Helmut Berger, diavolo in noi - © Daniela Tuscano

Non è morto come desiderava, su un palcoscenico, ma il palcoscenico era la sua stessa vita, anche quando il sipario era calato, anche quando - e forse soprattutto - straparlava in mezzo a bottiglie di vodka, in una casa-stambugio di Salisburgo. E a Salisburgo (non altrove, certo) il mito si è spento. L'oscurità era la sua cifra. 

Bello, non altro. Bello come ai tempi in cui la bellezza presupponeva educazione, umiltà al cospetto del simbolo. Lo scrive Mattia Morretta nella sua biografia di Ludwig di Baviera. E quindi di Berger, che del folle re sembrava la reincarnazione. Dietro alla bellezza di Berger vedevi Novalis, il Monte Verità, la filosofia clarista, Thorvaldsen, l'Apollo del Belvedere... o la brumosa fantasia di Winckelmann. Ancora ombre, malgrado il delirio abbagliante.
Berger, da Visconti, fu rubato, intrappolato, logorato. Così esplicito il loro legame, così atrocemente disfatto, così, suo malgrado, verista, da mantenere  un barlume d'innocenza, una bava di storia e purezza.
Non si giustificava Berger. Era sempre lui, sia nel profilo adamantino, sia nei goffi e maturi abiti nuziali assieme a Francesca, sia nell'oltraggio degli ultimi anni, quando il gonfiore malato lo rendeva più simile al Professor Kranz di Paolo Villaggio che all'angelo (de)caduto dall'Olimpo (o Walhalla?).
E questo suo corpo secolare gli conferiva una sorta di sontuosa popolarità, ben oltre gli ambienti esclusivi a lungo frequentati. Restava, in un particolarissimo modo, il vicino malnato, il demone che ci passa accanto, inconfessabile ma schietto, salvifico per la sua brutalità.


                                                         © Daniela Tuscano

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