18.5.18

femminicidi e condanna a morte



«Non voglio che mio padre esca presto dal carcere. Non possono dargli anche uno sconto di pena dopo quello che ha fatto a mia madre, sarebbe come ucciderla di nuovo». Gli occhi di Valentina si riempiono di rabbia, la voce è una lama sottile quando parla di Luigi Messina, suo padre, l’uomo che il 15 gennaio del 2017 uccise sua madre, Rosanna Belvisi, con 29 coltellate. Accadde a Milano, quartiere Lorenteggio, una mattina d’inverno. Un femminicidio annunciato. Le liti, anche violente, erano frequenti, lui alzava le mani e lei subiva. Nel ‘95 l’aveva anche accoltellata alla schiena. Ma i due erano rimasti insieme. Valentina invece, unica figlia della coppia, se n’era andata di casa già anni
fa, anche per non sentire più le discussioni, per non assistere più alla violenza.
Ha scelto di non portare più il cognome paterno, Messina. Su Facebook lei è Valentina Belvisi. «A mia madre, che io amavo e amo alla follia, avevo detto e ridetto di lasciarlo, la imploravo: lei non ci riusciva. Era convinta potesse cambiare». Il giorno dell’omicidio era in Svizzera con il fidanzato: «Mia madre in tarda mattinata smise di rispondere ai messaggi su WhatsApp. La chiamai, niente. Al pomeriggio scoprii dalla tv cos’era accaduto. Mi crollò il mondo addosso». Ha soltanto 25 anni Valentina ma la maturità di una donna adulta. «La forza devi trovarla anche se certi giorni non ti alzeresti dal letto». È rimasta praticamente sola, senza madre, padre in galera col quale ha interrotto ogni rapporto e qualche zio o cugino distanti o poco partecipi del suo dramma.




«Mio padre per me è morto, non voglio più avere niente a che fare con lui. Deve pagare fino all’ultimo. Mi ha scritto due lettere dal carcere, mai per chiedermi perdono per quello che ha fatto. Gli interessa solo il denaro e che non gli porti via tutto. Non si è pentito. La verità è che odiava mia madre».



"Ho visto giustiziare 278 persone nel braccio della morte, il rammarico più grande è non ricordare tutti i volti"





Una vita nel braccio della morte, in Texas, dove la pena capitale è ancora realtà. Michelle Lyons, mamma di 39 anni, ha visto morire 278 persone e in un'intervista al Resto del Carlino si confessa: "All'inizio ero brava a essere imparziale e insensibile, ma con il passare degli anni è diventato più difficile". ©   da  Twitter

Prima come giornalista, poi come portavoce del Dipartimento di giustizia criminale del Texas, Michelle racconta così la sua esperienza:
"È difficile vivere così tanto dolore. Le vittime stanno soffrendo, le famiglie dei detenuti stanno soffrendo. Gli stessi detenuti hanno le loro emozioni e tu sei il testimone di tutto ciò, questo lascia un segno indelebile su di te".
Michelle, tuttavia, ritiene che la pena capitale, in alcuni casi, sia
giusta:
"Penso che sia una punizione appropriata per certi crimini. Ragiono da genitore, immaginando qualcuno che strappa la vita di tuo figlio in modo orribile e violento, come è successo alle vittime di questi crimini: è difficile non sostenerlo".
Il messaggio più straziante ricevuto da un detenuto? La donna racconta così quell'episodio."Ho ricevuto una lettera di un detenuto alcuni giorni dopo essere stato giustiziato. Si scusava per non avermi fatto una buona impressione quando ci eravamo incontrati. In realtà non mi aveva fatto una brutta impressione e io non ho mai avuto modo di dirglielo".
Il rammarico più grande? "Non ricordare" i volti di ognuna delle 278 esecuzioni.


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