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Come gli italiani hanno imparato a far finta di essere “bianchi”

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Come gli italiani hanno imparato a far finta di essere “bianchi”
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Come gli italiani hanno imparato a far finta di essere “bianchi”

Chi è cresciuto nell’Italia degli anni Ottanta, prima che la società diventasse multietnica, ha sperimentato un razzismo prodotto anche dalla paura di essere espulsi dal club della “bianchezza” dopo essere stati discriminati per anni come emigranti.

(Illustrazione di Gianluca Costantini)
  • “Per capire il razzismo di oggi si deve enucleare il razzismo di ieri: la storia coloniale dell'Italia, una storia di violenze. Ma c'è sempre stato anche dell'altro, quel lampo di terrore che ho visto balenare negli occhi dei genitori dei miei compagni di classe: la paura di non essere considerati abbastanza bianchi”.
  • "Gli abitanti di Libia e Corno d'Africa hanno molti tratti comuni con gli italiani, fisici e culturali, e negli anni della colonizzazione le élite hanno cercato con ogni mezzo necessario di distinguere un "noi”, i colonizzatori, da un “loro”, i colonizzati".
  • “L'Italia ha bisogno ora più che mai di capire che è sempre stata creola e che per una buona volta si deve lasciare alle spalle tutte le sue ansie di bianchezza”.

Essere italiani non è mai stato facile. Ma essere italiani neri è quasi, ve l'assicuro, un'impresa titanica. È da quando sono piccola che affronto il razzismo sistemico in Italia. Un razzismo che lacera la nostra pelle e fa a pezzi la nostra dignità.

A scuola mi chiamavano Kunta Kinte come il personaggio dello sceneggiato Radici, un personaggio invero positivo, uno schiavo che si affranca dalla sua situazione subalterna. Ma i compagni mi chiamavano così solo perché, secondo loro, ero una scimmia e meritavo di essere messa in catene (come Kunta Kinte all'inizio del film). Ogni tanto qualcuno me lo diceva: ti dovremmo frustare come fanno con lui.

All'epoca vivevamo in quartiere molto conservatore di Roma, dove il velo somalo di mia madre era considerato un oggetto alieno e dove la bellezza di mio padre (papà era alto come tutti i somali) ricordava, soprattutto ai più anziani, le imprese coloniali. Mentre i miei genitori erano facilmente catalogabili dai più nella categoria “stranieri”, io invece destabilizzavo di più con la mia pelle nera e la mia calata romanesca. Ero una sorta di straniero “famigliare”, un alieno di casa nostra. Se da una parte inducevo al sorriso, “’anvedi sta negretta parla romano proprio come noi”, dall'altro la mia presenza, soprattutto per gli adulti, era terrorizzante.

Il motore pronto ad accendersi

L'Italia in cui sono cresciuta era l'Italia degli anni '80, quella degli Yuppies che Luca Barbarossa ha descritto così: “Hanno la macchina col telefono, un orologio d'oro, la brillantina nei capelli, E parlano di lavoro […] Mangerebbero spaghetti, fanno piu' scena le ostriche vive”. Era però anche l'Italia che, da paese di emigranti con la valigia di cartone era diventata paese di immigrazione.

Dagli anni Settanta c’erano somali ed eritrei provenienti dalle ex colonie italiane e donne capoverdiane venute a fare il “lavoro di cura”, oggi si direbbe badantato, nelle case degli italiani. Negli anni Ottanta arrivano altri migranti da altre parti del mondo, negli anni Novanta altri ancora. La società si avviava a diventare multiculturale. Ma la mia presenza, unica nera di tutto il plesso scolastico, negli anni Ottanta era una sorta di avvisaglia. Già alle elementari fui travolta da discriminazioni e sospetto.

Negli anni successivi mi sono chiesta se dei bambini potessero essere veramente razzisti. La risposta ora lo so. I bambini erano spugne, assorbivano quello che circolava nella società. L'antropologa Paola Tabet, nel suo libro del 1997 La pelle giusta, ha scritto: «Un motore di automobile, anche da spento, è un insieme di elementi messi a punto e collegati tra loro e pronti a entrare in movimento quando la macchina viene accesa. Il sistema di pensiero razzista è come questo motore, costruito, non sempre acceso né spinto alla velocità massima. Ma può, in un momento di crisi, partire. In ogni caso consuma informazione, materiali, vite». Un sistema di stereotipi, parole storte, odio, barzellette, immagini che precede l'arrivo dei migranti.

Per capire il razzismo di oggi si deve enucleare il razzismo di ieri: la storia coloniale dell'Italia, una storia di violenze. Ma c'è sempre stato anche dell'altro, quel lampo di terrore che ho visto balenare negli occhi dei genitori dei miei compagni di classe: la paura di non essere considerati abbastanza bianchi. E per capire il razzismo sistemico subito dal mio corpo nel paese in cui sono nata, ma anche per capire come mai abbiamo ancora leggi che creano apartheid sociale come la Bossi-Fini o perché la legge 91 del 5 Febbraio del 1992 che regola la cittadinanza non sia stata riformata per includere nella cittadinanza i figli di migranti, non possiamo prescindere dalla storia di come gli italiani sono diventati bianchi.

L'Italia è al centro del Mediterraneo. Ovvero al centro di traffici, conquiste, attraversamenti, mescolamenti. Io l'ho sempre vista meticcia, creola, mediterranea. Un paese lontanissimo da essere monocolore o monoreligioso. Purtroppo, fin dall'unità, un'unità molto fragile, l'Italia si è vista come un'appendice precariamente attaccata all'Europa, un lembo di terra che da un momento all'altro poteva cadere verso gli inferi, ovvero verso quell'Africa considerata subalterna, inferiore, senza storia. L'Italia non ha voluto essere un ponte tra Europa e Africa e ha vissuto più di 150 anni con la sindrome di dover dimostrare all'Europa di essere europea, immacolata, pura. Bianchissima.

L’emigrazione rimossa

Oltre alla storia del colonialismo italiano, uno dei più grandi rimossi (basti pensare a come si studia poco a scuola) è la storia dell'emigrazione italiana. Quando si parla di emigranti del passato (quelli di adesso vengono chiamati “cervelli in fuga”, anche quando a fuggire sono mani, braccia, piedi, gambe) si tende a glorificare i traguardi raggiunti dagli emigranti, e solo di recente si è cominciato a illuminare la fatica che hanno fatto gli italiani per integrarsi in realtà che gli hanno sfruttati e trattati con così poco rispetto.

Film come quello di Franco Brusati Pane e Cioccolata (con Nino Manfredi), il romanzo Vita di Melania Mazzucco o il saggio L'orda di Gian Antonio Stella sono state felici eccezioni. In pochi hanno spiegato bene quanto è costato “il prezzo del biglietto” per entrare in quella “bianchezza” che è un club esclusivo di privilegi, come lo definisce Jennifer Guglielmo in Gli italiani sono bianchi?,

Un racconto che mi ha sempre colpito è Odissea di un Wop dell'italo americano John Fante. In America vigeva e vige ancora una netta linea del colore. L'America bianca ha diviso i white, coloro a cui tutto era dovuto tutto, dai black, i discendenti degli schiavi che avevano costruito l'America con il loro sudore e la loro sofferenza e a cui lo stato non concedeva niente. Essere neri significa ancora oggi avere sulle spalle 400 anni di oppressione e significa ancora un rischio concreto di perdere il corpo, morire male, essere distrutti. Come successo a George Floyd, soffocato da un agente di polizia a Minneapolis.

Gli emigranti europei che sono arrivati negli Stati Uniti (ma situazioni simili sono riscontrabili in Brasile come in Germania) hanno capito che per sopravvivere dovevano entrare rapidamente nel gruppo giusto: quello dei bianchi. Non è un caso che, come i neri, anche gli italiani siano siano stati linciati, malmenati, denigrati, considerati parassiti, criminali, white niggers. Ed è qui che si inserisce John Fante.

Già il titolo del racconto di Fante Odissea di un wop è significativo: Wop, come Dago o Guinea, era un termine dispregiativo usato per denigrare gli italiani. La trama è semplice: Fante è in età scolare e mente sulle sue origini, non dice di essere italiano. Lui detesta essere definito wop, ne è terrorizzato. Ma il paradosso è che questa parola orrenda, discriminatoria, viene usata proprio dagli italoamericani, quasi per disinnescarla: “Crescendo, mi rendo conto che gli italiani usano le parole wop e dago assai più spesso degli americani.[…] Quelle parole non vengono mai fuori serenamente, discretamente. Piuttosto irrompono. C’è questa intonazione sfacciata, e poi è come se qualcuno venisse tramortito, stroncato.” John Fante ama sua nonna, come ama le sue origini. Ma quella “vergogna” davanti agli americani quelli dalla pelle giusta, quelli dalla parlata corretta, è stata alimentata anche dai tanti stereotipi che hanno circondato per secoli gli italiani.

Espulsi dalla bianchezza

La distruzione di un corpo, morale o reale che sia, passa sempre attraverso lo stereotipo, Si veniva discriminati nel mondo reale (spesso anche linciati) e si veniva disumanizzati nelle opere d'arte, nei libri, nelle illustrazioni, nel cinema. E la cosa peggiore è che gli stereotipi nati nel passato, che servivano a rendere quei corpi ridicoli e quindi più facili da sottomettere nei luoghi di lavoro, spesso continuano a fare danni anche nel mondo di oggi.

Recentemente ho rivisto la serie culto degli anni '90 Friends e mi ha molto colpito l'apparizione di Paolo (Cosimo Fusco), un personaggio secondario della stagione iniziale, appena sbarcato in America. Paolo è trattato come fosse soltanto un oggetto sessuale, forte di una sessualita atavica, primitiva, carnale. È pigro, non sa la lingua e ha qualcosa di mellifluo che non piace ai “friends”. E poi, ovviamente, tenta di molestare Phoebe, uno dei personaggi principali della serie, perché gli italiani appunto sono voraci. Le sue caratteristiche lo portano ad essere espulso dai Friends, espulso dalla bianchezza , per via di quei “suoi capelli neri e il sapor mediorientale”.

Gli italiani sono descritti così anche nei resoconti dei Grand Tour, il viaggio in Italia che ogni rampollo dell’aristocrazia o della borghesia del Nord europeo faceva per migliorare la sua educazione. Nel suo romanzo, un best seller ottocentesco, Corinna o l'Italia, Madame de Staël guida i lettori attraverso le bellezze dell'Italia: Corinna, una “mezzosangue” italiana, non può nemmeno sperare di sposare il bel scozzese Nelvil di cui è innamorata ed è un sollievo per l'autrice farla morire. In The Marble Faun, Nathaniel Hawthorne descrive il personaggio italiano Donatello come bellissimo e pericoloso, come l’Italia. Più di recente, nel film Eat Pray and love del 2010 (tratto dal libro di Elisabeth Gilbert) l'Italia è talmente arretrata (non c'è nemmeno l'acqua calda) che puoi solo divertirti, giocare come bambini e mangiare fino a scoppiare.

Quando l'Italia è stata tra le prime nazioni colpite dal Covid c'è chi nel mondo ha subito sospettato dell'igiene degli italiani, come fece l’ex presidente americano Richard Nixon parlando dell’“odore diverso” degli italiani rispetto agli altri europei.

Una nazione fondata sul razzismo

Gli abitanti della nostra bella Italia, mediterranea e creola, hanno costruito una bianchezza che non appartiene loro. Questo si evince soprattutto dalle vicende coloniali. Si è andati alla conquista dell'Africa quasi imitando gli altri paesi europei, cercando di diventare bianchi attraverso la conquista del cosiddetto altro. Ma gli abitanti di Libia e Corno d'Africa hanno molti tratti comuni con gli italiani, fisici e culturali, e negli anni della colonizzazione soprattutto le élite hanno cercato con ogni mezzo necessario di distinguere un "noi”, i colonizzatori, da un “loro”, i colonizzati.

Nelle colonie questa ansia di non sembrare veramente bianchi, soprattutto confrontandosi con le popolazioni conquistate, ha significato una brutale violenza che in poco tempo ha fatto raggiungere all'imperialismo italiano livelli di ferocia mai sperimentati.

Quella stessa violenza oggi colpisce il corpo dei migranti con altri mezzi. Un paese che prima dell'unificazione era una colonia essa stessa, ha di fatto negato la sua geografia mediterranea, ma anche la sua storia di paese che ha dovuto lottare per diventare una nazione. E lo è diventato purtroppo attraverso la ricerca di bianchezza e il razzismo.

Forse proprio nel ricostruire una storia intrecciata dove si è stati sia vittime sia carnefici possiamo forse cominciare a costruire insieme un nuovo paese.

L'Italia ha bisogno ora più che mai di capire che è sempre stata creola e che per una buona volta si deve lasciare alle spalle tutte le sue ansie di bianchezza.

Un primo passo importante da parte del nostro governo e del nostro parlamento sarebbe per esempio fare questa benedetta riforma della cittadinanza per permettere ai figli di migranti nati e/o cresciuti in questo paese di dirsi finalmente italiani.

L'Italia di oggi sta facendo ad altri quello che decenni fa hanno fatto agli italiani: impedire a qualcuno di entrare in un club ritenuto erroneamente esclusivo.

Ma l'italianità non deve essere un privilegio, bensì un diritto che tiene insieme chi è italiano da generazioni, ma anche chi è nato qui da genitori stranieri.

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