10.3.15

gente che non emigra per lavorare ma resiste lavorando in italia . la storia di DAMIANA DIPASQUALE ASSUNTA CON IL JOBS ACT e di Luca NicolazziDottore in legge, 42 anni, che per vivere fa il tassista

 Entrambe  le  storie    sono  , prese  daprese  da  REPUBBLICA DEL 8\3\2015   da  repubblica  di Milano   la seconda 
Esse    testimoniano    come   c'è gente    che    scelgono  di non emigrare  ( come fece  anche  mio bisnonno    che andò  , non voleva debiti era  troppo orgoglioso  , ando  a lavorare in Argentina per  5   anni  )    come si faceva  allora  e fanno molti  oggi  . Gente    che    ha scelto    con il loro  gesto  di  ( vedere  sotto   il finale   di  in via  delle murate  c'è  uno scalino  di Sergio Staino  tratto  dal  volume   Bobo  Novecento  ) non lasciare   o  almeno provare   a lottare  il nostro paese   in mano    certi scemi 

Ma  bastga    partlare  io e lasciamo parlare le storie 

Io precaria domani firmo il nuovo contratto   felice sì ma fra 3 anni possono licenziarmi”

MILANO
Felice? Ovvio. Anche se mi resta un po’di amaro in bocca». Damiana Dipasquale ha 28
anni, una laurea in Scienze della Comunicazionee un impiego in un’azienda milanese di consulenza
e selezione del personale. Domani firmerà il primo contratto a tempo indeterminato  della sua vita. Ed è anche uno dei primi in senso assoluto nella versione  riveduta e corretta dal Jobs Act, il cosiddetto “a tutele crescenti”.
Che contratto aveva prima?
«Un tempo determinato, che mi  era stato fatto partire lo scorso settembre  e che scadeva a luglio. Che a  sua volta era stato il primo contratto  “serio” da quando lavoro».
E adesso?
«Venerdì scorso il datore di lavoro  mi ha chiamato nel suo ufficio e mi ha  dato la bella notizia. Ma io sinceramente  me lo aspettavo. Ci occupiamo  proprio di questi temi in azienda, quindi era evidente la convenienza dal punto di vista economico».
Come festeggerà?
«Non penso di farlo a dire il vero, ma di sicuro  il cuscino sarà un po’ più comodo...».
Cosa non le torna?
«Premesso che sono comunque contenta di  questo avanzamento, premesso che amo ciò che faccio e il mio ambiente di lavoro, a me rimane l’amaro in bocca».
Perché?
«Perché per tre anni, quelli dello sgravio fiscale,mi assicuro una crescita professionale in un contesto che mi piace. Però mi domando: e fra tre anni? Cosa succederà? Quando cioèll’aziendacosterò“davvero”? Insomma, metto inpreventivo che possa perdere il miolavoro.
La firma di lunedì (domani,ndr) mi dà la possibilità di stare tranquilla adesso, ma il dopo mi angoscia,devo essere sincera».
Faccio l’avvocato del Diavolo:lei non si accontenta mai.
«No, anzi. Però le cose stanno così,è evidente. L’azienda incassa il bonus iniziale e risparmia sulla  mia assunzione.Ora, non dico che sia umiliante,però sapere che un domani puoi essere liquidata con uno schiocco delle dita mi inquieta. Sono realista:questo è un passo avanti, ma ametà».
La sua è una riflessione legata a una concezione poco flessibile del mercato del lavoro? Ha il
mito del posto fisso?

«Ma no, sono flessibile da una vita.Ho avuto molti contratti con altre imprese, hofatto la cameriera e la barista con il classico contratto a chiamata. Poi i famosi contratti a progetto, tutti fasulli, in società di marketing. Appena finivano ti salutavano e ricominciavi daccapo. Non è un problema di cambiamento, la nostra è una generazione di camaleontici, sappiamo  cambiare, sappiamo cosasignifica la mobilità ».
E allora qual è il punto?
«La tutela della persona. La mia non è insoddisfazione,è che io do tanto, perché tu Stato o azienda non mi garantisci altrettanto? Io voglio  essere tutelata sempre e questo conviene a tutti: perché la crescita professionale è mia ma se ne  avvantaggia anche l’impresa. Il miglioramento  non può fermarsi qui. Aggiungo che sapere di
avere un futuro garantito nel tuo posto di lavoro  ti fa dare di più, ti fa sentire partecipe. Io la vedo  così».
Con il vecchio tempo indeterminato legato all’articolo 18 sarebbe stata più contenta  immagino.
«
Sì, quello che firmarono a loro tempo a mamma  e di papà. Diciamo che non ho potuto pensare  come loro, “adesso mi faccio una famiglia, tiriamo  su la nostra casa”, perché non è esattamente  la stessa cosa. E lo dico ben sapendo che  non era l’articolo 18 a risolvere i problemi, né lo  sarà il Jobs Act».
A proposito: ma i suoi genitori cosa dicono?
«Sono più tranquilli adesso. Mamma, da brava  siciliana, mi fa: “Intanto prenditi questo”».
Il suo stipendio rimarrà lo stesso?
«Credo di sì, non mi hanno parlato di aumenti. Ma comunque per la mia età guadagno bene».
Quanto?
«1.200 euro netti al mese».

Dottore in legge, 42 anni, vive a Milano: Luca Nicolazzi è un “adattabile”
Dopo diversi impieghi precari ha comprato una licenza: “Così sono autonomo”Il tassista laureato  che cita Pascal  “Ho cambiato vita  per avere un lavoro”

LA SCELTA
Luca Nicolazzi, 42 anni,è laureato in giurisprudenza. È  diventato tassista  suo malgrado. Dopo  anni di precariato ha comprato la licenza  a Milano per avere  un lavoro vero
 

MILANO
UNA mosca bianca su un taxi bianco, che guida morbido e tiene pulito come la stanza di una sposa. In un'ampia vaschetta sul lato passeggero, una quarantina di cioccolatini ben assortiti di cui si rifornisce da un eroico caramellaio superstite, in viale Toscana. «Gradisce?». Il conducente ha 42 anni, capelli e filo di barba entrambi molto curati, cita Pascal e Keynes, porta in giro per Milano il suo Bari 78, una 500L che sembra appena uscita di fabbrica, con la pacata rassegnazione di chi ha sognato altro, studiato per altro, ma che al momento ha accettato l'evidenza che questo altro non c'è, e quindi si adatta. La nuova Italia degli "adattabili", fratelli maggiori degli "sdraiati" di Michele Serra. Visto il tasso innaturale di disoccupazione e la massa crescente di quanti stanno scendendo la scala sociale, la mosca bianca sul taxi bianco è, se non altro, in nutrita compagnia. Ma il suo resta un caso piuttosto unico. Sul biglietto da visita, in cartoncino plastificato traslucido, c'è tutto in una riga, l'aspirazione mancata e la negazione, per quanto possibile, dello status presente: Dott. Luca Nicolazzi, seguono indirizzo e mail. La parola "taxista" non compare. Però è quello che lui fa da due anni e mezzo. Perché non lo scrive? «Perché sono dottore in Legge, 88/100 a fine corso con una tesi sullo sfruttamento della prostituzione, e guidare un'auto pubblica non è esattamente la mia aspirazione».
Dottore in Legge e quindi avvocato. «No, ce n'erano già troppi
quando so- no uscito dall'università, mi sono scoraggiato. Sono entrato nello studio di mio padre, un commercialista con una decina di dipendenti, a occuparmi di paghe e sicurezza del lavoro. Poi lui è morto di colpo, un infarto in ufficio. Abbiamo venduto l'avviamento e io ho cominciato a girare per trovare un posto. Girare in senso letterale, da Moncalieri al Veneto. Mi ricordo che a Vertemate, nel comasco, per una posizione nel recupero crediti, eravamo in 40. Dopo tanti contratti di collaborazione in piccole assicurazioni, l'ultima mi ha lasciato a casa. Un po' di disoccupazione e poi mi sono buttato in questa impresa del taxi. Per disperazione». Beh, c'è di peggio. «Vero. Però questo è un lavoro per niente prestigioso, parecchio faticoso e poco valutato. Il mio indice di successo con le donne, per esempio, è drasticamente diminuito». Come mai? «Vengo da una famiglia benestante e abito ancora in una zona di buona borghesia. Da quando torno a casa col mio Bari 78, mi guardano diversamente, non dico storto ma insomma, va' che fine ha fatto il Luca».




Nessuno sa esattamente quanti siano i taxisti in Italia, 40mila, forse 50. Si sa però che sono forti, compatti, una lobby su cui si sono puntualmente infranti i progetti di liberalizzazione dei vari Bersani, Monti e adesso Renzi, che ha astutamente evitato, o rimandato, lo scontro con loro. Ma "loro" chi sono? L'unico studio ufficiale in materia è una relazione della Banca d'Italia, datata 2008 ma basata su dati del 2006: diceva in sostanza che abbiamo meno della metà di taxi per abitante rispetto alle metropoli europee. Roma viaggerebbe intorno alle 7.500 licenze attive (Londra supera le 20mila, Parigi le 15mila) e Milano, uno dei rari numeri precisi all'unità, 4855. Domanda: quanti sono i taxisti laureati? Risposta nazionale: boh. Risposte locali, dei sindacati o degli uffici comunali: e chi li ha mai contati. Anche nella città che ha appena issato l'Albero della Vita, svettante chioma argentata dell'ormai imminente Expo, il titolo di studio di chi dovrà accompagnare dalla vecchia Madonnina alla nuova Fiera l'atteso popolo di turisti è tema insondato e insondabile. Che il signor Nicolazzi sia l'unico "dottore"? Magari proprio l'unico no, però, chissà, forse c'è un ingegnere o un altro avvocato, potrebbe, non sappiamo.
Neanche lui lo sa. I rapporti con i colleghi sono fugaci. In qualche caso, anche pugnaci. Come quella volta che non aderì allo sciopero anti-Uber, l'applicazione che dall'aprile 2013 fa concorrenza non gradita ai taxi regolari. «Mi hanno bloccato in tre energumeni in piazza della Repubblica, hanno fatto scendere la cliente e mi hanno spiegato con le brutte che dovevo smetterla. Madonna, che paura. Ho rimesso il taxi nel box». Ma Uber non rappresenta una minaccia per la sua categoria? «La vera minaccia è la crisi. Il lavoro è diminuito sì, ma perché la gente ne ha sempre di meno. Io sto con Keynes, lo conosce, no? L'austerità che ci impone l'Europa, e che noi supini subiamo, non paga. Quando c'è deflazione, cioè se produci perdi, deve intervenire lo Stato, fare spese in deficit, investire in opere pubbliche, la scuola pubblica, la sanità. Mi sono preso un'infezione a un dito, sono andato alla mutua, esami, tempi biblici per l'appuntamento con un chirurgo. Se non pagavo un privato, l'infezione mi arrivava al cervello». Renzi le dà speranza? «Figurarsi. Ho votato Forza Italia, pentendomi. Se proprio devo, scelgo il Matteo della Lega, Salvini. Ma sono più per la destra sociale». Il vecchio Msi? «Una cosa così. Forse si lega col fatto che io sono molto cattolico, di quelli che vanno a messa ogni domenica. E il sabato pomeriggio, volontariato con gli anziani ricoverati al Don Orione: così si sgrava un po' il lavoro degli infermieri». Renzi no. Papa Francesco? «Moltissimo. Lo accusano di essere comunista, stupidaggini. Lui sta al Vangelo, e il Vangelo quello è. Pascal scriveva che la scelta dell'uomo è tra il nulla eterno e l'eternità. Nel mio piccolissimo, scommetto sulla seconda». Nelle pause, il dottor Nicolazzi va al Planetario perché gli piace l'astrofisica oppure legge quotidiani (dal "Foglio" al "Sole 24ore", dal "Corriere della Sera" alla "Repubblica" al "Fatto") o libri come la storia di Matteo Ricci, edita dal Mulino, sulle gesta di un gesuita, matematico e cartografo, che nel 1500 partì per evangelizzare la Cina, o i saggi di Alberto Bagnai, pubblicati dal Saggiatore, sui rischi dell'euro e di questa Europa. E poi studia, ostinatamente, per l'esame di broker assicurativo. «Il mio sogno da bambino era mettere i timbri sulle carte nello studio di papà. Adesso, di aprire un'agenzia di assicurazioni». E se va male? «Una volta ho caricato un professore di Economia. Mi ha spiegato che il Cile è la Svizzera del Sudamerica, il Paese più stabile e con la crescita più promettente. Ecco, se va male, tento col Cile». Parla da uomo senza legami: famiglia, figli? «Niente, per adesso. Mi piacerebbe tanto, ma manca l'altra parte, la compagna, la sposa. E non è che guidando un taxi le possibilità di incontri aumentino. Certo che salgono anche delle belle ragazze, donne bene, ma non ti considerano: tu sei lo sfigato che guida».
Scusi, dottore, ma chi gliel'ha fatto fare? «L'assenza di alternative. Mi sono comprato la licenza per 178mila euro, fortuna che li avevo. Ho ereditato la sigla, Bari 78, dal proprietario precedente e l'ho tenuta per pigrizia. Ci aggiunga 16 mila euro per la vettura, più i soldi al sindacato e i 3mila per diventare socio di una cooperativa. Con 200mila euro mi sono pagato un lavoro indipendente, sicuro, dove nessuno possa cacciarmi. Non è il mio massimo, neanche il mio medio, ma mi adatto. Nelle giornate fiacche, porto a casa 120 euro per 10 ore di turno, dalle 8 alle 18; in quelle buone, 200; nelle super, quando a Milano c'è la moda o il design, sfioro i 280-300. Tolte le spese, ci campo. E dal primo maggio comincia pure l'Expo». Semaforo rosso, pausa. «Speriamo che parta, o riparta, anche l'Italia». Ma lo dice con una smorfia di sfiducia che resta impressa nello specchietto retrovisore. Cosa non la convince, dottor Nicolazzi, taxista suo malgrado? «È che questo Paese non lo capisco più. Mi capita di parlare con dei clienti anziani, di solito i più cortesi. Mi raccontano dell'Italia del dopoguerra, della miseria che c'era, della povertà che non è diversa da quella che stiamo assaggiando oggi. Ma allora c'era una cosa che adesso non c'è più: la solidarietà tra le persone. Magari in Cile ne è rimasta ancora un po'».

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