Rebecca, medaglia crocifissa
Si chiamava Rebecca, come la matriarca biblica. Come Rebecca aveva due figli, come lei era forte, determinata, vincente. Sì, la Rebecca attuale era una campionessa. Non proveniva dalla Mesopotamia ma dall’Uganda, di cognome faceva Cheptegei. Aveva collezionato tre medaglie, fra cui una d’oro, nel mezzofondo e nella maratona. Perché Rebecca amava correre. «È stata la sua passione fin da bambina», racconta ora il padre, che la descrive estroversa e generosa. La immaginiamo, Rebecca, col suo nervoso corpo di fatica, libera e pugnace, e chissà a cosa pensava quando le gambe sfioravano il suolo quasi a prenderne i succhi vitali. Probabilmente a nulla, la corsa era il suo volo e la comprendeva tutta, è così per ogni atleta, lo era di più per lei, donna e africana. Quella di Rebecca era una libertà condivisa, perché le sue vittorie garantivano ai fratelli più piccoli di proseguire gli studi. La corsa di Rebecca l’aveva portata fino alle Olimpiadi di Parigi per partecipare alla maratona.La medaglia non è giunta. Ma non ci sarà un’altra possibilità.Si chiamava Rebecca, come la matriarca biblica. Ma era ugandese con residenza keniana. E in Kenya è morta, il 5 settembre, giorno di santa Teresa di Calcutta. Era appena rientrata da Messa. Aveva 33 anni.L’ha crocifissa l’ex-compagno Dickson Ndiema Marangach, versandole addosso una tanica di benzina che le ha ustionato il 75% del corpo. L’ha uccisa «all’indiana», come un tempo si bruciavano (vive) le vedove sulla pira del marito. L’ha uccisa per cancellarla, si dice per avidità, sicuramente per viltà.
«Codardo, sei solo un codardo» ha gridato Sharon Verzeni, essa pure 33 anni, a Moussa Sangare che le infliggeva quattro coltellate «senza motivo», in realtà con un motivo sotteso e profondo, il sesso. Rebecca e Sharon sono state assassinate perché donne, come vengono trucidate le iraniane «malvelate» e le afghane cui un nuovo editto talebano nega perfino il diritto di parola.«Se io non esisto, tu chi sei?» domanda provocatoriamente, in un video, un’attivista in esilio all’estremista che vorrebbe eliminarne persino la memoria. E mentre il mondo occidentale volta loro le spalle, mentre il presidente del Cio afferma senza tema del ridicolo che «non esistono criteri scientifici per stabilire “cosa” [e non “chi”] sia una donna» (nessun dubbio su «cosa» sia un uomo, ovviamente) le afghane si filmano mentre cantano, ridono, mostrano sui social i bei volti di sfida alla ferocia patriarcale.Non ci stiamo allontanando dal dramma di Rebecca. Lo stiamo comprendendo nel più ampio spettro della misoginia sanguinaria. I pretesti per uccidere una donna possono essere i più svariati. Ma il motivo di fondo è identico. È sul sesso e non sul genere che si esercita crudeltà. È dal sesso e non dal genere che si stabilisce la differenza, che il patriarcato vive come limite e contro cui, titanicamente e utopisticamente, si rivolta. Il sesso e non il genere comporta il “secare”, la divisione; sancisce l’incompletezza, il bisogno, anzi la necessità della relazione; è il sesso e non il genere che il patriarcato vuol negare, affinché il «modello» resti unico, la parzialità sia spacciata per totalità, l’omologazione diventi la norma. È il sesso e non il genere che spaventa il dominio maschile.«Dove sono i veri uomini?» incalza la nostra sorella esiliata. La violenza non è solo il rifugio degli incapaci come decretava Asimov: è anche l’arma dei vigliacchi, dei «codardi»; gli uomini autentici ne hanno ripugnanza.Rebecca che corre, Sharon che passeggia, le iraniane che si scoprono, le afghane che cantano. E tante, tantissime donne che narrano un altro vivere, un pentagramma di colori e respiro, un’alternativa che la cappa grigia del maschilismo intende pugnalare, zittire, bruciare.Rebecca è l’ultima Crista sacrificata dal neopaganesimo sessista, caduta in circostanze così simboliche da rimanere fissa, inchiodata nella mente come su una croce. È questa la sua quarta e ultima medaglia, quella definitiva, che mai avremmo voluto vederle sul petto, e che tuttavia risplende, e corre e canta e vola, spazzando via la cenere dell’odio.
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