colonna sonora
GUÈ PEQUENO - Indelebile ( inchiostro ) feat. Fedez (Audio)
Entics - Sulla pelle (Videoclip) ft. Jake La Furia
tutto il disco riportando tutto a casa dei Mcr
dalla nuova sardegna di qualche giorno fa
Siniscola, un padre e un figlio uniti da un tatuaggio
Il piccolo ha una malattia che gli provoca lividi: Marco Dalu se li è fatti tatuare per non farlo sentire solo
SINISCOLA. Ci sono diversi modi per incidere sulla propria pelle l’amore che si prova per una persona. Marco Dalu, giovane siniscolese commerciante in un negozio di mobili, ne ha scelto uno per condividere con suo figlio una grande forza di volontà che si manifesta, giorno dopo giorno, da quasi quattro anni. «Ma non sono un eroe – sostiene Marco –, io non ho nulla in più rispetto a mio padre o agli altri padri che si alzano presto e che si spaccano la schiena per l’amore e per il futuro dei loro figli. Eroe è mio figlio, un combattente fin dai suoi primi giorni di vita. Ed eroica è Tiziana, la madre, che non lo ha mai lasciato solo». Il bambino ha lividi sul corpo: la rarissima patologia emorragica che porta con sé (Tromboastenia di Glanzmann) è dovuta a un malfunzionamento delle piastrine che, non
riuscendo a formare gli aggregati, non fermano il sangue durante le emorragie. <br/><br/>I lividi di Marco, il padre, invece, sono tatuati. Un vero e proprio atto d’amore per non lasciare solo il figlio in un momento particolare della sua vita in cui comincia ad accorgersi degli sguardi delle altre persone su di sé. L’uomo (classe 1983) non esita a definirsi una persona timida. «Lo sono sempre stato, fin da piccolo. Esitavo ad alzare il braccio a scuola anche se ero in grado di rispondere a una domanda improvvisa dell’insegnante». Il suo gesto d’amore, quindi, doveva rimare privato. E così è stato fino a quando lui e la moglie (Tiziana Manca è dell’82 e a Siniscola fa l’artigiana in un laboratorio per la produzione di bottarga) non si sono messi in contatto con l’osservatorio “Omar” sulle malattie rare, con lo scopo di scambiare opinioni con altre persone che convivono con la stessa patologia. «Rimango il timido che sono, ma qui c’è in ballo il futuro del mio bambino. Da quando abbiamo fatto conoscere la sua storia e i miei tatuaggi abbiamo ricevuto tanti messaggi dall’Italia e dall’estero da parte di altre persone colpite da questa patologia rara».«Finché mio figlio era piccolino, io e Tiziana eravamo gli unici a percepire gli sguardi delle altre persone. Crescendo ha cominciato a percepirli pure lui. Si sente diverso dagli amichetti che, seppure senza cattiveria, possono fare qualche domanda che lo mette a disagio. Molte volte si nasconde e si copre i lividi con le manine». Da qui l’idea, sofferta, di questi particolari tatuaggi paterni. «Quando stavo per varcare lo studio avevo una paura tremenda. Quando poi ho visto i tatuaggi mi è venuta voglia di piangere. Ma quando sono rientrato a casa e Tiziana si è rivolta a lui dicendogli che “Anche babbo è così”, lui si è messo a ridere». Nella vita, dice Marco Dalu, «ci sono cose belle e cose giuste. Io ho dovuto fare una cosa giusta, ma la guerra non è finita. A mio figlio dovrò insegnare ad affrontare la vita e questa patologia. Diversamente il mio gesto rimarrà un simbolo e io avrò fallito la sfida. Ma insieme la vinceremo».
sempre sulla nuova
La storia del bambino di Siniscola, nel riprendere la narrazione del combattente fatta dal padre (portatore sano della malattia), è quella di una battaglia ingaggiata fin dai primi giorni di vita, quattro anni fa. A iniziare dall’emorragia cerebrale che costrinse i medici di rianimazione neonatale ad intubarlo. I lividi andarono via via scomparendo dopo un mese di incubatrice e il bambino riacquistò la facoltà di respirare da solo. Ma poi le ecchimosi
ricomparvero e per la famiglia Dalu-Manca erano necessari nuovi viaggi, a Nuoro prima e al Microcitemico di Cagliari dopo. Il bambino ha di continuo lividi sul corpo: la rarissima patologia emorragica di cui soffre (Tromboastenia di Glanzmann) è dovuta a un malfunzionamento delle piastrine che non riuscendo a formare gli aggregati, non fermano il sangue durante le emorragie.
Bouba Diang: «Ciao cari sassaresi, qui lascio il cuore»
Da vent’anni in città ora ritorna in Senegal dalla sua famiglia e con una nuova attività
DI ANDREA MASSIDDA NUOVA SARDEGNA DEL 14 SETTEMBRE 2020
SASSARI. Nero e spaventoso è il mare quando di notte la nave oscilla tra le onde e le luci del porto ormai non si vedono più. Nero e malinconico è il soffitto della stanza quando rimani sveglio a fissarlo pensando alla tua famiglia che è lontana migliaia di chilometri. Ma neri e sognanti sono anche gli occhi di Bouba Dieng, originario del Senegal, quando sorseggiando una coca cola in un bar di via Oriani racconta del giorno in cui, vent’anni fa, senza un centesimo in tasca, per la prima volta mise piede a Sassari in cerca di fortuna.</p><p>E rivela che il 29 ottobre salirà su un aereo diretto in Africa, dove è atteso da una moglie e ben cinque figli per avviare insieme a loro la sua nuova attività di allevatore di polli. Il nome dell’azienda è impresso su un biglietto da visita fresco di stampa: “Lu Sassaresu”. Già, perché lui in questa città in cui giunse da clandestino preferendola a Parigi con un regolare permesso di soggiorno, presto ci lascerà il cuore e centinaia di persone che gli vogliono bene. «Sassari – dice Bouba, che ha appena compiuto 54 anni – mi ha regalato amicizie, sorrisi e tante mani tese nei momenti meno felici. È diventata la mia seconda casa e i sassaresi la mia seconda famiglia. Ma tutte le avventure, anche le più belle, hanno un termine. E adesso è proprio arrivato il momento di riabbracciare i miei figli: voglio viverli giorno dopo giorno e cominciare un nuovo capitolo della mia vita».<b>L’arrivo.</b> Questa storia di straordinaria integrazione comincia nell’autunno del 2000. Bouba in Francia non vuol restare: nella banlieue parigina il clima è caldissimo ma soltanto a livello sociale, per il resto fa un freddo cane. E le cose cambiano poco o niente quando riesce a passare la frontiera per arrivare più a sud, in Italia, precisamente a Bergamo: gelo insopportabile, anche nei rapporti umani. Così, seguendo un consiglio di un amico, il 26 novembre decide di imbarcarsi su un traghetto per Porto Torres. «Se ripenso a quella traversata mi vengono i brividi – ricorda –, non ero mai salito su una nave, c’era il mare mosso e passai la notte a vomitare. Poi quando arrivammo a terra, vedendo il paesaggio mediterraneo e la pelle olivastra della gente, mi venne il dubbio di essere sbarcato nel Maghreb». Pochi istanti dopo, ecco il primo incontro, quasi rivelatore del lato accogliente che poi Bouba avrebbe ritrovato in molti sardi. «Ero sfinito e avevo fame – racconta ancora – ma poco prima di prendere l’autobus per Sassari mi si avvicinò un vecchietto dicendo: “Tu devi essere un nuovo arrivato, vieni al bar che ti offro un the caldo e qualche croissant”. Capii che questo luogo era diverso dagli altri».Il primo lavoro.</b> Con il sostegno della comunità senegalese Bouba trova un alloggio e comincia a darsi da fare per guadagnarsi da vivere e mandare a casa – cioè a Saint-Louis, la vecchia capitale del Senegal – almeno il 60 per cento dei soldi che riesce a racimolare come venditore ambulante: «Ho iniziato quasi per caso in un giorno di pioggia. Ero in viale Italia sotto un improvviso diluviare. Nel giro di pochi minuti i miei amici mi fecero avere un grappolo di ombrelli e un consiglio prezioso: “Sii gentile con tutte le persone, saluta sempre dicendo buongiorno e ringrazia”». Poi, pian piano, allestisce un punto vendita stabile con merce varia all’ingresso del supermercato di via Gramsci, allora Multimarket. «Ancora una volta rimasi stupefatto dalla cordialità dei sassaresi – rimarca Bouba –. Signor Ugo (il mitico Ugo Multineddu, titolare del market invece di cacciarmi o di essere infastidito dalla mia presenza, fu sempre gentilissimo, al punto che ogni sera mi evitava una sfacchinata pazzesca consentendomi di parcheggiare la merce in un angolo del suo locale. Una gran bella persona e un imprenditore geniale». amici. Con il passare del tempo, questo ragazzone di colore sempre sorridente e di buonumore diventa per molti clienti del market una figura familiare. «È lì che ho conosciuto e fatto amicizia con un sacco di sassaresi e quel saluto “ebbè Bubba”, con il suono quasi africano, mi rimarrà sempre dentro. Ho molte persone a cui essere grato – continua –, così tante che sarebbe impossibile citarle tutte: ma in particolare tengo a ricordare Anna Parisi e il marito Gianfranco Pischedda, a casa dei quali passai il mio primo Natale, e la famiglia Vanacore, che mi assunse con un vero contratto nel loro negozio di lampadine».L’arrivederci. Ma allora, viene da chiedersi, qual è il segreto per integrarsi così bene in un ambiente nuovo? Bouba non ha dubbi: «Quando arrivi a casa degli altri o in un Paese che ti ospita – dice –, devi comportarti con il massimo rispetto. E se c’è chi inizialmente si mostra ostile, mi è capitato, devi restare sereno, senza forzare i tempi ma anzi facendo di tutto per creare empatia. Non posso dimenticare la frase di mio padre, che in Senegal faceva il medico, anche se lì i medici guadagnano molto poco. Diceva: “Se parti in cerca di fortuna, dimentica la fortuna e pensa a farti amici sinceri”».Gli stessi amici sassaresi che adesso lo stanno aiutando con una colletta ad acquistare un’incubatrice, uno spennatore e un piccolo gruppo elettrogeno, strumenti indispensabili per la sua prossima attività di allevatore di polli. Gli stessi amici che sperano di riaccoglierlo nella loro casa in Sardegna, ma una volta tanto in vacanza e con l’intera famiglia.
Dopo aver attraversato tra mille sofferenze il deserto e il mare per venire in Italia, ha deciso che la sua missione era evitare lo stesso destino agli altri. E ha iniziato a costruire un'alternativa coltivando un orto
Chi nasce e vive a Tambacounda ha un unico sogno: raggiungere l’Europa. Dal Senegal, alla Libia. Dalla Libia, all’Italia. Il grande viaggio: seimila chilometri. Le speranze sono tante, forse troppe. I rischi non vengono presi in considerazione. La povertà fa più paura. A Tambacounda non esiste l’elettricità. I villaggi sono insediamenti rurali con piccole capanne. Il fango copre i campi da calcio improvvisati dove i ragazzi trascorrono le giornate.
Tambacounda è uno dei territori più arretrati del Senegal, dorso occidentale dell’Africa subsahariana, a ovest confina con il Gambia, a est con il Mali. «L’Europa è il nostro paradiso. Qui non ci sono prospettive future. Viviamo ingannando il tempo». La voce di Seny è ferma. Non sembra avere 28 anni. È partito quando ne aveva 20. È tornato nel 2016. «Ma non dobbiamo scappare. Dobbiamo lottare».
Seny infatti ha deciso di lasciare l’Italia e di tornare a casa. Per una scommessa: garantire un futuro ai suoi coetanei e a chi ancora vuole fuggire. «Insieme all’associazione Don Bosco, stiamo costruendo orti nei villaggi di Tambacounda. Insegniamo ai ragazzi come poter coltivare la terra, come prendersi cura della propria famiglia senza dover tentare la fortuna in Europa».
Fino a ora Seny ha coordinato e seguito la progettazione di cinque orti. In tutto è riuscito a coinvolgere una trentina di persone: donne, uomini, ragazzi. Chiunque voglia contribuire alla rinascita di una regione abbandonata all’attenzione delle associazioni di volontariato. L’obiettivo è far in modo che il paese sviluppi una propria economia, anche se di semplice sussistenza. «Non possiamo più contare soltanto sui soldi che i migranti spediscono ogni mese ai propri familiari», spiega Seny.Si parte per se stessi e per chi rimane. Molti senegalesi riescono a comprare beni di prima necessità grazie ai guadagni di chi ha attraversato il Mediterraneo. Nel 2017 dall’Europa sono stati spediti quasi 2 miliardi di euro: il 13,7 percento del Pil del paese. Più di 300 milioni provenivano dall’Italia. Rispetto agli altri Stati africani, nonostante le guerriglie tra le forze locali, il Senegal è uno dei territori più stabili a livello politico ed economico. «Il problema è che tutti gli investimenti gravitano intorno alle città; i villaggi come Tambacounda, essendo lontani dal centro e poco sviluppati, non vengono presi in considerazione», accusa Seny.
Nelle zone rurali due abitanti su tre vivono in povertà; a Dakar, la capitale del Paese, uno su quattro. Pochi ragazzi, in campagna, frequentano la scuola; molti, spinti anche dalle famiglie, si affidano agli istituti coranici dove imparano solo a pregare e a chiedere l’elemosina. Nelle regioni più arretrate il 90 per cento dei bambini viene utilizzato come forza lavoro. E non è cambiato molto da quando, nel 2012, le elezioni presidenziali sono state vinte dal democratico Macky Sall.
Riconfermato un anno fa, il 57enne geologo ha promesso di aumentare le infrastrutture e di migliorare le condizioni lavorative. Ha sempre detto di volersi distinguere dal suo predecessore, Abdoulaye Wade, che negli ultimi anni aveva avviato una gestione clientelare dello Stato a beneficio di familiari e conoscenti. Nel 2016 Sall ha indetto un referendum per ridurre il mandato presidenziale da sette a cinque anni. In molti continuano a sperare che durante la sua amministrazione il Senegal possa stabilizzarsi e crescere.
Seny è convinto che «la chiave sia cominciare dalle piccole iniziative: un passo alla volta». Prima di iniziare a costruire orti in giro per Tambacounda, viaggiava per le scuole del paese raccontando ai giovani quanto fosse pericoloso e difficile il viaggio per l’Europa. Qui, a seimila chilometri di distanza dalle molteplici notizie di naufraghi e dispersi, la percezione di cosa succede in Libia e nel Mediterraneo è molto più labile: «Le persone non si rendono conto». Seny era andato via dal Senegal perché non voleva sottostare ai dettami che la sua famiglia desiderava imporgli. «Io quella donna non l’amavo», spiega. Ha racimolato un po’ di soldi ed è partito per la Libia. «Conoscevo un amico che lavorava lì».
Ha trascorso con lui alcuni mesi. Poi è dovuto scappare: «Un gruppo di banditi ha distrutto il negozio del mio amico. Lui è morto durante la rapina, io sono riuscito a nascondermi. Avevo paura, volevo soltanto andare via». È il 2013: il colonnello Gheddafi ha perso il controllo del territorio e Tripoli, nonostante le elezioni libere del 2012, attraversa una guerra civile senza fine. Seny cerca un trafficante che possa aiutarlo a lasciare il paese. Chiede di poter tornare a Tambacounda, nel suo villaggio, ma la tratta dalla Libia al Senegal non esiste. «Potevo soltanto andare in Europa». Seny accetta, paga 500 euro e si imbarca. Attraversa il Mediterraneo.
Racconta: «Il viaggio è durato cinque ore. Avevamo un solo gommone, eravamo 97. Una ventina di noi non ce l’hanno fatta. Accanto a me sedevano donne, bambini. È stato tremendo». È sbarcato a Lampedusa. Ricorda il giorno esatto, nonostante la misura del tempo fosse sbiadita: «Il 25 ottobre del 2013». Trascorre un anno e mezzo nel centro di accoglienza di Castellammare del Golfo. Aspetta che la sua richiesta d’asilo sia valutata. Una volta ottenuta la protezione internazionale, viene trasferito ad Aidone. «Qui ho conosciuto l’associazione Don Bosco e ho iniziato una nuova vita. Mi hanno accolto e aiutato».
Impara l’italiano, si iscrive a corsi di formazione. «In Senegal avevo frequentato le scuole medie, ma in Italia il mio diploma non era riconosciuto. Me ne sono fatto una ragione e ho ripreso a studiare». Comincia un processo di integrazione che per la maggior parte dei migranti rimane soltanto un miraggio. Dice di essere stato fortunato. «Quando sono andato via dal mio Paese, non avevo idea di che cosa volesse dire chiedere aiuto all’Europa. Pensavo fosse più facile. Non sapevo di non essere il benvenuto. Molte cose le ho scoperte con il tempo, stando qui».
In quegli anni arrivavano moltissimi senegalesi nel centro di accoglienza dell’associazione Don Bosco. Mancavano mediatori e traduttori. Seny decide di dare una mano, inizia a fare da interprete. L’associazione Don Bosco decide di assumerlo a tempo indeterminato come mediatore culturale. Seny ottiene un permesso di soggiorno per motivi lavorativi. «Parlavo con le persone, gli spiegavo perché erano lì, cosa dovevano fare. Alcuni erano spaesati», aggiunge.
A ogni nuova storia che gli veniva raccontata, si convinceva sempre di più che il problema dell’immigrazione potesse essere risolto soltanto alla radice. «Bisogna dare un’alternativa a chi desidera fuggire», ripete. Questa volta scandisce ogni parola lentamente. Ha paura che la poca connessione e i rumori di sottofondo disturbino la conversazione. Vuole che la semplicità del suo messaggio non venga perduta. L’impegno e la costanza di Seny sono la concreta realizzazione di quell’“aiutiamoli a casa loro” che la politica utilizza per giustificare le inefficienze del sistema d’accoglienza italiano. Poco importa se si tratti di destra o sinistra.
«Basterebbe veramente poco: servono fatti non parole», accusa Seny. L’idea di tornare in Senegal per fermare la partenza di migliaia di giovani è nata quasi per caso. «Mi hanno chiesto: torneresti a casa? Io ho risposto subito di sì, non aspettavo altro». Dall’Italia al Senegal, dal Senegal all’Italia. Seny ha incominciato a viaggiare. Stava un mese o due e poi tornava dai suoi colleghi dell’associazione Don Bosco. Quando ne parla, quasi si commuove: «La prima trasferta è stata nel 2016. Siamo andati a sentire che cosa pensassero gli abitanti di Tambacounda del nostro progetto agricolo. È stato stranissimo rivedere il mio villaggio».
Nel 2017 si è trasferito definitivamente in Senegal. «Dopo gli incontri nelle scuole, abbiamo iniziato facendo corsi di formazione per i ragazzi. Ci occupavamo di agricoltura, artigianato, turismo», ricorda. Poi è arrivato il primo orto, a Wassadou. «Abbiamo scelto questo villaggio perché da qui partono moltissimi migranti. Volevamo dare un segnale». L’orto si estende su un terreno di un ettaro. Per la sua costruzione, sono stati installati tre pannelli solari che garantiscono l’irrigazione a goccia ed è stato scavato un nuovo pozzo. «Riusciamo ad avere un buon raccolto soltanto durante la stagione delle piogge, che dura più o meno tre mesi. Durante il resto dell’anno dobbiamo arrangiarci».
Vivere arrancando per chi cresce a Tambacounda è la normalità. Seny vorrebbe esportare in queste zone tecniche di coltivazione più sofisticate, in modo da garantire un approvvigionamento continuo. È fiducioso: «Ci vorrà un po’ di tempo, ma ce la faremo. Bisogna sperimentare per crescere. In un altro villaggio abbiamo deciso, per esempio, di non far lavorare nei campi solo cinque o sei persone, ma di coinvolgere tutta la popolazione: la frutta e la verdura sono diventate un bene comune da dividere equamente tra gli abitanti».
Su WhatsApp, Seny ha una bellissima immagine del profilo, si intravede una ragazza sorridente. «È mia moglie», commenta. Il matrimonio l’hanno celebrato a Tambacounda. Ora vivono lì, sembrano felici. Seny ha anche ricominciato a parlare con la sua famiglia. È tornato a casa. Come lui, anche altri migranti accolti dall’associazione Don Bosco, stanno facendo la stessa scelta: il grande viaggio, seimila chilometri. Questa volta dall’Italia al Senegal.
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