figlio di Stephen Donald Black più noto come Don Black (Athens, 28 luglio 1953) è un politico statunitense, tra gli esponenti di spicco del nazionalismo e suprematismo biancoEx-leader del Ku Klux Klan ed ex-membro del Partito Nazista Americano, nel 1981 è stato condannato per aver pianificato un colpo di stato in Dominica in violazione del Neutrality Act statunitense. È noto per essere il fondatore del sito internet a sfondo razzista Stormfront, definito il più grande sito d'odio presente in internet[7] e finito anche sotto inchiesta da parte della magistratura italiana.( continua qui su wikipedia ulteriori nees sul padre e su di lui le trovate nel secondo articolo a cura di Mario Calabresi sull' inserto domenicale di repubblica del 23\10\21016 )
Mi ricorda me quando ero adolescente vicio al becero nazionalismo e alla becera destra ovviamente senza generalizzare perchè : 1) il razzismo , l'antisemitismo , la xenofobia - vedere questi commenti sul mio fb a favore delle barricate del ferrarese contro i profughi - l'omo e la trans fobia non hanno soprattutto dal 1989\92 colore ideologico \ culturale., 2 ) per esperienza ho conosciuto e conosco tutt'ora a destra , anche se si contano purtroppo sulle punte delle mani , gente aperta ed intelligente pronta all'autocritica come la storia che mi accingo a riportare
Sempre dallo stesso inserto
di Eli saslow
.
IL loro convegno era stato interrotto
da una marcia di protesta e da un allarme
bomba, perciò avevano deciso di
riunirsi in segreto. All’insaputa di poliziotti
e manifestanti, i nazionalisti
bianchi si incontrarono in un albergo del centro
di Memphis. Pochi giorni prima il Paese
aveva eletto per la prima volta un presidente
nero e ora, nel novembre del 2008, decine tra
i razzisti più noti a livello
mondiale erano decisi a elaborare una strategia per gli anni a venire. “La battaglia per ripristinare un’America bianca comincia ora”, recitava il loro programma. La stanza era gremita da ex capi del Ku Klux Klan e neonazisti di primo piano, ma uno degli interventi di apertura era stato riservato a un ragazzo della Florida, uno studente universitario che aveva appena compiuto diciannove anni. Derek Black aveva già un suo programma radiofonico, gestiva un sito per bambini dedicato al nazionalismo bianco e aveva vinto un’elezione locale. L’organizzatore lo presentò come «la stella del nostro movimento», poi Derek si avvicinò al leggìo. «La strada da percorrere è la politica», disse. «Possiamo infiltrarci. Possiamo riprenderci il Paese».
"Anni prima che Donald Trump lanciasse una campagna presidenziale
basata, fra le altre cose, sulla politica della razza, un gruppo
di nazionalisti bianchi dichiarati lavorava per rendere possibile
la sua ascesa allontanando la propria ideologia dal settarismo
radicale e avvicinandola sempre più all’estrema destra
dello schieramento conservatore. Molti dei presenti in quell’albergo
di Memphis si
All’inizio all’università non sapevano nulla di lui, e Derek cercava di fare in modo che continuasse a essere così. Andò a un incontro introduttivo sul tema delle diversità organizzato dall’ateneo e ne concluse che il modo più sicuro per farsi ostracizzare là dentro era dichiararsi un razzista. Decise di non menzionare il nazionalismo bianco nel campus, almeno finché non si fosse fatto qualche amico. Le cose che prima lo facevano passare per uno strambo — i capelli
Alcuni membri del gruppo che si riuniva per lo Shabbat iniziarono a chiedere a Derek le sue opinioni e lui le chiarì a voce o per email. Disse che nei confronti dell’aborto era favorevole all’autonomia di scelta delle donne, era contro la pena di morte, non credeva nella violenza o nel KKK o nel nazismo e nemmeno nella supremazia bianca che era un concetto diverso dal nazionalismo bianco. In una email scrisse che la sua unica preoccupazione era che “l’immigrazione di massa e l’integrazione forzata” potessero sfociare in un genocidio bianco. Disse di credere nei diritti di tutte le razze, pur ritenendo che ciascuna razza avrebbe vissuto meglio nella sua terra d’origine. Poi all’inizio del suo ultimo anno al New College decise, una volta per tutte, di rispondere sul forum. Si sedette a un bar e iniziò a scrivere il suo post. «Mi è stato fatto notare che la gente potrebbe sentirsi impaurita a causa di ciò che è stato detto su di me. Vorrei cercare di dare una risposta ufficiale a queste preoccupazioni, in quanto non hanno motivo d’essere. Io non sono favorevole all’oppressione di nessuno per questioni legate alla sua razza, i suoi principi, la sua religione, il suo genere, il suo ceto socio-economico o altre cose di questo tipo». Il post sul forum, che avrebbe dovuto restare all’interno del college, fu fatto arrivare al Southern Poverty Law Center (Splc), che su Derek e altri leader razzisti teneva un file pubblico e che reagì scrivendo direttamente a Derek, chiedendogli spiegazioni. Stava forse sconfessando il nazionalismo bianco? «Le tue opinioni adesso divergono parecchio da quello che pensavano molte persone» diceva la mail. Derek ricevette il messaggio mentre si trovava in Europa per le vacanze invernali. Alloggiava da Duke, che aveva iniziato a mandare in onda il suo show radiofonico da una regione europea nella quale c’erano leggi particolarmente indulgenti nei confronti della libertà di espressione. Derek rispose al Splc dal divano a casa di Duke: «Tutto ciò che ho detto (sul forum) è vero» scrisse. «Credo anche nel nazionalismo bianco. Il mio post e la mia ideologia razziale non sono concetti che si escludono a vicenda».
All’inizio all’università non sapevano nulla di lui, e Derek cercava di fare in modo che continuasse a essere così. Andò a un incontro introduttivo sul tema delle diversità organizzato dall’ateneo e ne concluse che il modo più sicuro per farsi ostracizzare là dentro era dichiararsi un razzista. Decise di non menzionare il nazionalismo bianco nel campus, almeno finché non si fosse fatto qualche amico. Le cose che prima lo facevano passare per uno strambo — i capelli
Alcuni membri del gruppo che si riuniva per lo Shabbat iniziarono a chiedere a Derek le sue opinioni e lui le chiarì a voce o per email. Disse che nei confronti dell’aborto era favorevole all’autonomia di scelta delle donne, era contro la pena di morte, non credeva nella violenza o nel KKK o nel nazismo e nemmeno nella supremazia bianca che era un concetto diverso dal nazionalismo bianco. In una email scrisse che la sua unica preoccupazione era che “l’immigrazione di massa e l’integrazione forzata” potessero sfociare in un genocidio bianco. Disse di credere nei diritti di tutte le razze, pur ritenendo che ciascuna razza avrebbe vissuto meglio nella sua terra d’origine. Poi all’inizio del suo ultimo anno al New College decise, una volta per tutte, di rispondere sul forum. Si sedette a un bar e iniziò a scrivere il suo post. «Mi è stato fatto notare che la gente potrebbe sentirsi impaurita a causa di ciò che è stato detto su di me. Vorrei cercare di dare una risposta ufficiale a queste preoccupazioni, in quanto non hanno motivo d’essere. Io non sono favorevole all’oppressione di nessuno per questioni legate alla sua razza, i suoi principi, la sua religione, il suo genere, il suo ceto socio-economico o altre cose di questo tipo». Il post sul forum, che avrebbe dovuto restare all’interno del college, fu fatto arrivare al Southern Poverty Law Center (Splc), che su Derek e altri leader razzisti teneva un file pubblico e che reagì scrivendo direttamente a Derek, chiedendogli spiegazioni. Stava forse sconfessando il nazionalismo bianco? «Le tue opinioni adesso divergono parecchio da quello che pensavano molte persone» diceva la mail. Derek ricevette il messaggio mentre si trovava in Europa per le vacanze invernali. Alloggiava da Duke, che aveva iniziato a mandare in onda il suo show radiofonico da una regione europea nella quale c’erano leggi particolarmente indulgenti nei confronti della libertà di espressione. Derek rispose al Splc dal divano a casa di Duke: «Tutto ciò che ho detto (sul forum) è vero» scrisse. «Credo anche nel nazionalismo bianco. Il mio post e la mia ideologia razziale non sono concetti che si escludono a vicenda».
erano trasformati da incappucciati del
Klan a suprematisti bianchi e poi a “realisti razziali”, come si
autodefinivano, e Derek Black rappresentava un altro passo in
quell’evoluzione.
Non usava mai epiteti razziali offensivi. Non propugnava atti
di violenza o violazioni della legge. Aveva conquistato un seggio
nel comitato locale del Partito repubblicano della contea di Palm Beach, Florida, dove
Trump stesso aveva una casa, senza mai menzionare il nazionalismo bianco e parlando invece
dei disastri prodotti dall’ideologia del politicamente corretto, dalle politiche di discriminazione
positiva e dall’immigrazione incontrollata di Latinos .
Black non era solo un leader del razzismo politico, era anche un suo prodotto. Il padre, Don
Black, aveva creato stormfront primo e principale sito del nazionalismo bianco, con oltre trecentomila
utenti. Sua madre, Chloe, era stata sposata con David Duke, uno dei più famigerati
fanatici razziali statunitensi, e Duke era stato il padrino di Derek, tanto che alcuni nazionalisti
bianchi avevano preso a chiamarlo “l’erede”.
Ora Derek parlava a Memphis del futuro della loro ideologia. «Quello che voglio è che i Repubblicani
si approprino del ruolo di Partito bianco». Qualcuno cominciò a battere le mani, e
dopo non molto tutti applaudirono. Erano convinti che il nazionalismo bianco stesse per mettere
in moto una rivoluzione. Erano convinti che Derek avrebbe contribuito a guidarla. «Tra alcuni
anni ripenseremo a questo giorno», disse. «La grande battaglia intellettuale per salvare il
popolo bianco è cominciata oggi».
* Otto anni dopo, con le presidenziali del
2016, quel futuro immaginato a Memphis si
stava infine concretizzando: Donald Trump
ritwittava i messaggi dei suprematisti, Hillary
Clinton teneva discorsi sull’ascesa dell’odio
bianco menzionando David Duke, che
aveva lanciato la sua campagna per un seggio
in Senato. Il nazionalismo bianco era riuscito
a occupare il centro della politica, ma
una delle persone che meglio conoscevano
quell’ideologia ora era lontanissima da quel
centro. Derek aveva appena compiuto ventisette
anni e invece di guidare il movimento
stava cercando di tirarsi fuori non solo da
quello, ma anche da una vita che non riusciva
più a capire.
Fin dall’inizio gli avevano insegnato che
l’America era un luogo riservato agli europei
bianchi e che tutti gli altri prima o poi avrebbero
dovuto andarsene. Gli avevano detto di
diffidare delle altre razze, del Governo federale,
dell’acqua di rubinetto e della cultura pop.
I suoi genitori lo avevano ritirato dalla scuola
pubblica alla fine della terza elementare,
quando avevano sentito il suo insegnante nero
dire BJO U (forma negativa generica usata
nel gergo afroamericano, OES). Derek era
uno dei pochi studenti bianchi in una classe
prevalentemente di ispanici e haitiani e i suoi
genitori decisero che era meglio farlo studiare
a casa. «Ora non subisco più aggressioni da
bande di altre razze», scrisse poco tempo dopo,
sulla versione per bambini del sito di , che aveva realizzato a dieci anni.
«Sto imparando a essere fiero di me stesso,
della mia famiglia e del mio popolo».
Adesso che studiava a casa, era anche libero
di cominciare a viaggiare con suo padre,
che per diverse settimane all’anno andava
nel profondo Sud per partecipare a convegni
di nazionalisti bianchi. Don Black era cresciuto
in Alabama e negli anni Settanta si era unito
a un gruppo locale chiamato White Youth
Alliance, guidato da David Duke, all’epoca
sposato con Chloe. Il matrimonio finì e qualche
anno dopo Don e Chloe si rincontrarono,
si sposarono e nel 1989 ebbero Derek. Si trasferirono
nella casa dove Chloe era cresciuta a a West Palm Beach. C’erano degli immigrati
guatemaltechi che vivevano in fondo all’isolato
e dei pensionati ebrei che si erano trasferiti
in un condominio lì vicino. «Usurpatori», li
definiva a volte Don.
Durante i loro viaggi Don e Derek dormivano
sempre da amici del movimento, e Derek
ascoltava le loro storie. Di quella volta che a
suo padre, all’epoca sedicenne, avevano sparato
nel petto mentre lavorava per una campagna
segregazionista in Georgia. Di quel
giorno in cui lui e altri otto volevano salire su
una nave carichi di dinamite, armi automatiche
e una bandiera nazista: il loro piano, chiamato
“Operazione Cane Rosso”, era impadronirsi
del minuscolo Stato caraibico di Dominica,
ma Don era stato scoperto, arrestato e
condannato a tre anni di carcere. In prigione
aveva imparato un po’ di computer e alla fine,
nel 1995, aveva lanciato il stormfront con
il motto: “White Pride World Wide” .
Negli anni, il sito cominciò ad attirare
estremisti di ogni genere: skinhead, miliziani,
terroristi e negazionisti. Secondo il Southern
Poverty Law Center, organizzazione
che monitora i gruppi estremisti, alcuni di
quelli che scrivevano post su stormfront erano
passati all’azione commettendo reati, anche
omicidi. Nel 2008 Don mise al bando epiteti
offensivi, simboli nazisti e minacce di violenza,
e Derek rafforzò il rapporto con suo padre
diventando il suo più grande alleato ideologico.
Cominciò a essere intervistato sull’incitamento
all’odio, dalla tv per bambini Nickeloden da talk show di fascia diurna, dalla e Hbo e Usa Today . «Il bambino diabolico», lo
definiva a volte Don, con orgoglio e affetto.
Cominciava a vedere qualcosa di diverso
quando guardava suo figlio: non semplicemente
un bambino nato all’interno del movimento,
ma un leader emergente. Don aspettava
da quarant’anni un risveglio razziale dei
bianchi americani e ora cominciava a pensare
che quell’adolescente che viveva in casa
sua avrebbe potuto fare da catalizzatore.
«Aveva tutte le mie qualità senza nessuno
dei miei difetti», disse in seguito.
Derek lanciò un programma radiofonico
quotidiano. Attraverso la radio, contribuì a
diffondere l’idea che era in atto un genocidio
bianco, che i bianchi stavano perdendo la loro
cultura e le loro tradizioni di fronte all’immigrazione
di massa di individui di altre razze.
Poi finì le superiori, si iscrisse a un community
college e si candidò per un seggio nel comitato
del Partito repubblicano della contea,
battendo il consigliere uscente con il sessanta
per cento dei voti.
Quindi decise che voleva studiare storia europea
medievale e fece domanda per il New
College of Florida, una prestigiosa università
con un corso di storia rinomato. «Noi vogliamo
che tu faccia la storia, non che ti limiti a
studiarla», gli ricordavano ogni tanto Don e
Chloe. Il New College era una delle università
più a sinistra di tutto lo Stato — «piena di canne
e di omosessuali», spiegava Don in radio
— e nel movimento c’era chi guardava con
perplessità a quella scelta. Una volta, in trasmissione,
un amico chiese a Don se non fosse
preoccupato all’idea di mandare suo figlio
in un «focolaio del multiculturalismo», e Don
cominciò a ridere. «Se ci sarà qualcuno che
verrà influenzato, saranno loro», disse. «Presto
tutto il corpo docente e gli studenti sapranno
chi c’è in mezzo a loro».
rossi lunghi fino alle spalle,
il cappello da cowboy che portava sempre,
la passione per le rievocazioni medievali — si
incastravano perfettamente con il New College,
dove le stramberie erano moneta corrente
fra gli ottocento studenti. Forse erano
“usurpatori”, come diceva suo padre, ma Derek
li trovava anche piuttosto simpatici, e
pian piano passò dal non parlare delle sue
convinzioni all’impegnarsi attivamente per
nasconderle. Quando un altro studente disse
che aveva letto un articolo sulle implicazioni
razziste del il signore degli anelli J in un sito chiamato stormfrnmt .
Derek fece finta di non
averne mai sentito parlare. Nel frattempo,
quasi tutte le mattine dei giorni feriali usciva
dal campus e teneva via telefono il suo show
alla radio. Diceva agli amici che erano telefonate
che regolarmente faceva ai genitori.
Dopo un semestre andò a studiare all’estero,
in Germania, perché voleva imparare la
lingua. Rimase in contatto con il New College
anche attraverso un forum online riservato
agli studenti. Una sera di aprile del 2011, notò
un messaggio che era stato inviato a tutti
gli studenti all’1.56. Era stato scritto da uno
studente dell’ultimo anno che, facendo una
ricerca sui gruppi terroristici, era incappato
in un volto noto. «Avete visto quest’uomo?»,
recitava il messaggio, e sotto quelle parole
c’era una foto inconfondibile. I capelli rossi. Il
cappello da cowboy. «Derek Black: suprematista
bianco, conduttore radiofonico… studente
del New College???», c’era scritto nel messaggio.
«Come deve reagire la nostra comunità?».
Quando Derek fece ritorno al campus per il
nuovo semestre, quel post aveva ricevuto più
di mille risposte. Chiese il permesso di vivere
al di fuori dello studentato e affittò una stanza
a qualche chilometro di distanza. Alcuni
dei suoi amici dell’anno precedente gli scrissero
via email per dirgli che si sentivano traditi
ma, per la maggior parte, gli altri studenti
lo fissavano o lo ignoravano, anche se sul forum
si continuava a parlare di lui. «Forse sta
cercando di tirarsi fuori da una vita che non
ha scelto». «Lui sceglie di essere un personaggio
pubblico razzista. Noi scegliamo di chiamarlo
razzista in pubblico». «Vorrei solamente
che questo tizio morisse di una morte dolorosa,
insieme a tutta la sua famiglia. È chiedere
troppo?». Invece di rispondere, Derek leggeva
il forum e lo usava come motivazione
per organizzare un convegno di nazionalisti
bianchi nell’est del Tennessee. «Vincere argomentando:
tattiche verbali per chiunque sia
bianco e normale», aveva scritto nell’invito.
Un altro studente del New College era venuto
a sapere del convegno e ne pubblicò i
particolari sul forum, dove pian piano stava
emergendo un nuovo approccio. «Ostracizzare
Derek non servirà a niente», scriveva uno
studente. «Abbiamo l’occasione di influenzare
uno dei leader del suprematismo bianco in
America». «Chi è abbastanza intelligente da
pensare a qualcosa che potremmo fare per
far cambiare idea a questo tizio?».
Una delle persone che Derek aveva frequentato
nel primo trimestre ebbe un’idea.
Cominciò a leggere stormfront e ad ascoltare
lo show radiofonico di Derek. Poi, alla fine di
settembre, gli inviò un sms.
«Sei libero venerdì sera?».Matthew Stevenson aveva cominciato a organizzare
ogni settimana cene per lo Shabbat
nel suo appartamento all’interno del campus.
Era l’unico ebreo ortodosso in un ateneo
dove le infrastrutture per ebrei scarseggiavano,
perciò cominciò a cucinare per un gruppetto
di studenti nel suo appartamento tutti i
venerdì sera. I suoi ospiti erano per lo più cristiani,
atei, neri, ispanici, chiunque fosse abbastanza
aperto di mente da non avere problemi
ad ascoltare qualche benedizione in
ebraico. Ora, nell’autunno del 2011, aveva invitato
Derek a unirsi a loro.
Matthew, che portava quasi sempre la kippah,
aveva una lunga frequentazione con
l’antisemitismo, abbastanza da conoscere bene
il KKK, David Duke e stormfront . Si rimise
a leggere alcuni dei messaggi pubblicati da
Derek sul sito dal 2007 al 2008: «Gli ebrei
NON sono bianchi»; «Gli ebrei si insinuano
furtivamente nelle posizioni di potere per
controllare la nostra società»; «Se ne devono
andare». Matthew decise che il modo migliore
per provare a influenzare le idee di Derek
non era ignorarlo o affrontarlo, ma semplicemente
coinvolgerlo. «Forse non ha mai passato
del tempo con un ebreo prima d’ora», ricorda
di aver pensato.
Era la prima volta che Derek riceveva un invito
da quando era tornato nel campus, perciò
accettò. Alle cene per lo Shabbat di Matthew
in certi casi c’erano otto o anche dieci
studenti, ma questa volta furono in pochi a
presentarsi. «Trattiamolo come chiunque altro»,
raccomandò Matthew agli altri invitati.
Derek si presentò con una bottiglia di vino.
Per riguardo nei confronti di Matthew, nessuno
fece allusioni al nazionalismo bianco o al
forum. Derek era tranquillo e cordiale. Tornò
la settimana dopo e quella dopo ancora fino a
quando, dopo alcuni mesi, nessuno si sentì
più minacciato. Nelle rare occasioni durante
le quali era Derek a guidare la conversazione,
si parlava di grammatica araba, o di sport acquatici,
o delle radici del cristianesimo in epoca
medievale. Derek dava l’immagine di persona
brillante e desiderosa di sapere. Chiese
a Matthew che cosa ne pensasse di Israele e
della Palestina. Entrambi diffidavano ancora
l’uno dell’altro: Derek si chiedeva se Matthew
non stesse cercando di farlo ubriacare
per spingerlo a dire qualcosa di offensivo che
sarebbe stato riportato sul forum, e Matthew
si chiedeva se Derek non stesse cercando di
coltivare l’amicizia di un ebreo per mettersi
al riparo da eventuali accuse di antisemitismo.
In ogni caso, i due si presero in simpatia
e iniziarono a giocare a biliardo in un bar nei
pressi del campus. "
In verità, Derek era sempre più confuso in
relazione a ciò in cui credeva. Smise di postare
interventi su stormfront Iniziò a inventare
scuse per non curare più la sua trasmissione
radiofonica: si stava preparando per un
esame; stava facendo passare le pene dell’inferno
ai suoi professori liberal. Aveva sempre
basato le proprie opinioni sui fatti, ma negli
ultimi tempi la sua logica era stata smantellata
dalle email dei suoi amici del gruppo dello
Shabbat. Riceveva da loro link a studi secondo
i quali le disparità di quoziente intellettivo
tra le razze potevano essere spiegate da circostanze
attenuanti, come l’alimentazione prenatale
e le opportunità di studio. Lesse articoli
sul privilegio bianco e sulla sleale rappresentazione
delle minoranze nei telegiornali.
Un amico gli scrisse per email: «Il genocidio
contro i bianchi è un concetto ingiurioso e
umiliante nei confronti dei veri genocidi contro
gli ebrei, i ruandesi, gli armeni».
«Non odio nessuno per la sua razza o la sua
religione» chiarì Derek sul forum. «Non sono
un suprematista bianco. Credo che nessun popolo
di nessuna razza, religione o altro avrebbe
dovuto abbandonare la propria terra o essere
segregato o perdere le sue libertà».
«Derek», gli rispose un amico, «mi sembra
che tu sia il rappresentante di un movimento
nel quale tu stesso non credi più di tanto».
Durante il suo ultimo anno al New College,
Derek frequentò corsi sui testi sacri dell’ebraismo
e sul multiculturalismo tedesco, ma
per lo più le sue ricerche si concentrarono
sull’Europa medievale. È così che imparò che
l’Europa occidentale si era costituita non come
una società di popoli geneticamente superiori,
ma come un territorio tecnologicamente
arretrato, che arrancava dietro la cultura
islamica. Studiò storia dall’ottavo al dodicesimo
secolo, cercando di rintracciare le origini
dei concetti moderni di razza e di whitenees senza trovarli da nessuna parte. E quindi
giunse alla seguente conclusione: «In pratica,
ce li siamo inventati di sana pianta».
Dopo la laurea, Derek iniziò a prendere in
considerazione l’idea di fare una dichiarazione
pubblica. Sapeva di non credere più nel nazionalismo
bianco, e pensava di poter prendere
le distanze dal suo passato modificando parte del suo nome e andando dalla parte opposta
del paese per frequentare il master. Il
suo istinto gli suggeriva di allontanarsi in
punta di piedi, ma aveva sempre propugnato
pubblicamente le sue idee, senza contare che
lasciava dietro di sé trasmissioni radiofoniche,
post su internet, apparizioni televisive.
Quella stessa estate, stava ancora prendendo
in considerazione il da farsi quando
tornò a casa a trovare i suoi genitori. Suo padre
stava seguendo l’ascesa del nazionalismo
bianco sulla tv via cavo. Ormai, però, tutto ciò
suonava ridicolo alle orecchie di Derek.
Quella sera uscì di casa e andò in un bar
portandosi dietro il computer, dove iniziò a
scrivere una dichiarazione: «Una grande fetta
della comunità nella quale sono cresciuto
crede nel nazionalismo bianco, e i membri
della mia famiglia che io rispetto moltissimo,
in particolare mio padre, sostengono tale causa
con fermezza. Non mi sentivo pronto a rischiare
di provocare screzi in questi miei rapporti.
Ma dopo avervi meditato a lungo, ho capito
che essere sincero nei confronti della
mia lenta ma progressiva disaffiliazione dal
nazionalismo bianco è nell’interesse di tutte
le persone coinvolte. Non posso essere favorevole
a un movimento per il quale non mi è concesso
stringere amicizia con chi desidero o
per il quale la razza del mio prossimo mi impone
di considerarlo in un dato modo, o di nutrire
sospetto e diffidenza nei confronti dei suoi
successi. Le cose che ho detto e le mie azioni
hanno danneggiato persone di colore, di discendenza
ebraica, attivisti che si adoperano
affinché tutti siano trattati equamente. Mi
scuso per il male che ho fatto». Proseguì con
questo tono per altri paragrafi prima di spedire
la mail all’Splc, proprio il gruppo che suo
padre aveva considerato nemico per quarant’anni,
aggiungendo: «Pubblicate pure
tutto» . Quindi premette il tasto “invio”.
Il pomeriggio seguente, Don era al computer a fare ricerche su Google e il nome di Derek gli apparve nel titolo di un articolo. Da dieci anni, digitava “Stormfront” e “Derek Black” nella barra delle ricerche più volte a settimana, per monitorare l’ascesa del figlio nel nazionalismo bianco. Il titolo dell’articolo era “Figlio attivista di un importante leader razzista sconfessa il nazionalismo bianco”. Quando riuscì a telefonare a Derek, ricorda di avergli detto: «Gli hacker ti hanno rubato l’identità». «No, la lettera è mia» rispose Derek. E subito sentì suo padre chiudere la telefonata. Per alcune ore, Don rimase incredulo. Forse Derek gli stava giocando un brutto scherzo. Forse Derek credeva ancora nel nazionalismo bianco ma voleva aver vita facile. Quella sera, Don si collegò alla bacheca dei messaggi di stormfront . «Sono sicuro che questa notizia starà circolando ovunque in Rete, quindi inizio da qui» scrisse, postando un link alla lettera di Derek. «Non voglio parlare con lui. Derek dice di non capire perché ci sentiamo traditi da lui perché ha annunciato i “principi personali” in cui crede ai nostri peggiori nemici». Per giorni, Don non riuscì a postare nient’altro. «È stato l’evento peggiore nella mia vita di adulto».
Alcune settimane dopo Derek tornò a casa per il compleanno del padre, anche se sua madre e la sua sorellastra gli avevano chiesto di non farsi vedere. «Penso che potrebbero arrivare a ripudiarmi» scrisse a un amico. Tuttavia, essendo in partenza per la Florida per il master, voleva salutare i suoi. Arrivato a casa della nonna per la festa di compleanno del padre, Derek in seguito avrebbe ricordato la strana sensazione di essere considerato a malapena dalle sue sorellastre. Sua madre era stata cortese, ma gelida. Don aveva cercato di farlo entrare in casa, ma il resto della famiglia voleva che se ne andasse. Padre e figlio erano saliti in macchina e si erano allontanati, dirigendosi prima verso la spiaggia e poi al ristorante. Dopo qualche ora Don concluse che «era sempre il vecchio Derek» e la cosa lo sorprese. Il suo dolore era stato così immenso che si era aspettato di vedere in lui una specie di manifestazione fisica della perdita subìta. Chiese al figlio se stava fingendo di essere cambiato per avere una carriera più facile. Era il suo modo di ribellarsi? Quando Derek smentì, Don citò la teoria nella quale ormai era arrivato a credere, la stessa che David Duke aveva postato dopo la pubblicazione della lettera: Sindrome di Stoccolma. Derek sarebbe diventato ostaggio dello schieramento liberal e avrebbe poi provato empatia per i suoi rapitori. «Molto rassicurante come teoria», ricorda di aver detto al padre. «Come posso dimostrarvi che questo è ciò in cui oggi credo davvero?». Al ristorante Derek cercò di convincere Don per alcune ore. Gli raccontò del privilegio bianco e dei ripetuti studi scientifici sul razzismo istituzionalizzato. Citò le grandi società islamiche che svilupparono l’algebra e avevano preannunciato un’eclissi lunare. Ricorda anche di aver detto: «Non solo avevo torto, ma ho anche contribuito ad arrecare danni reali». A sua volta Don ricorda di aver risposto: «Non riesco a credere che sto discutendo proprio con te, tra tutte le persone possibili, di realtà razziali». Il ristorante ormai stava per chiudere, e i due non avevano compiuto nessun passo avanti per comprendersi meglio. Derek andò a dormire a casa di sua nonna, si alzò di primo mattino e lasciò il paese in macchina da solo.
Il pomeriggio seguente, Don era al computer a fare ricerche su Google e il nome di Derek gli apparve nel titolo di un articolo. Da dieci anni, digitava “Stormfront” e “Derek Black” nella barra delle ricerche più volte a settimana, per monitorare l’ascesa del figlio nel nazionalismo bianco. Il titolo dell’articolo era “Figlio attivista di un importante leader razzista sconfessa il nazionalismo bianco”. Quando riuscì a telefonare a Derek, ricorda di avergli detto: «Gli hacker ti hanno rubato l’identità». «No, la lettera è mia» rispose Derek. E subito sentì suo padre chiudere la telefonata. Per alcune ore, Don rimase incredulo. Forse Derek gli stava giocando un brutto scherzo. Forse Derek credeva ancora nel nazionalismo bianco ma voleva aver vita facile. Quella sera, Don si collegò alla bacheca dei messaggi di stormfront . «Sono sicuro che questa notizia starà circolando ovunque in Rete, quindi inizio da qui» scrisse, postando un link alla lettera di Derek. «Non voglio parlare con lui. Derek dice di non capire perché ci sentiamo traditi da lui perché ha annunciato i “principi personali” in cui crede ai nostri peggiori nemici». Per giorni, Don non riuscì a postare nient’altro. «È stato l’evento peggiore nella mia vita di adulto».
Alcune settimane dopo Derek tornò a casa per il compleanno del padre, anche se sua madre e la sua sorellastra gli avevano chiesto di non farsi vedere. «Penso che potrebbero arrivare a ripudiarmi» scrisse a un amico. Tuttavia, essendo in partenza per la Florida per il master, voleva salutare i suoi. Arrivato a casa della nonna per la festa di compleanno del padre, Derek in seguito avrebbe ricordato la strana sensazione di essere considerato a malapena dalle sue sorellastre. Sua madre era stata cortese, ma gelida. Don aveva cercato di farlo entrare in casa, ma il resto della famiglia voleva che se ne andasse. Padre e figlio erano saliti in macchina e si erano allontanati, dirigendosi prima verso la spiaggia e poi al ristorante. Dopo qualche ora Don concluse che «era sempre il vecchio Derek» e la cosa lo sorprese. Il suo dolore era stato così immenso che si era aspettato di vedere in lui una specie di manifestazione fisica della perdita subìta. Chiese al figlio se stava fingendo di essere cambiato per avere una carriera più facile. Era il suo modo di ribellarsi? Quando Derek smentì, Don citò la teoria nella quale ormai era arrivato a credere, la stessa che David Duke aveva postato dopo la pubblicazione della lettera: Sindrome di Stoccolma. Derek sarebbe diventato ostaggio dello schieramento liberal e avrebbe poi provato empatia per i suoi rapitori. «Molto rassicurante come teoria», ricorda di aver detto al padre. «Come posso dimostrarvi che questo è ciò in cui oggi credo davvero?». Al ristorante Derek cercò di convincere Don per alcune ore. Gli raccontò del privilegio bianco e dei ripetuti studi scientifici sul razzismo istituzionalizzato. Citò le grandi società islamiche che svilupparono l’algebra e avevano preannunciato un’eclissi lunare. Ricorda anche di aver detto: «Non solo avevo torto, ma ho anche contribuito ad arrecare danni reali». A sua volta Don ricorda di aver risposto: «Non riesco a credere che sto discutendo proprio con te, tra tutte le persone possibili, di realtà razziali». Il ristorante ormai stava per chiudere, e i due non avevano compiuto nessun passo avanti per comprendersi meglio. Derek andò a dormire a casa di sua nonna, si alzò di primo mattino e lasciò il paese in macchina da solo.
Da allora Derek continuò ogni giorno a fare
il possibile per prendere le distanze dal suo
passato. Dopo aver completato gli studi e conseguito
il master, iniziò a studiare l’arabo per
capire la storia dell’Islam delle origini. Dal
giorno della sua defezione non ha più parlato
di nazionalismo bianco. Si è invece dedicato
con tutto se stesso a recuperare il tempo perduto
e a cercare di conoscere meglio aspetti
della cultura pop che un tempo gli era stato
imposto di diffamare: gli articoli dei giornali
liberal, la musica rap, i film di Hollywood. È
arrivato ad ammirare il presidente Obama.
Ha deciso di fidarsi del governo degli Stati
Uniti. Ha iniziato a bere l’acqua del rubinetto.
Ha fatto vari viaggi a Barcellona, Parigi,
Dublino, in Nicaragua e in Marocco, immergendosi
in quante più culture ha potuto. Ha
messo a disposizione di estranei alla ricerca
di un alloggio temporaneo la sua camera da
letto, l’unica del suo appartamento. Si è sentito
sempre meglio a potersi fidare delle persone,
senza pregiudizi o preconcetti, e dopo un
po’ ha iniziato a sentirsi completamente diverso
dall’individuo che era stato.
Poi, però, è iniziata la campagna elettorale
per le presidenziali del 2016 e all’improvviso
il nazionalismo bianco che Derek stava cercando
di lasciarsi alle spalle è diventato l’ineludibile
sottinteso costante del dibattito nazionale
sui rifugiati, sull’immigrazione, su
Black Lives Matter e sull’elezione stessa.
Alla fine di agosto, Derek ha seguito in televisione
un comizio di Hillary Clinton durante
il quale la candidata ha parlato dell’ascesa
del razzismo, spiegando che i suprematisti
bianchi non hanno fatto altro che cambiare
nome e farsi chiamare nazionalisti bianchi.
Ha fatto riferimento a Duke e ha citato il concetto
di “genocidio bianco” che Derek stesso
un tempo aveva contribuito a diffondere e
rendere popolare. Ha raccontato in che modo
Trump avesse assunto per la sua campagna
un manager che aveva legami con
l’“alt-right”, la destra alternativa, e ha detto:
«In sostanza, un movimento marginale ha
preso il sopravvento sul Partito repubblicano».
Si trattava del medesimo concetto nel quale
Derek aveva creduto per così tanti anni della
sua vita. «È spaventoso sapere che ho contribuito
a diffondere questa robaccia» ha detto
a un amico del gruppo dello Shabbat.
Alla fine dell’estate, per la prima volta a distanza
di anni, è andato a far visita ai suoi genitori.
In una fase di dibattito pubblico sempre
più acceso, voleva sentire cosa ne pensava
suo padre. Si sono seduti in casa e per un
po’ hanno parlato dei suoi corsi all’università
e del nuovo pastore tedesco di Don. Poi, la loro
conversazione ha svoltato di nuovo verso
l’ideologia, l’argomento preferito di sempre.
Don, che di solito non vota, ha detto che questa
volta darà il suo pieno sostegno a Trump.
Derek ha detto di essersi cimentato con un
quiz politico online e di aver scoperto che le
sue
opinioni collimano al novantasette per
cento con quelle di Hillary Clinton.
Don ha detto che le restrizioni imposte
all’immigrazione gli paiono un buon punto di
partenza. Derek gli ha risposto che in verità
crede nell’importanza di autorizzare l’ingresso
a più immigrati, perché ha studiato i vantaggi
sociali ed economici legati alla diversità.
Don ha pensato che ciò potrebbe sfociare
in un genocidio bianco. Derek ha pensato che
la razza è un concetto sbagliato in ogni caso.
Sono rimasti uno di fronte all’altro, cercando
un modo per colmare l’abisso creatosi tra
loro. A un solo isolato di distanza c’era la Baia
e proprio sull’altra sponda la tenuta nella quale
Trump ha vissuto e trascorso le vacanze
per anni, e dove ha fatto installare un palo alto
ventiquattro metri per farvi sventolare
una enorme bandiera americana.
«Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato
proprio Trump a rendere così alla moda queste
idee?» ha detto Don. E nel momento in cui
non erano mai stati così distanti l’uno dall’altro
su questa affermazione non hanno potuto
fare a meno di trovarsi d’accordo.
ª
la sua " redenzione " ha provocato altri casi di cambiamento eccone alcuni raccontati da questo articolo di http://www.lettera43.it/
(....)
In America aumentano i movimenti razzisti
Bryon Widner si era ricoperto il volto di tatuaggi naziskin, ma poi, pentito, li ha cancellati.
La società statunitense, che pure ha eletto e confermato un uomo afroamericano alla presidenza (o forse, secondo alcuni, proprio per questo) sta registrando un’impennata di movimenti e organizzazioni legati all’odio razziale: secondo il Southern poverty law center sono passati dai 602 degli anni 2000 ai circa 1.000 attuali.
Ma aumentano anche le storie edificanti: la redenzione di Black non è isolata. È successo anche a Lamb e Lynx Gaede, due gemelle figlie dell’attivista neonazista April, ultimamente impegnata nella creazione di una comunità 'razzialmente pura’ in Montana.
RAZZISTE PER OBBLIGO. Quando le ragazze avevano 10 anni la madre le fece debuttare in un duo musicale razzista chiamato Prussian Blue, un nome che allude a un elemento chimico dello Zyklon B, il veleno usato nelle camere a gas nei campi di sterminio.
Ma aumentano anche le storie edificanti: la redenzione di Black non è isolata. È successo anche a Lamb e Lynx Gaede, due gemelle figlie dell’attivista neonazista April, ultimamente impegnata nella creazione di una comunità 'razzialmente pura’ in Montana.
RAZZISTE PER OBBLIGO. Quando le ragazze avevano 10 anni la madre le fece debuttare in un duo musicale razzista chiamato Prussian Blue, un nome che allude a un elemento chimico dello Zyklon B, il veleno usato nelle camere a gas nei campi di sterminio.
Le bambine si esibivano in raduni neonazisti e di suprematisti bianchi cantando canzoni che incitavano alla guerra razziale. La loro carriera finì nel 2007. Nel 2011 dichiararono di non sentirsi più parte di quell’ideologia proclamandosi «liberali» e spiegando di voler solo «esprimere tutto l’amore di cui siamo capaci».
LA VITA DOPO LA DISCRIMINAZIONE. Ancora più eclatante è la vicenda di George Burdi. Nato in Canada da immigrati armeni, a 19 anni, nel 1989, il giovane fondò il gruppo musicale naziskin RaHoWa, acronimo per Racial holy war (Guerra santa razziale).
Usando lo pseudonimo di George Eric Hawthorne gestì anche un’importante etichetta discografica di musica razzista. Le sue canzoni richiamavano alla rivolta dei bianchi e alla violenza contro le minoranze. Nel 1993 aggredì a calci e pugni una manifestante che si opponeva a un suo concerto. Venne arrestato e nel 1997 scontò 12 mesi di carcere.
Come il personaggio del film American History X, dopo la detenzione capì gli errori del passato e si allontanò definitivamente dal razzismo.
Burdi, tornato alla propria identità, ha quindi fondato il gruppo rock multietnico Novcosm ed è uno degli animatori dell’associazione Life after hate(la vita dopo l’odio) in cui confluiscono ex naziskin ed ex razzisti.
LA CANCELLAZIONE DELL’ODIO. La storia di Bryon Widner, infine, è diventata nel 2011 un documentario chiamato Erasing hate (cancellando l’odio).
Naziskin fin da adolescente, Widner ha trascorso16 anni nel mondo dei suprematisti bianchi, organizzando gang criminali razziste e rendendosi protagonista di violenze, estorsioni e aggressioni.
La sua dedizione alla causa era assoluta, testimoniata dal volto e dal corpo cosparso di tatuaggi con simboli estremisti. Ma diventato padre ha capito che non voleva che i figli crescessero nella stessa cultura di odio e ha deciso di cambiare vita. Il passo più duro è stato cancellare i tatuaggi che indicavano la sua appartenenza.
Dal 2009 si è sottoposto continuativamente, per due anni, a dolorosissimi interventi con il laser (raccontati nel documentario) con cui ha cancellato visivamente i simboli dell’odio. Per eliminarli anche dalla sua vita.
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