FNCL AL COVID E AL 2020 PER UN ANNO MIGLIORE

 


musica    consigliata

Lucio Dalla - L'anno che verrà
CSI - Fuochi nella Notte di San Giovanni (live @ Acoustica Videomusic)

 
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In questo post   di  fine d'anno  , ma non si  sa mai  che  trovi qualcos'altro  da  raccontare o condividere  durante il  periodo di pausa ,  oltre  a   mandare   come suggerito    da  queste due  canzoni  sotto riportate  sotto  a FNCL  l'anno  ormai   prossimo alla fine  

 




voglio oltre alla puntata sul capodanno concludere con po' d'ottimismo riportando due storie piene di speranza che sono , almeno per me , punto di riferimento per andare avanti e resistere alle brutture del covid e non solo .  Entrambe  prese da https://www.mariocalabresi.com/stories/

la prima 

Il mondo intorno a una panetteria

18 dicembre 2020 | diCesare Martinetti*
Qui è “Vietato entrare di cattivo umore”. Ma non è sempre facile essere di buon umore, di questi tempi. Andrea mi racconta che, poco dopo l’inizio di quest’accidenti di pandemia, un giorno è entrato in negozio un ragazzo che conosceva da qualche anno. Lui e poi è arrivata anche lei. Venivano da studenti, si sono sposati, hanno fatto un figlio, compravano il pane di giornata, un pezzo di focaccia, qualche biscotto, insomma le cose normali di una famiglia. Ma quel giorno era diverso perché quel ragazzo, timidamente, tenendo il suo bambino per mano, lo ha preso da parte e gli ha chiesto se gli poteva vendere il “pane freddo”, a metà prezzo. Andrea non ha capito subito. Che voleva dire “freddo”? Quello del giorno prima, ovvero quello avanzato perché lui e lei – tutti e due laureati – avevano perso il lavoro e dovevano tirare la cinghia. A questo punto Andrea gli ha risposto: «Senti, facciamo così: tu prendi il pane come hai sempre fatto, al resto ci penseremo».
Andrea Bertino, 51 anni, quinta generazione di panificatori a Torino, davanti al forno in pietra del 1854
Ecco, una panetteria è un buon posto per capire cosa sta succedendo intorno a noi. E la panetteria Bertino di via Bernardino Galliari 14, a Torino, è un luogo dove converge il mondo e si riflettono tutti i modi e i colori delle sue facce. San Salvario, quartiere multietnico per luogo comune e per dimensione esistenziale, poveri e benestanti, formicolante incrocio di gente che va e che viene, la prima immigrazione di colore a Torino è sbarcata qui accanto alla stazione di Porta Nuova, giusto dietro la sinagoga e la sua babele. Lo storico mercato di piazza Madama Cristina a due passi, vecchie botteghe artigiane e nuovissimi studi di coworking, l’antico bistrot dal nome misteriosamente esotico di “Samambaia” vicino al nuovo “laboratorio-caffè Orso” di via Berthollet. Locali e localini che hanno forgiato una nuova anima in questi luoghi, quella della “movida” che detta così c’era già venuta un po’ a noia prima di conoscere il Covid-19 e alla quale adesso guardiamo con giustificata inquietudine.
Andrea Bertino ha 51 anni ed è la quinta generazione di una famiglia di panificatori. Il trisnonno serviva la Casa Reale, dalla bottega di via Viotti, vicino a piazza Castello. Qui in San Salvario la famiglia è arrivata intorno agli anni Venti (del Novecento) e dunque siamo al secolo di un compleanno scivolato senza clamore in questo 2020 già carico di troppo stress. 
Alice, moglie di Andrea Bertino, all’ingresso della panetteria. È sua l’idea della scritta “Vietato entrare di cattivo umore”
La particolarità di questo posto, però, non è nemmeno quella, ma il forno, che data esattamente 1854, ed è un forno in pietra, “uno dei più antichi d’Europa”, come dice la scritta che sta dietro al bancone. Fino al 1945 veniva alimentato dal fuoco di legna; adesso a far calore sono le resistenze elettriche inserite nei tunnel di porcellane che corrono sotto i dieci metri quadrati del piano di pietra dove cuoce il pane, esattamente come una volta. Andrea scherza su quella definizione di “antico forno d’Europa”, anche perché c’è chi gli chiede se vuol «rimanere al Medioevo». Oggi, i primi requisiti che si chiedono per un forno sono efficacia e rapidità; e qui c’è solo la prima delle due. Per fare il pane ci vuole il tempo che ci vuole, un paio d’ore per le forme più grandi; anche mezz’ora per i panini. È probabile che di forni così ce ne siano altri, ma in attività per la quotidiana e rituale cottura di quel primordiale impasto di acqua e di farina che chiamiamo pane, a Torino c’è solo questo. Andrea ha sentito dire di un altro forno così a Battipaglia, ma chissà.
Intorno a questo totem di pietra e di mattoni c’è un’azienda famigliare, Alice, la moglie di Andrea, che sta in negozio con Elena e Mary. Sotto, nel “pastino”, in quella cripta che custodisce il tabernacolo del forno, dalle 4.30 di notte sono al lavoro in quattro e costituiscono una sorta di micro Sant’Egidio: Jennifer, nigeriana, detta il “Generale” perché tiene tutti in riga; Barkely, del Camerun, addetto a pizze e focacce farcite; “Lasagna”, del Senegal, responsabile delle cotture; “Confucio”, l’unico italiano, il mago di lieviti e impasti. È anche l’unico ad essere arrivato per vie normali, gli altri ve le lasciamo immaginare, ognuno di loro è un libro di avventure e di orrori attraverso quei campi profughi della Libia che lasciano stigmate nell’anima e nella carne. Ma qui, dove lievita e cuoce il pane, il ciclo della vita è già ripartito, visto che Barkely è appena diventato papà.
Barkely, del Camerun, è addetto a pizze e focacce. “Lasagna”, senegalese, è il responsabile delle cotture
Andrea, che in questo “pastino” è entrato quando aveva 13 anni, racconta di aver tenuto insieme la sua truppa in questi mesi facendo «capriole e salti mortali». Il bilancio ha seguito la curva (ma al rovescio) della pandemia: si vende meno pane, molte meno pizze, focacce e biscotti, i consumi si sono ridotti all’essenziale, si sente l’affanno nell’ultima settimana del mese. Di storie come quella del ragazzo che voleva il “pane freddo” ce ne sono decine. A fine giornata Alice e le ragazze fanno i pacchetti con il pane che resta e lo mettono in una cesta: chi ne ha bisogno ne prende, senza pagare niente, c’è chi lo fa quasi vergognandosi, è normale, ma va bene così.
Non sono arrivati aiuti dallo Stato ma Andrea nemmeno li ha chiesti perché dice che in questo momento «c’è chi non ha da mangiare e non mi sembrava giusto». Non c’è ostentazione, in queste parole che Andrea accompagna con i gesti delle mani perché qui non c’è niente di astratto, né nei sentimenti né nella pratica. È come fare il pane, è tutta una questione di rumori e di odori, l’impasto “sbuffa” quand’è pronto, il pane profuma quand’è cotto.
È una forma naturale di fisiologia della notte e del mondo di San Salvario, dove questo posto così semplice e così unico con il suo karma valica le frontiere invisibili, verticali e orizzontali, della città. Per entrare nella leggenda del forno di pietra si viene dalla collina e dal centro, in coda da Bertino si incontrano vecchi amici, qui c’è il sigillo delle più antiche regole alimentari bibliche che si mescola ai sapori dell’Africa e naturalmente al buon gusto italiano. E in cambio ti viene chiesta una sola cosa: non entrarci di cattivo umore.

*Cesare Martinetti (Torino, 1954), giornalista dal 1976: “Gazzetta del Popolo”, Ansa, “la Repubblica”. A “La Stampa” dal 1986. Inviato, corrispondente da Mosca, Bruxelles e Parigi, vicedirettore. Due libri, “Il padrino di Mosca” (1995) e “L’autunno francese” (2007), entrambi editi da Feltrinelli.


Il giorno che ho lavato il mio abito nella fontana

25 dicembre 2020 | diMario Calabresi

Era il 7 luglio 2007. Era una giornata bellissima. Maria aveva appena finito di lavorare a Casal Palocco, nell’estrema periferia romana, quasi a Ostia, dove da sette anni si prendeva cura di tre bambini della famiglia di un medico. Era appena salita sull’autobus 709 per arrivare fino all’Eur. La destinazione finale era la casa di un’amica, vicino all’aeroporto di Ciampino, era stata invitata a cena. Erano solo le 17:30 ma il viaggio era molto lungo. Maria si era seduta davanti, vicino all’autista, aveva un vestito bianco, un mazzo di fiori e una bottiglia di vino. Dopo la prima fermata vide entrare in una rotonda una bellissima moto rossa, la seguì con gli occhi, era affascinata dal casco tutto colorato del ragazzo che la guidava. La moto si affiancò all’autobus, accelerò prima di una strettoia, lo superò, ma si trovò improvvisamente di fronte una macchina, accelerò ancora di più e riuscì a evitarla. «Poi ho visto la moto volare, ha fatto due o tre giri nell’aria ed è caduta su un muretto. Il ragazzo era per terra, seduto. Si è tolto il casco e si è buttato indietro. Si agitava sdraiato sull’asfalto. L’autista era sceso e si era messo al telefono per chiamare soccorsi. Nessuno si muoveva sull’autobus. La voce dentro di me diceva: “Vai, vai, lo devi aiutare”. Ho superato lo spavento, mi sono alzata, ho lasciato il vino e i fiori sul sedile e sono scesa».

Francesco Miele, pilota d’aerei, in sella alla sua moto rossa

La storia che mi ha regalato Maria è una delle più belle che ho incontrato in questi mesi, l’ho scoperta presentando il libro “Molte aquile ho visto in volo” di Filippo Nassetti, e ho pensato che fosse quella giusta per la newsletter di un Natale difficile, in un anno difficile.
«Il ragazzo era pallido, tremava. Ha allungato la mano, mi ha stretto un braccio e mi ha detto: “Non sento più la gamba, cosa è successo, dimmi cosa è successo?”. Allora ho guardato e ho visto una scena che non dimenticherò mai: la gamba era staccata sotto il ginocchio, i jeans strappati la tenevano insieme, ma stava perdendo tantissimo sangue. “Tutto a posto”, gli ho detto, poi ho preso coraggio e ho chiesto all’autista di togliersi la cintura. Non capiva. Gli ho ripetuto di togliersi in fretta la cintura dei pantaloni, l’ho presa e l’ho stretta più forte che potessi sulla coscia del ragazzo, per provare a bloccare la perdita di sangue. L’avevo imparato a scuola, alle elementari, quando avevo fatto il corso. In Moldavia avevamo lezioni di primo soccorso ogni settimana. Mi ricordavo che si doveva fermare l’emorragia all’inguine.Intanto cercavo di tenerlo sveglio e cosciente. Ricordo ancora la raffica di domande. “Come ti chiami?”. “Francesco”. “E di cognome?”. “Miele, come il miele delle api”. “Che lavoro fai?”. “Il pilota”. “Cosa piloti?”. “Gli aerei”. “Per che compagnia?”. “L’Alitalia”. Mi ha detto anche il modello che pilotava ma io non sapevo niente e non ho capito, poi gli ho chiesto se potessi chiamare qualcuno, avvisare un parente. Ci disse un numero e l’autista provò a chiamare, ma non rispondeva nessuno. Francesco smise di parlare e cominciò a chiudere gli occhi, allora cominciai a prenderlo a schiaffi in faccia per non farlo svenire, mi ricordavo che la maestra a scuola diceva che un ferito non doveva mai perdere conoscenza. Aveva paura e abbracciò le mie gambe. Rimase stretto a me fino all’arrivo dell’ambulanza. Quando lo portarono via risalii sull’autobus, il vestito di lino bianco era tutto macchiato di sangue. Arrivata al capolinea, l’ho lavato alla fontana dell’Eur».
In ospedale amputarono la gamba di Francesco sopra il ginocchio. Maria arrivò alla sua cena sconvolta, ebbe una notte di incubi e per giorni non pensò ad altro se non a quella scena. Ma non sapeva a chi chiedere notizie.

Maria Donica da bambina, in una vecchia foto che conserva nella memoria del telefono e che le era stata scattata insieme ai nonni

Anch’io volevo notizie, volevo sapere come è andata a finire questa storia, e sono riuscito a rintracciare Maria. Da quattro anni e mezzo vive a Londra, di cognome fa Donica ed è nata nel 1975 a Podgoren (il nome significa: “paese che sta sotto le montagne”), in Moldavia, tra Ucraina e Romania. In un pezzo di terra che quando è nata faceva parte dell’Unione Sovietica. Mi dà appuntamento quando i figli sono a lezione, ha l’accento romano. Arrivò in Italia che aveva 23 anni, nel 1998, poco prima di Natale, raggiungendo il fratello più piccolo che viveva già vicino a Roma: «Il nostro sogno, dopo il crollo dell’Urss, era andare all’estero, Spagna, Grecia o Italia. Ma non era così facile: ricordo i viaggi con l’autobus di notte per andare al consolato in Ucraina per ottenere il visto. Poi ho avuto la fortuna di trovare lavoro come ragazza alla pari. Il padre della famiglia che mi accolto era ginecologo ed è stato poi lui, anni dopo, a far nascere i miei figli Riccardo e Francesca. Grazie alla Bossi-Fini, una legge discussa che a me però ha cambiato la vita, ho avuto il permesso di soggiorno e ho visto un futuro».Ma prima di parlare del futuro, di quello che è successo dopo, le chiedo del suo passato. «Mia nonna a 45 anni, l’età che ho io oggi, aveva l’aspetto di una settantenne, faceva la contadina, andava nei campi a raccogliere il tabacco alle 5 di mattina. Fin da piccola mi portava con lei e la fatica che faceva è uno dei motivi per cui sono scappata. Anche mio padre era agricoltore, è mancato quando avevo nove anni, la mamma, che lavorava in Comune, pochi anni dopo. Mi hanno cresciuto i nonni. La nonna era molto religiosa, ogni domenica facevamo parecchi chilometri a piedi per arrivare in chiesa. Partivamo prestissimo perché la messa iniziava alle 9. Durava fino a mezzogiorno, si stava sempre in piedi nella messa ortodossa. Mio nonno, che invece era molto comunista ed era l’autista del sindaco, quando ci incrociava sulla strada faceva finta di non vederci, andare in chiesa era una cosa vietata. Quando è andato in pensione ed è finito il comunismo è diventato l’economo della parrocchia. Mia nonna non ci poteva credere e gli diceva: “Adesso che sei diventato vecchio e hai paura di andare all’inferno, vieni in chiesa…”».

Francesco e Maria, all’epoca fidanzati, durante il loro viaggio a Venezia per il Capodanno del 2008

Francesco, dopo l’incidente, venne portato all’Ospedale Grassi di Ostia, poi venne trasferito in elicottero al San Camillo a Roma dove lo operarono. Maria non sapeva come trovarlo, non aveva nessun riferimento. Mentre racconta le si rompe la voce: «Ogni volta che ci ripenso mi emoziono». Prese la guida del telefono e cominciò a cercare Miele, ne trovò tre: «Prima chiamai Salvatore, ma non rispondeva nessuno, poi Katiuscia, un nome russo, mi sembrava improbabile, invece era la sorella. Presi fiato, imbarazzata: “Sono la ragazza che sabato ha assistito all’incidente, non mi prenda per matta, volevo solo sapere come sta”. Lei si mise a piangere: “È al San Camillo, intubato, in Rianimazione, è in fin di vita per un’emorragia interna, gli hanno tolto la milza e amputato la gamba”.
Da quel giorno cominciò a tenermi informata e una mattina mi chiamò per chiedermi se volessi accompagnarla in ospedale. Passò a prendermi lei con la macchina. Francesco era appena uscito dalla Rianimazione. Dietro il vetro della sua stanza c’erano tantissimi amici, quando la sorella disse chi ero, tutti cominciarono a ringraziarmi ed ero terribilmente imbarazzata. Il padre gli disse che c’ero anche io, lui ricordava solo vagamente una ragazza bionda che lo aveva preso a schiaffi. Erano tutti convinti che sarebbe tornato presto a casa, ma nessuno riusciva a immaginare con che futuro. Mi colpì molto una frase che sentii in quel corridoio: “Non potrà più fare il pilota, il sogno della sua vita è finito”».
Maria tornò a trovare Francesco durante la riabilitazione in un centro specializzato, Villa Fulvia: «Parlavamo molto, lui mi faceva un sacco di domande e abbiamo cominciato a conoscerci. Sono tornata molte volte, ero affascinata dai suoi racconti di viaggio, dalle sue storie, pendevo dalle sue labbra. Tornando a casa una sera ricordai cosa mi diceva la nonna: “Nella vita devi sposare un pilota d’aereo”. Chissà perché, forse perché sognava per me di volare via dalla fatica dei campi. Il pilota lo avevo incontrato, anche se non ci eravamo mai nemmeno sfiorati, ma era un pilota con lo sguardo triste e la grande preoccupazione di non poter pilotare più».

Francesco fa sci d’acqua, così come esercizi ed attività che lo aiutano ad allenare il corpo per pilotare gli aerei nonostante la protesi alla gamba

Francesco si era messo a studiare se fosse possibile farlo senza una gamba, ma non trovò nessun esempio in Europa. Finché un amico non gli portò la fotocopia di un articolo di un giornale americano: parlava della storia del capitano dell’aviazione militare americana Andrew Lourake, tornato a volare dopo l’amputazione della gamba sinistra a causa di un incidente in moto. Era la stessa storia. Lourake lavorava alla base militare di Andrews, poco fuori Washington, dove decolla l’aereo del presidente degli Stati Uniti, l’Air Force One. Prima dell’incidente Andrew pilotava l’Air Force Two, quello del vicepresidente, poi riuscì a diventare capitano di voli di linea. Francesco lo contattò su Skype e presto diventarono amici. Andrew gli spiegò tutto quello che aveva fatto e gli insegnò una serie di esercizi da fare per riuscire a portare un aereo anche in condizioni difficili o di emergenza. Era una questione di forza, di capacità di muovere nel modo corretto il bacino per supplire alla gamba e dare forza alla protesi.
Francesco cominciò a fare esercizi ogni mattina e ogni pomeriggio alle macchine e in piscina. Si allenava con una pedaliera e non vedeva l’ora di tornare al simulatore. «Aveva alti e bassi, ma adesso aveva un obiettivo. Un giorno a Villa Fulvia mi fece una sorpresa: si alzò in piedi dalla carrozzina e si avvicinò. Non avevo mai capito quanto fosse alto. L’ho abbracciato e ci siamo guardati negli occhi. Non sapevo cosa fare e mi chiedevo: ci prova o non ci prova? Ho mosso impercettibilmente la faccia verso di lui, il primo passo l’avevo fatto io, lui a quel punto mi ha baciata. Da quel giorno ci siamo incontrati tutti i giorni, mi mancava l’aria quando non lo vedevo. Poi è tornato a casa e siccome ci piace molto cucinare abbiamo fatto una cena più bella dell’altra. A Capodanno siamo andati a Venezia, abbiamo preso l’aereo, faceva freddo ma sono stati tre giorni meravigliosi. Da allora non ci siamo lasciati più».
Francesco ricominciò a frequentare il centro di addestramento dell’Alitalia, ad addestrarsi al simulatore. «Ricordo la prima mattina che ha messo la divisa dell’Alitalia, per giorni si era addestrato sul marciapiede di fronte a casa a camminare con la protesi. Io lo osservavo dal balcone, provava anche a farlo con la valigia, eravamo tutti e due emozionatissimi. Arrivò il giorno dei test, dell’esame di idoneità, uscii con lui quella mattina ma io andai insieme a un’amica in un santuario sulla via Appia. Feci quello che avrebbe fatto mia nonna: pregai. E chiesi una sola grazia per la mia vita: che Francesco potesse tornare a volare». Così è stato.

Francesco e Maria, con il figlio Riccardo, a Roma nel 2012: lei ha appena ricevuto la Medaglia d’Oro al Valor civile per l’atto di coraggio con cui gli ha salvato la vita

«Da quel momento cominciò una vita nuova, lui era tornato a pilotare e un giorno si presentò da me con un bellissimo anello, per chiedermi non di sposarlo ma di fare un figlio insieme. Anzi due. L’anno dopo nacque Riccardo. Nel 2012, un pomeriggio è tornato a casa e mi ha detto: “Vestiti carina che c’è una sorpresa per te”. Entrammo in un palazzo vicino a Piazza Venezia, sul portone c’erano suo padre, sua madre, sua sorella e un fotografo. Pensai che mi volesse sposare ma pensai anche: me lo dovrebbe chiedere prima. Lui non diceva nulla. Siamo saliti in una sala bellissima, è arrivata una signora che ha cominciato a leggere un foglio, parlava di un gesto di eroismo e poi mi ha consegnato la Medaglia d’Oro al Valor civile. Ero confusa e felice».Il matrimonio arrivò solo nel 2014, quando era già nata Francesca, con la possibilità di lavorare a Emirates. Per entrare nella compagnia di Dubai doveva essere sposato, non erano accettate compagne. Si sposarono in fretta e furia, Francesco passò tutti gli esami ma la commissione medica alla fine disse di no. «Ci rimase male, aveva il desiderio di portare i figli a vedere il mondo, farli studiare in inglese. Una sera, poche settimane dopo, mi disse: “E se andassimo a vivere a Londra?”. Io ho pensato subito alla pioggia, poi ci siamo andati per una piccola vacanza e abbiamo capito che era il posto giusto. Siamo tornati solo noi due per cercare casa: abbiamo fatto un cerchio sulla cartina intorno a Heathrow e abbiamo iniziato a cercare dove c’era più verde. L’abbiamo trovata subito. Piccola ma molto carina e vicino a una scuola. C’era solo un piccolo problema: Francesco non aveva un lavoro a Londra. Ma non ebbe dubbi: “Lo troverò”. Ci trasferimmo noi e lui cominciò a fare il pendolare. Poi trovò posto come pilota di EasyJet  .
La selezione fu molto dura ma dopo la prova in piscina ebbe il posto.
 Ricordo esattamente quando me lo disse. Ero a scuola dei ragazzi, al saggio di musica, mi arrivò un sms: “È fatta anche questa volta”. Ho lanciato un grido. Tutti si sono girati a guardarmi: “Scusate, una buona notizia”».

Maria si emoziona di nuovo: «È tutto qui. Sono stata fortunata. Siamo stati fortunati. Quando apro l’armadio, ogni mattina, vedo il vestito bianco. Non l’ho mai buttato anche se non ci entro più dentro. Mi serve a ricordare come è cominciato tutto, come da una tragedia possano nascere anche cose buone. Ho un solo piccolo rimpianto: la nonna è mancata prima, non ha fatto in tempo a sapere che ho sposato un pilota».


buon anno  a  tutti\e    vicini e lontani 

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