eccellenza che ha coinvolto le generazioni precedenti. Dagli anni ’80 in poi, in particolare, a prevalere era la figura dello sportivo super-uomo, che grazie a un allenamento quasi ossessivo unito a un particolare talento riusciva a prevalere (si pensi, tra tutte, alla figura di Michael Jordan).Questo accadeva anche perché lo sport era visto da molti come una via di riscatto. Rappresentava un modo che avevano persone dai natali umili di diventare, grazie all’impegno e al talento, agiati borghesi se non addirittura ricchi. Quella dello sport come ascensore sociale è stata una narrazione molto forte, che a ben vedere però ha illuso più persone di quante abbia effettivamente elevato, dal momento che vivere di sport è stato e in buona parte ancora è un affare per pochissime persone.Oggi non solo sempre più spesso gli atleti non provengono da contesti umili o impoveriti, ma hanno anche perso almeno in parte quel senso profondo di amore patrio che tanto muoveva gli sportivi del passato. Se lo sport non ti “salva la vita” e non è più tanto un modo per alimentare il patriottismo e la competizione o rivalità tra nazioni, allora anche la sua pratica, per quanto importante, diventa meno capitale.Infine un’ultima differenza: se un tempo gli atleti che potevano godere di vera notorietà erano pochissimi, oggi invece la popolarità è molto più diffusa. Non che non ci siano più le “superstar” dello sport, ovviamente – anche se effettivamente sembrano avere parabole agonistiche sempre più brevi. Tuttavia, ogni atleta oggi può godere di un piccolo o grande drappello di fan, che saranno al suo fianco anche a prescindere dal singolo risultato sportivo. Perdere una competizione, anche se importante, non è più così doloroso come un tempo.Tutte queste dinamiche, a pensarci bene, possono in una certa misura essere individuate anche nel lavoro. Oggi ci sono molte più “professioni” che “impieghi”; il lavoro nel terziario si è moltiplicato, mentre è diminuito quello nelle fabbriche e nei campi. La cifra “tecnica” e specialistica di molti lavori è aumentata, e la competizione per accedervi è diventata più serrata. Così come lo sport ha perso di una certa sacralità e di opportunità, alla stessa maniera il lavoro non è più tanto ciò che mette il pane in tavola e non è nemmeno più così credibile come ascensore sociale. Infine, così come nello sport un tempo ci si accaniva per arrivare in vetta, oggi i giovani sembrano un po’ meno interessati a fare carriere fulminanti verso ruoli apicali.Questo nuovo modo di vedere lo sport, quindi, potrebbe essere anche un segnale del senso che le nuove generazioni danno al lavoro, all’impegno, e in generale al proprio percorso di vita. Un punto di vista forse meno determinato e “performante”, ma in fin dei conti anche più saggio ed equilibrato.