convivere e ricominciare con il virus

Lo so che sono storie non narrate o rielaborate da me ma << Ci sono storie che ti rimangono impigliate nella testa anche se cerchi di evitarle e decidi di guardare altrove. E, quando meno te lo aspetti, mentre sei lì che attendi che il caffè salga, mentre sei in coda al supermercato, in quegli attimi vuoti e non previsti, tornano fuori e ti guardano. [....]  >> . ( da   questo post  della  buona  pagina , una  delle mie  preferite  Facebook   https://www.facebook.com/MarioCalabresiOfficial dal cui sito ho ripreso le storie d'oggi .
Storie  che ti vengono   a prendere    e  ti dicono    : << Guarda il mondo coi miei occhi... \vai nel mondo coi miei piedi\ama il mondo col mio cuore…\ porta al mondo la mia vita \prendi in mano la mia storia… \prima che sia nebbia e stato [...] Guarda il mondo coi miei occhi…\ ruba al mondo il tuo futuro\ perche ciò che noi non siamo…\ è ciò che noi non vogliamo.>>( cit musicale) . In questo   caso  , io che  sono solito prendere  e    rielaborare  le  cose  altrui  o  aggiungere  miei  pensieri  \  commenti    sia  che  lo  dico espressamente si  che non lo   dica nel  titolo  nel post      essendo    
  
Sì, sono un ladro di pensieri
ma non un ladro d'anime, prego
ho costruito e ricostruito
su ciò che è in attesa
perché la sabbia sulle spiagge
scolpisce molti castelli
su quel che è stato aperto
prima della mia epoca
una parola, un motivetto, una storia, un verso
chiavi al vento per aprirmi la mente |e per garantire alle mie idee da armadio un'aria da cortile.
[Bob Dylan  da  11 Outlined Epitaphs]

stavolta     a partire  dai titoli   e nel post   del blog    ed  sui  social    su cui  diffondo  miei post     ci provo   

Dopo    questo  pippone  ecco a  voi le  storie   prese appunto  da  https://www.mariocalabresi.com/





Il gioco è più forte del virus
25 settembre 2020 | diFederico Taddia*


«Il coronavirus rovinerà l’infanzia dei nostri bambini: l’assenza di gioco darà un danno permanente». Giorno due del lockdown: scanalando tra i vari talk ecco la verità calata come un macigno da uno psico-opinionista chiamato a disquisire sulle sindromi da quarantena. Ascolto la sentenza e come in un film mi passano in un lampo una serie di frame del mio essere bambino: io che inciampo nelle gambe di mio cugino correndo verso la tana del nascondino; io che gioco a pallavolo con i vicini di casa usando come rete un vecchio garage arrugginito, io che inseguo la mia compagna di classe preferita per toccarle almeno la schiena in una interminabile sfida a guardie e ladri.Il                              gioco del calcio (illustrazione di Marianna Balducci)

Correre. Sudare insieme. Respirare la stessa polvere. Poi toccarsi, sgambettarsi, abbracciarsi, rincorrersi tra streghe, lupi, un-due-tre stelle e palle prigioniere. Puff… Tutto finito! Con la distanza sociale, il divieto di toccarsi, il metro almeno di separazione tra una bocca e l’altra, tutti questi giochi sarebbero stati impossibili. «Il coronavirus rovinerà l’infanzia dei nostri bambini?». L’ho chiesto d’istinto a Francesco Tonucci, pedagogista del Cnr, fondatore del progetto “Città dei bambini”, raffinato fumettista con lo pseudonimo di “Frato” e – soprattutto – una delle teste più lucide nel capire, carpire e interpretare le necessità dei più piccoli.
               Il      gioco dell’un-due-tre stella (illustrazione di Marianna Balducci)

«Ma figurati – è stata la sua pronta risposta – nelle bambine e nei bambini il gioco non scomparirà mai: fa parte del loro Dna, del loro linguaggio, del loro modo per prepararsi al mondo. Se non possono più giocare a quel gioco, inventeranno un nuovo gioco. Non ci si può toccare? Ecco che in un attimo staranno giocando al “Non ci si tocca”». Fare quello che si faceva prima, ma farlo in modo nuovo. Diverso. A volte anche meglio. È quello che ci ha insegnato e ci ha fatto scoprire il coronavirus. E allora perché non provarci, almeno per gioco?
Da lì è nata l’idea di prendere i giochi più famosi, dal nascondino alla mosca cieca, dalla palla avvelenata al ruba-bandiera, e riscriverli: regole nuove per un’epoca nuova. E idem per gli sport, come il calcio o il rugby, il volley o il basket e anche una serie di giochi “da fermi”, da fare in casa o in classe. Per divertirsi in gruppo, ma stando a un metro di distanza.


La copertina del libro da cui sono tratte le illustrazioni e di cui Federico Taddia è coautore: una sorta di manuale dei giochi nuovi ai tempi del virus

Non si può correre tutti a prendere la stessa bandiera? Nessun problema: ognuno avrà il proprio pezzo di stoffa da prendere e portare dietro la linea prima dell’avversario. Non si può toccare con le mani la stessa “tana” al grido di “Liberi tutti”? Basta tracciare sul terreno dei corridoi d’ingresso separati in cui entrare, prima del compagno, dentro a un cerchio che delimita la “tana”. Ai Quattro cantoni si rischia l’assembramento? Pronta la soluzione: i cantoni raddoppiano e non si rischia più di sfiorare l’avversario. Per non parlare del calcio in cui non si corre, del rugby in cui si avanza solo all’indietro o dello sfiancante “E poi?”, infinita disfida da consumare davanti a una finestra.Si può giocare, sì. E lo si può fare insieme, sì. E lo si può fare in casa o in cortile, in oratorio o al parco. E perfino a scuola. Anzi, la scuola ha bisogno di gioco. È il gioco l’ossigeno della relazione, della scoperta, della sperimentazione. Lo sanno bene le insegnanti e gli insegnanti, nelle loro quotidiane acrobazie tra mascherine e Amuchina, tra starnuti e moccoli, che il gioco – fine a sé stesso, fine a sé stessi – è l’ingrediente principe di una didattica che passa dal coinvolgimento e dall’empatia. Anche a un metro di distanza.

*Federico Taddia è giornalista, autore e divulgatore scientifico. Su Radio24 conduce “I Padrieterni”, scrive per “Topolino” e “La Stampa”.


Con Telmo Pievani ha realizzato il podcast “Terra in vista”«Ci sono stati giorni in cui mi sono dimenticata della pandemia perché non l’ho vista e nemmeno incontrata, come se il virus non fosse mai esistito: la natura non si è ammalata di Covid-19, ha la sua agenda, non si occupa di noi». Lori è una brillante signora inglese, ha 68 anni e, in sella alla sua bici, ha percorso l’Europa che combatte la seconda ondata di contagi: 2.520 chilometri in 34 giorni, da Amsterdam a Roma. Ha attraversato sei nazioni, pedalato in mezzo ai campi, ai boschi, lungo i fiumi, ha attraversato le Alpi, si è arrampicata sugli Appennini e si è fermata ogni giorno a parlare con chiunque incontrasse, curiosa di capire come sono cambiate le nostre vite.




Lori Tierney, 68 anni, è inglese, ma vive in Olanda. Ha attraversato l’Europa, da Amsterdam a Roma, in bicicletta: un’impresa a scopo anche benefico
Il tempo lento della bicicletta le ha permesso di capire una cosa fondamentale: perché il ritorno del virus, per ora, non ha colpito l’Italia. «Anche nei più piccoli e sperduti paesi dell’Appennino tutti avevano la mascherina, stavano distanziati e facevano la coda fuori dai negozi, attendendo il loro turno per entrare. In Italia ho notato che c’è una grande attenzione. In Olanda, il Paese in cui vivo e da cui sono partita, le persone che indossano una mascherina sono pochissime: è un posto molto libertario dove è impensabile che il governo possa ordinare di coprirsi naso e bocca. Così le regole sono sempre state blande, stare a un metro e mezzo di distanza gli uni dagli altri e non in più di sei persone in casa. In Germania, invece, quando entri nei bar e nei ristoranti ti chiedono nome e numero di telefono per tracciarti, ma la mascherina non è indispensabile. Per incontrarne una, bisogna davvero passare le Alpi».
Il panorama a Garmisch, in Baviera: qui Lori ha fatto tappa prima di affrontare le Alpi e arrivare in Italia

Sentir dire da un’inglese che vive in Olanda che l’Italia è la terra delle regole rispettate e delle file ordinate ha dell’incredibile, ma lo stupore dura poco, perché subito puntualizza che la mascherina noi italiani ce l’abbiamo, ma non sempre nel posto giusto. «Ne ho viste sotto il naso, sul collo, appese a un orecchio, sul gomito». Ma il segno più evidente dei tempi straordinari che stiamo vivendo, racconta Lori, è l’incredibile vuoto che ha accompagnato il suo viaggio. «Pedalare nella pandemia significa vedere le città senza turisti, e i caffè, che sono la vera cifra dell’Europa e della sua cultura, deserti. Significa arrivare in una piazza San Pietro, la meta che mi ero prefissata, senza nessuno».
Lori con la sua bicicletta in piazza San Pietro, a Roma: il punto d’arrivo che aveva fissato per la sua avventura

Lori ha, da sempre, una grande passione per l’avventura. Dopo essersi trasferita in Olanda per amore, e aver diretto per «42 anni e 5 mesi» una delle più prestigiose scuole di lingua, il giorno dopo che è andata in pensione è partita per un viaggio in Estremo Oriente di due mesi, lasciando a casa marito e figli. Ha preso treni, aerei, navi, autobus notturni, ha camminato e ovviamente pedalato. Ha dormito negli ostelli e a casa delle persone che ha conosciuto durante il viaggio.
Ma questa volta è salita in bici con uno scopo benefico: raccogliere soldi per la Fondazione Lori Tierney, che porta il suo nome. La fondazione opera in una zona del Kenya che confina con Uganda e Tanzania e si occupa di quella che è un’emergenza e una risorsa da quelle parti: la scuola. «Ci sono tanti bambini e ragazzini che sono soli perché i genitori sono malati o morti di Aids. Senza sostegno economico uscirebbero immediatamente dal sistema scolastico. La fondazione paga le loro rette e così, oltre a un’istruzione, hanno anche un pasto assicurato al giorno, quello fornito dalla scuola. A volte è solo un piatto di fagioli, ma è già tanto». Oltre che delle rette scolastiche la fondazione di Lori si occupa anche di acquistare le divise, i libri e i quaderni. «Nient’altro; in Kenya la corruzione è fortissima, bisogna stare molto attenti a dove vanno a finire i soldi. Per questo mi concentro su poche cose, ma concrete». Finora i ragazzi che è riuscita ad aiutare sono 15: «È emozionante vedere che semplicemente imparando a leggere e scrivere costruiscono pezzetto dopo pezzetto il loro futuro».


Sentiero un po’ accidentato in mezzo alle vigne e alla campagna di Appiano sulla Strada del Vino (Bolzano)

L’idea della raccolta fondi attraverso questo viaggio le è venuta quando il volo che aveva prenotato per il Kenya è stato cancellato. «Mi sono detta: so andare in bicicletta, ed è la cosa più sicura che possa fare in questo momento; sono sola, mi muovo in campagna, lungo i fiumi, nei boschi, sulle montagne». Quando è partita non era sicura che sarebbe arrivata fino in fondo, c’era il problema di attraversare la frontiera olandese, belga, tedesca, austriaca, svizzera e italiana, una cosa non scontata di questi tempi. La scelta di arrivare a Roma non è casuale: «Non pratico la religione cattolica da quando ero bambina, ma l’idea del pellegrinaggio mi affascinava molto. Quell’idea di lentezza, una lentezza che permette di osservare e riflettere. Ogni mattina mi svegliavo e pensavo a San Cristoforo, patrono dei pellegrini e dei viaggiatori tutti. E mentre pedalavo mi ripetevo una specie di mantra: “Lori, stai attenta, pedala con attenzione”, mi serviva a focalizzarmi, a sentire meno la fatica».
                    Il percorso che Lori ha fatto in bicicletta (grafica di Matteo Riva)

A seguirla, a qualche decina di metri di distanza, c’è sempre stato Geurt, suo marito, alla guida del microscopico camper che è stato la loro casa per un mese abbondante. Si ritrovavano solo la sera quando, nonostante avessero condiviso il medesimo percorso, ognuno aveva le sue storie da raccontare. «Avevo fatto altri lunghi viaggi in bici, ma quella che ho concluso è stata un’esperienza memorabile. Ogni giorno iniziava e io non sapevo esattamente dove sarei stata la sera, chi avrei incontrato lungo la strada. Ma quest’incertezza, invece di darmi ansia, mi ha regalato un grande senso di libertà. Anche quella della fatica fisica è una grande lezione: devi solo pedalare, resistere, andare avanti. Spingi sui pedali e la testa si libera, si pulisce. E poi scopri i tuoi limiti. Io penso che conoscere i propri limiti sia il modo più profondo per conoscere sé stessi. Quando sono uscita da Garmisch, in Austria, ho visto davanti a me le Alpi. Ho pensato: le devo attraversare. L’ho fatto».
Geurt, il marito di Lori, che l’ha accompagnata nel suo viaggio in bicicletta guidando un piccolo camper
Lori durante una sosta, seduta sulla porta del camper

Tra i ricordi più belli per Lori ci sono: i paesini italiani costruiti sulla montagna, il profumo di caffè che usciva da certi bar e «scoprire che da voi costa 90 centesimi, non 3 euro come in Olanda».
Tra le cose da dimenticare: «La devastazione ambientale dell’area della Ruhr, in Germania, dove capisci che il mondo è rimasto indietro e la crisi economica è pesante. E il senso di desolazione di certe fattorie abbandonate nella valle del Po, verso Ferrara. Gli scheletri arrugginiti di auto e trattori».


Il dettaglio di una casa di Firenzuola, in Toscana

L’impresa fisica e umana di Lori finora è servita a raccogliere seimila euro: «È una goccia nell’oceano. Ma è pur sempre una goccia».
(Per chi volesse aderire alla raccolta fondi, qui il link al sito della Fondazione Lori Tierney: www.lori-tierney-foundation.nl. E qui il suo Iban: NL16INGB 0675 3536 96)



La capoccia e la creatività
18 settembre 2020 | diMario Calabresi


«Per avere futuro bisogna guardare avanti, non perdersi nelle nostalgie del passato e nel ricordo dei tempi andati». Se la raccomandazione viene da un uomo di 102 anni e mezzo che ogni mattina nuota per almeno mezz’ora, legge, scrive, vive da solo, va al ristorante, naviga su Internet e manda mail con allegati, allora siamo obbligati a prenderla alla lettera. Un uomo che è nato durante la Prima guerra mondiale, nell’anno esatto – il 1918 – in cui il virus della Spagnola fece strage nel mondo: «Ero il quarto figlio, davanti a me c’erano tre femmine, ma alla fine di quell’anno sarei stato il primogenito, la pandemia prima e la difterite poi si portarono via le mie sorelle».Francesco De Bartolomeis (ritratto pochi giorni fa, nella sua casa di Torino) nasce nel 1918 a Pellezzano, provincia di Salerno. Si trasferisce a Firenze per studio e, grazie all’intercessione di Benedetto Croce, a 26 anni pubblica il suo primo saggio: “Idealismo ed esistenzialismo”. Dopo la laurea, Adriano Olivetti lo vuole come collaboratore a Ivrea. De Bartolomeis diventa uno dei protagonisti principali della pedagogia in Italia
Francesco De Bartolomeis, pedagogista, inventore del tempo pieno, si è sempre preoccupato dell’educazione delle persone, non tanto dei programmi della scuola ma piuttosto del sistema formativo, di quel percorso che prepara un bambino a essere un cittadino creativo. Per questo sono venuto a trovarlo nella sua casa torinese, in mezzo ai libri e ai suoi quadri, per parlare della scuola che ricomincia, della didattica a distanza e di come si può diventare grandi conservando viva la curiosità dei bambini. Mi fa sedere su una sedia di design e mette la mani avanti: «L’ha progettata l’architetto Caccia Dominioni, significa che è bella ma anche molto scomoda e tu sei così alto». Sorride da solo, confrontando la mia altezza con la sua e aggiunge: «Se oggi noi siamo qui a parlare è perché io sono piccolo: ero a Pola, allievo ufficiale di fanteria, quando arrivò un’ordinanza di Mussolini, diceva che chi era più basso di un metro e 65 non poteva fare l’ufficiale di fanteria ma doveva passare in artiglieria. Io ero alto 164 centimetri e mezzo e devo a quel mezzo centimetro la vita: i miei compagni andarono tutti a fare la campagna di Russia e non tornarono».
Gli chiedo subito, al di là dell’altezza, se esiste una formula per arrivare a superare il secolo di vita con la sua energia: «La smoderatezza, non nel senso dell’eccesso, ma nel senso che bisogna buttarsi nelle cose, essere creativi, vivere con passione. Io non ho nostalgie del tempo passato: a settant’anni ho dato le dimissioni da professore universitario anziché chiedere di restare fuori ruolo, perché non volevo un ripiego, sarei stato come un chirurgo che lasciano stare in ospedale ma non può operare. Invece bisogna essere sempre protagonisti della propria esistenza, coltivare interessi e progetti».Grazie a De Bartolomeis, la pedagogia acquista autonomia nell’ambito delle scienze sociali. Nel 1953 esce il suo libro “La pedagogia come scienza”, un testo miliare. Ma la sua ricerca è condotta pure sul campo: nel 1975 il Partito Comunista lo candida come indipendente al consiglio comunale di Torino (dove si è stabilito) ed è durante questa esperienza che formula e mette in pratica l’idea del tempo pieno e delle mense scolastiche
Ma davvero si può riuscire a non guardare indietro, a non avere nostalgia?
«Naturalmente la nostalgia non chiede il permesso, ti arriva addosso all’improvviso, ma se tieni un piede nel futuro può anche essere una cosa dolce». Si infastidisce perché ho dovuto ripetere la domanda: «Sono diventato un po’ sordo, porca miseria». Gli chiedo se abbia altri problemi e capisco che la provocazione e l’allegria sono la sua cifra: «Sì, ho il problema che sono disordinato. Si vede che vivo da solo perché è un casino e ogni pomeriggio vengo sgridato dalla mia compagna quando viene a trovarmi».
Lei è il padre del tempo pieno e l’ispiratore di molte riforme della scuola.

«Dicono così…scrivono così. Non voglio darti una risposta spiritosa, ma a me il tempo pieno non interessa, mi interessa invece l’apprendimento. Dimostratemi che si può imparare senza avere un tempo lungo e mi ricrederò. Il tempo pieno è necessario per apprendere, ma niente compiti a casa: quando gli scolari e gli studenti escono da scuola devono essere liberi. La scuola non è un lavoro, non è una professione, fuori ci sono altre cose da fare per crescere. Il tempo pieno è l’ampliamento temporale a cui va aggiunto l’ampliamento spaziale: andare a vedere come stanno le cose nei luoghi dove accadono».
Per questo lei è favorevole all’alternanza scuola-lavoro?
«Sì, ma va fatta in modo costruttivo, dovrebbe essere l’occasione per dare ai ragazzi la capacità di affrontare problemi e di risolverli. Certo, se tu vai a formarti in un lavoro statico e ripetitivo, vai a fare le fotocopie in banca, allora non cresci e ti prepari a fare un lavoro così, in modo conformista. Il mondo invece è trasformazione e il lavoro è il motore di tutto».
Lei insiste sempre sul valore del lavoro, perché? Non le piace l’idea di una formazione pura?
«È più importante il lavoro dello studio, dirò di più: se allo studio togli il lavoro non capisci niente. È importante preoccuparsi dello sbocco di tutto il percorso scolastico. A scuola la storia andrebbe fatta come si fa la preistoria, studiare come vivevano, cacciavano, si organizzavano e abitavano gli uomini primitivi; poi, invece, diventa un racconto di guerre e alleanze politiche. Ma non puoi capire la società se non conosci cosa si produceva e cosa si inventava e non capisci il mondo in cui ti troverai. Il lavoro è progresso, per questo sono stato consulente per vent’anni dell’Olivetti».
Lei mette al centro la contaminazione, la necessità di confrontarsi con il mondo, oggi viviamo un tempo di distanziamento fisico e abbiamo avuto mesi di didattica a distanza.
«Io sono favorevolissimo agli strumenti informatici e, se non si può fare diversamente, ben venga la didattica a distanza. Ma non può essere la regola, lo studente deve avere la possibilità di sentire non solo il suo insegnante ma avere un’interazione con l’esterno, incontrare persone, raccogliere stimoli. E poi, mi perdoni la parolaccia, devi togliere il culo dalla sedia. Un conto sono i documentari, ma devi vedere i luoghi, toccare la terra e l’acqua».
Vedo che usa regolarmente il computer, non sento in lei una diffidenza verso la tecnologia.
«È fondamentale usare le tecnologie nuove ma ogni invenzione, ogni nostro passo, ha sempre un padre e una madre: la capoccia e la creatività».Tra le frequentazioni di De Bartolomeis, ci sono figure che hanno fatto la storia della pedagogia e non solo: Margherita Zoebeli con il Centro educativo italo-svizzero di Rimini, il gruppo di Ernesto Codignola e la Scuola-città “Pestalozzi” di Firenze, Piero Calamandrei e la rivista “Il Ponte”. Per Loescher, De Bartolomeis traduce gli autori più innovativi e, nel 1968, pubblica “Il bambino dai tre ai sei anni”, il primo libro italiano di pedagogia dedicato alla scuola dell’infanzia
Che studente era lei?
«Ho fatto le Magistrali a Salerno e non si studiava molto, si faceva vita di strada. La professoressa di latino era cieca, noi a turno uscivamo e andavamo a fare il bagno. Poi mettevamo il costume ad asciugare sulla finestra. Ma all’ultimo anno il professore di filosofia, mi ricordo ancora il suo cognome, Corigliano, mi spinse ad andare a studiare per conto mio alla Biblioteca civica, a prendere libri di filosofia. Mi disse: “Non sprecare il tuo tempo, puoi diventare una persona importante”. Mi ha smosso qualcosa dentro e mi sono detto: qui bisogna cominciare a fare sul serio e sono andato a studiare all’Università a Firenze. Mi sono laureato poi con una tesi su Vico che è piaciuta a Benedetto Croce, che nel 1944 pubblicherà il mio primo libro: “Idealismo ed esistenzialismo”».
Guarda continuamente avanti e mi parla di presente e di futuro, ma quali sono i suoi ricordi più belli?

«Ho avuto una vita felice fino al 2016, quando è morto mio figlio Paolo, un bravissimo matematico. Da quel momento ho smesso di dipingere e i ricordi belli si sono oscurati. Di lui mi porto dentro la semplicità, era una persona piacevole, lineare, stava bene con tutti ed era in sintonia con gli altri».
Lei ha un dolore così grande eppure ha così tanta vita.
«Sono attivissimo, scrivo libri, faccio interviste, ma questo non compensa la sofferenza per la morte di mio figlio, anzi, la rafforza. Più sei vitale e più hai forze per soffrire».
Le morti innaturali, quelle dei figli e dei bambini, la accompagnano fin dalla nascita.
«Io ero appena nato quando la sorellina poco più grande di me è morta di Spagnola. Per il dolore mia madre perse il latte, così venni cresciuto con il latte d’asina. Poi sono morte le altre due sorelle, una dietro l’altra in quel 1918, una dietro l’altra. Mia madre restò traumatizzata tutta la vita, non siamo mai andati al cimitero e non se ne è mai parlato. Ho avuto altri tre fratelli ma adesso non c’è più nessuno, sono rimasto solo».
Chi sono i suoi amici oggi?
«Sono un gruppo di settantenni con cui vado al ristorante e con cui faccio le mie discussioni».
Che vita fa ogni giorno a 102 anni?
«Ogni mattina mi alzo alle sei, faccio colazione con yogurt, cereali e frutta, e alle 8:30 vado in piscina. Nuoto con calma per una quarantina di minuti, lo faccio tutti i giorni da quarant’anni. Prima facevo 50 vasche a stile libero, adesso sono sceso a 40 e certi giorni ne faccio solo 20 e poi aggiungo un po’ di esercizi in acqua. Quando ho compiuto i cento anni non mi volevano più far pagare l’abbonamento. Se avessi accettato sarei stato un miserabile. Ma loro insistevano, allora ho preso i soldi della tessera e ho fatto una donazione per la promozione sportiva».
Accanto al computer c’è un libro di poesia di Andrea Zanzotto, lo sta rileggendo, ma predilige i romanzi e il suo autore preferito è Maurizio Maggiani, anche se la libreria è piena soprattutto di libri di arte e il suo artista preferito è stato Lucio Fontana: «Era un uomo eccezionale». Si mette a rovistare sulla sua grande scrivania, sta cercando una cartellina, tira fuori due disegni di Ernesto Treccani, quasi un suo coetaneo, era nato nel 1920, ma se ne è andato dieci anni fa. Me li mostra, sono due donne stilizzate, li rimette nella cartellina e me li regala. Perché? «Perché è un modo di farli vivere. Non è generosità, il piacere è mio, con te staranno più tempo». Ma se non è generosità questa! «No, la generosità per essere tale deve essere scomoda, devi fare qualcosa di fastidioso e faticoso, altrimenti è solo un piacere».

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