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1.2.25

diario di bordo n 101 anno III . francesco lotoro e L’archivio è raccolto nella Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria di Barletta rqccoglie la musica dei lager nazisti ., Sebastiano Notarnicola rapito da una donna in un bar a 5 mesi, dopo 16 anni ritrova la famiglia: «Lei non poteva avere figli» ., La curerà Dio”, bimba di 8 anni muore di diabete: i genitori le avevano negato l’insulina .,La curerà Dio”, bimba di 8 anni muore di diabete: i genitori le avevano negato l’insulina

 da   ilfatto  quotidiano  del  28\1 \2025  


UN ARCHIVIO PER LE ARMONIE DELLA PRIGIONIA SI CHIAMA Fo n d a z i o n e Istituto di Letteratura Musicale C o n c e n t ra z i o n a r i a . Raccoglie manoscritti, partiture, materiali epistolari, ma ormai anche strumenti musicali. È frutto del lavoro del musicista e compositore Francesco Lotoro, che ha contattato sopravvissuti e famiglie di ex prigionieri in tutto il mondo. Il catalogo dei documenti raccolti è sul sito fondazioneilmc.it. Da quest ’esperienza nascerà una cittadella della musica concentrazionaria su un’area di 10 mila metri quadri a Barletta


Non solo i campi tedeschi, ma pure i gulag russi, le prigioni americane e degli altri alleati. L’archivio è raccolto nella Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria di Barletta. “Ho iniziato a 24 anni – racconta – oggi ne ho 60. Era un’altra epoca, non avevo i mezzi per un lavoro di ricerca scientifico, era tutto basato sui rapporti diretti con i superstiti. Non era solo incontrarli, ma diventare amici, entrare nelle loro case, nelle loro vite”.
Che genere di documenti ha catalogato?
Manoscritti, partiture, materiali epistolari, foto. Da qualche anno raccolgo anche strumenti musicali: ho cominciato tardi, ma ho capito che sono fondamentali per disegnare la geografia musicale del luogo da cui provengono.
Quali strumenti?
Abbiamo tre violini. Nel 2018 la CBS realizzò un servizio di 30 minuti sulla mia ricerche, la videro negli Stati Uniti e mi contattò un amico di John Stanislav Hillenbrand, che era stato violinista dell’orchestra di Auschwitz. La vedova ci donò lo strumento. L’altro violino è di un italiano, internato dopo la battaglia di Gondar in Etiopia del 1941. Il terzo è uno strumento di liuteria arrivato a brandelli da Dachau, restaurato da un bravissimo liutaio di Ruvo.
Li usa per suonare le musiche che ha riscoperto.
Deve sapere che i violini hanno memoria. Sono come una pianta: vedono, sentono e riconoscono. Sembra un pensiero immateriale, ma è provato scientificamente. Il legno ha respirato l’aria dei lager, il suono di questi violini non è uguale agli altri: ha una voce diversa.
Che musica suonavano nei campi di prigionia?
Ovviamente i classici: Beethoven, Mozart, Wagner. Ma c’è u n’enorme produzione musicale ex novo: valzer, intrattenimento, musica religiosa. Ci sono prigionieri che hanno lasciato segni profondi nella storia della letteratura musicale: penso a Jean Martinon, Leibu Levin, Vsevolod Zaderatzki. 
Ha raccolto anche opere di musicisti anonimi?
Certo. Arrivano documenti su cui non c’è scritto nulla, a volte solo le iniziali in calce. Altre musiche sono lavori collettivi: scritte a più mani, in camerata. C’era anche una forma, come dire, di solidarietà musicale: a Sachsenhausen le parole venivano tradotte in otto o nove lingue, perché tutti potessero cantarle. Una sorta di Unione europea artistica ante litteram.
 Si suonava anche per intrattenere i carcerieri? Sì. La banda poteva accompagnare l’uscita e il ritorno dei gruppi di lavoro, a volte anche i prigionieri all’esecuzione. Un uso perverso, ma era forse l’uno per cento. Per il resto era musica scritta per necessità e per un’esigenza testamentaria, una spinta letteraria. Mi viene in mente l’orchestra sul Titanic: il mondo affondava, spettava al musicista conservare e tramandare una forma di civiltà. Ma la libertà espressiva era clandestina o tollerata? C’era una forte controllo sui testi, ovviamente, ma la
musica non veniva proibita. A volte era favorita. Il campo toglie la libertà e la dignità umana, doveva dare qualcosa in cambio, altrimenti rischiava di esplodere. I tedeschi lo facevano per controllare meglio i lager. Le sarà capitato di suonare musica inedita, che era stata solo scritta. Ci sono opere che sono state portate alla luce perché finalmente il testo è stato decrittato. Una volta invece sono stato raggiunto da un americano di nome Jack Gaffain, venne a Barletta da New York per cantarmi questa canzoncina... una melodia che dura un paio di minuti: l’aveva ascoltata durante la prigionia e aveva conservato il ricordo per decenni. 
C’è un’opera, o una storia, che le è rimasta nel cuore più delle altre?
 La musica scritta sulla carta igienica da Rudolf Karel, prigioniero politico nel campo di Pankrac, Praga. Fu torturato, non parlò, ma si ammalò di dissenteria, quindi disponeva di quantità cospicue di carta igienica e carbonella, da cui ricavò una puntina a forma di matita. Scriveva nelle due ore al giorno che passava in infermeria, con una tensione cerebrale che non possiamo neanche immaginare. Stendeva prima la minuta, poi la bella copia, infine nascondeva le strisce di carta tra la biancheria sporca che consegnava alla famiglia. Così ha scritto un’intera opera in tre atti: Tre capelli di vecchio saggio. Quando suono questa musica, provo sensazioni fortissime



Essendo una storia importante ho deciso di non limitarmi ad un solo sito ma ho riportato anche un altra intervista trovata in rete più precisamente questa di https://musicabile.tgcom24.it/ del 27\1\201

Delle poche cose che mia madre ricordava, ragazzina in Friuli negli anni del secondo conflitto mondiale, a parte la fame, il nulla imposto dalla guerra, il terrore del rombo degli aerei che venivano a bombardare (trauma che l’ha convinta a non salire mai a bordo di un aereo e che si è portata sino alla morte), c’era il ricordo dei treni dei deportati diretti ai campi di concentramento, che facevano sosta nella stazione del paese dove viveva. Era un ricordo meticoloso, quasi un’imposizione per non dimenticare, così vivido da materializzarsi. 


L’ho immaginato tante volte, prima con la mente di un bimbo e poi con quella di un adulto, come se fossi lì anch’io. Ancora oggi che mia mamma non c’è più, rivedo quelle scene, le urla di richiamo e aiuto dei prigionieri rinchiusi nei carri bestiame, perché questo erano, le mani che si allungavano oltre le strette ferritoie poste in alto, mani affusolate, mani piccole, mani callose, mani che chiedevano cibo, acqua, o anche solo una carezza. E il paese si mobilitava con generi di conforto, quel poco che c’era nel niente assoluto.

Sono passati quasi 80 anni da quegli eventi, i sopravvissuti dei lager sono ormai pochissimi, il tempo fa il suo corso. L’orrore dell’olocausto è diventato un’ansia mentale intorpidita; il racconto serve a tenere vive le putrefazioni a cui l’uomo può arrivare, poiché ce ne dimentichiamo troppo spesso.

A questo serve la giornata della memoria. Almeno un giorno all’anno ci viene imposto di pensare che, nemmeno un secolo fa, sono state commesse atrocità senza fine, sono state cancellate milioni di vite, famiglie, amori, passioni, storie…

E arrivo al punto di oggi: sì, anche questa volta c’entra la musica. Anzi, la musica è la protagonista. Perché lo è stata nei campi di detenzione, di sterminio, di rieducazione – e non solo nazisti. C’è un musicista italiano, che certamente molti di voi conosceranno, che da oltre trent’anni sta dedicando la sua vita e la sua professione alla causa: raccogliere opere, canzoni, spartiti, brani, partiture scritte su fogli musicali, altre annotate su carta igienica o pezzi di tessuto, altre tramandate oralmente. Musica come resilienza, musica come anelito di libertà, musica come scansione delle attività giornaliere nei campi, anche quelle terribili, musica per salvare la propria mente e la vita.





Parigi. Wally Lowenthal Karveno e Francesco Lotoro con in mano l’autografo del “Concertino per pianoforte e orchestra da camera” scritto a Gurs – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta



Ho trovato la “missione” di Francesco Lotoro, classe 1964, musicista di Barletta, pianista, compositore e direttore d’orchestra, docente di pianoforte presso il Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari, un enorme atto d’amore, verso chi è stato privato della libertà, torturato e massacrato ma anche verso la musica stessa.Avere la possibilità di riascoltare quello che è stato scritto nei campi, una musica che potremmo definire sicuramente nuova, “concentrazionaria” come è stata battezzata, è una delle concrete possibilità per non dimenticare, testimonianza diretta e reale delle atrocità commesse. Francesco Lotoro lavora per questo, perché le prossime generazioni possano “ascoltare” la cruda realtà di quello che l’essere umano è riuscito a concepire ma anche cogliere la creatività e la necessità di vedere la propria esistenza oltre i confini di un lager nazista. Musica per evadere, per volare, per fissare momenti “resistenti”. Nel 2017 il regista franco-argentino Alexandre Valenti ha dedicato a Francesco un docufilmMaestro, una coproduzione italo-francese.

Gli ho scritto se potevo intervistarlo, mi ha risposto immediatamente. Ne è nata una lunga e intensa chiacchierata…

Francesco come è iniziato tutto ciò?
«Ho cominciato nel 1988, spinto da molti elementi giovanili, passioni, curiosità. Mi mancava la visione d’insieme di ciò a cui stavo andando incontro… I primi quattro anni cercavo solo musiche composte da musicisti ebrei. Mano a mano che contattavo persone, le incontravo, mi documentavo, lavoravo con l’aiuto di tutor perché trovavo manoscritti scritti in diverse lingue, catalogavo, suonano, eseguivo le partiture, sono passati gli anni e mi sono accorto che questa ricerca si era mangiata un po’ tutto della mia vita. Non era prevedibile. Sono arrivato a migliaia di opere catalogate e non è ancora finita…CI vogliono tante risorse ancora per finire il lungo lavoro».

Come musicista che idea ti sei fatto?
«Sono un pianista e ciò mi ha aiutato a cercare un repertorio pianistico denso di linguaggi molto avanzati, che andavano persino oltre Arnold Schönberg (il compositore austriaco naturalizzato americano, considerato dirimente per aver scritto musica al di fuori dalle regole del sistema tonale, ndr).


Charles Abeles, prima pagina del Valzer Rondo Felicità op.282 – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta


Negli anni hai contribuito a creare un’orchestra, l’Orchestra di Musica Concentrationaria, con la quale hai inciso un’enciclopedia in 24 volumi CD KZ Musik, contenente 407 opere scritte da prigionieri civili e militari in quel periodo…

«L’ossigeno della ricerca e la sua bellezza estetica è suonare molta di questa musica. Sai, ho sempre pensato che eseguirla sia un gesto magico, liberarla dai campi, in una sorta di redenzione».

Quando pensiamo ai campi di concentramento spesso ci facciamo dei “film” errati…
«I campi di concentramento, internamento, sterminio erano realtà metropolitane zippate, con elementi di eterogeneità. L’elemento artistico ha fatto scattare connessioni tra gruppi sociali e linguistici. Nel campo di Birkenau (Auschwitz II), per esempio, è impossibile distinguere tra musica ebraica e musica rom. La promiscuità nel gergo artistico è illuminante, fertile. Capitava anche che i musicisti prestassero i loro strumenti ad altri musicisti, come è successo nel campo di Sandbostel quando i francesi che stavano nello Stalag XB dettero più volte il violoncello a Giuseppe Selmi, grande violoncellista, compositore e didatta italiano (Selmi ha scritto in prigionia molte partiture per violoncello e il meraviglioso Concerto Spirituale per violoncello e orchestra, ndr) che stava nell’attiguo Stalag XA» (Selmi, come scrive lo stesso Francesco, «si esibì per i prigionieri italiani in un intero concerto imbracciando un violino a mo’ di violoncello…»).

Ci sono stati anche sodalizi gloriosi e proficui nei campi, come quello di Giovannino Guareschi e Arturo Coppola…
«Sono nati brani bellissimi. Prendi La favola di Natale che Guareschi scrisse nel 1944 nel campo di Sandbostel e Coppola mise in musica, è un’opera straordinaria e così poco rappresentata oggi. Coppola scrisse molti altri brani, come Treviso (la città in cui passò maggior parte della sua vita, ndr) quando seppe del bombardamento sulla città, molti mesi dopo l’avvenimento. Da ricordare anche Dai Dai Bepin, un’esortazione a Stalin che si muovesse in fretta per liberarli dalla prigionia…».


Gerusalemme. Francesco Lotoro con il pianista e compositore Alex Tamir, sopravvissuto al Ghetto di Vilnius – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta

Quanto ha influito la privazione della libertà sui musicisti e sulle partiture composte?
«Il musicista in prigionia componeva per esorcizzare il campo, l’ambiente non influiva, dunque, più del necessario sui criteri architettonici della composizione. Il campo c’è, attraversa la musica, ma il musicista è ancorato alle proprie visioni, alla propria storia. Il dramma esiste, ma in chiaroscuro, il musicista in questo modo vuole annichilire il campo. Spesso, sono stati gli stessi musicisti prigionieri a costringere i loro carcerieri ad acquistare strumenti musicali, fogli per scrivere partiture, a farsi esentare dal lavoro per dedicarsi alla composizione».

La musica faceva vedere la prigionia in un altro modo…
«Hai presente l’orchestra del Titanic che non smetteva di suonare mentre il transatlantico affondava? O Pau Casals il grande violoncellista catalano, che si esibiva anche durante il regime franchista perché mai come in quei momenti la gente aveva bisogno della musica? Così era nei campi. Ogni musicista ha portato nella prigionia la propria esperienza, che è rimasta patrimonio del luogo. L’elemento campo ha modificato, evoluto, deteriorato, agito da drenante, intaccato certe corde, certe sensibilità. Gli artisti sopravvissuti alla prigionia, una volta liberi, sono diventati fondamentalmente diversi, hanno voluto cancellare completamente la detenzione. Ci sono dolori che vengono redenti in maniera diversa. Di per sé nei campi abbiamo avuto lo sviluppo, l’estremizzazione, la radicalizzazione di certi linguaggi, forme brecktiane possibili solo perché, appunto, nate all’interno del campo».

Quindi la musica è stata tante cose: un atto di liberazione, una forma di rigore mentale e pure la summa di colonne sonore della vita quotidiana nei campi…
«A Buchenwald c’era un’orchestra di 80 elementi. Auschwitz, nelle sue tre declinazioni, il campo principale (I), Birchenau (II) e Monowitz (III) contava ben sette orchestre. D’opposto, Hans Gál (musicista viennese che fuggì dall’Austria nazista rifugiandosi in Gran Bretagna dove, per ironia della sorte venne recluso dagli inglesi che arrestarono gran parte dei profughi tedeschi scampati al regime, tra questi anche numerosi ebrei, ndr) nel campo di detenzione di Douglas, sull’isola di Man compose la Huyton Suite op.92 con gli strumenti che aveva a disposizione, un flauto e due violini».

Ma nella musica concentrazioanria c’era anche altro…
«È una musica sessista, divisa per genere. Orchestre maschili e orchestre femminili. Solo nel campo di Theresienstadt c’era un’orchestra mista. È stata poi usata per il più sublime e il più perverso degli scopi. Si suonava quando arrivavano i treni con i nuovi prigionieri e i nazisti facevano una selezione veloce delle persone: vecchi, malati, bambini venivano soppressi, gli altri in salute andavano ai lavori forzati. L’orchestra suonava quando il gruppo di deportati partiva e arrivava dal lavoro coatto. Suonava la domenica nei villaggi dei militari per rallegrare le passeggiate pomeridiane dei nazisti con le loro famiglie, ma suonava anche per i deportati…».


Berto Boccosi, prima pagina del quaderno di Saida (abbozzo dell’opera La Lettera Scarlatta) – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta

La musica era dunque sempre concessa?
«Nei campi di detenzione dove c’erano ebrei si poteva scrivere musica, in quelli dove c’erano i prigionieri politici, no. In questo caso gli artisti memorizzavano ciò che componevano, o scrivevano le partiture sulla carta igienica o sui teli di juta, addirittura sulla terra, quando andavano a lavorare nei campi di patate. Ognuno dei detenuti imparava a memoria quattro battute e poi la sera venivano trascritte su mezzi di fortuna. Ma non dobbiamo pensare a gesti di magnanimità da parte dei carcerieri. Il polacco Artur Gold, per esempio, famosissimo musicista, una delle star del tempo, venne arrestato e deportato a Treblinka. Fu ricevuto dal comandante del campo con tutti gli onori, gli venne concessa un’orchestra con cui allietò i militari, poi venne messo a morte. La negazione di ogni logica. Al musicista non poteva che rimanere la sua musica, poteva contare solo su quella».

Venendo a oggi, dopo trent’anni di lavoro, qualcuno ti ha chiamato lo Sherlock Holmes della musica, che valore ha questo enorme patrimonio che stai raccogliendo?
«Sono convinto che questa sia una musica di portata universale. Per completare il quadro ci vorranno ancora 15, 20 anni. Siamo ben oltre gli ottomila brani raccolti e catalogati e ogni settimana arrivano partiture, segnalazioni, note all’ILMCl’Istituto di Letteratura Musicale Concentrationaria. Con il lockdown ho smesso di viaggiare ma presto spero di ritornare a intervistare, raccogliere, ascoltare. Dovrei andare in Francia dove c’è una testimone che mi aspetta, appena il virus lo permetterà volerò a Parigi. Questa musica è come se fosse stata chiusa in una capsula del tempo. Ti ricordi il film con Nicolas Cage Segnali dal Futuro? Ecco, la musica concentrazionaria è chiusa lì dentro, non si è mai interfacciata con la musica a lei contemporanea, è tanto simile quanto differente. Credo che abbia molto da darci. Però, ne usufruiranno con quotidianità le generazioni future, tra venti o trent’anni».

E la capsula del tempo dovrebbe trovare posto a Barletta in un’ex distilleria, giusto? Sono anni che se ne parla…
«Nel 2016 partecipammo a un bando per la riqualificazione delle periferie, indetto dal governo Renzi. Barletta si candidò e sposò in pieno il progetto di una cittadella della musica concetrazionaria. Considero questo genere di musica in un periodo che va dal 1933 al 1953 includendo anche i gulag sovietici, praticamente fino alla morte di Stalin. Il nostro progetto arrivò dodicesimo. I primi 24 avrebbero avuto una sovvenzione statale. Che però è stata insufficiente. Quindi abbiamo atteso ancora e, se tutto andrà per il meglio, dovremmo inaugurarla nel 2024. Sarà un campus con biblioteca, museo, libreria, teatro, ristorante, due laboratori, un polo di studio della musica ebraica… allora sì, potremo finire la ricerca, ci vogliono altri fondi, è un lavoro enorme, ma che dobbiamo portare a termine».


SI CHIAMA Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria. Raccoglie manoscritti, partiture, materiali epistolari, ma ormai anche strumenti musicali. È frutto del lavoro del musicista e compositore Francesco Lotoro, che ha contattato sopravvissuti e famiglie di ex prigionieri in tutto il mondo. Il catalogo dei documenti raccolti è sul sito fondazioneilmc.it. Da quest’esperienza nascerà una cittadella della musica concentrazionaria su un’area di 10 mila metri quadri a Barletta




Il dediserio smodato di avere un figlio e l'impossibilità di averne uno biologico, la folle idea di rapire un bambino e tenerlo nascosto al mondo pur di non vederselo portare via. La storia di Sebastiano Notarnicola assomiglia per alcuni versi a quella della piccola Sofia rapita a  qualche tempo fa  Cosenza, anche se il finale è del tutto diverso: lui aveva solo 5 mesi e mezzo

quando è stato portato via alla sua famiglia. Era il 20 aprile 1978. Dopo 16 anni è riuscito a ritrovare la sua famiglia biologica, oggi ha ripercorso la sua storia in un'intervista a Fanpage. L'infanzia di Sebastiano, che credeva di chiamarsi Hermann, è stata segnata dalla solitudine, senza documenti e senza la possibilità di frequentare la scuola. Dopo un incendio, il bambino fu messo in collegio. Una sua foto pubblicata su una rivista dell'istituto segnò l'inizio del suo ricongiungmento con la famiglia. 
Il rapimento
Sebastiano Notarnicola ricostruisce il suo passato a partire dal rapimento. Dopo la sua nascita, a Milano, nel 1977, sua madre Annamaria mise un annuncio su un quotidiano chiedendo abiti usati per il suo bambino. All'appello rispose una donna che, spacciandosi per un'assistente sociale, conquistò la fiducia della neomamma, tanto da riuscire con un inganno a restare da sola con il neonato mentre si trovavano in un bar di Milano: «Ha chiesto a mia madre se poteva lasciarmi con lei, che mi avrebbe comprato dei vestiti al negozio Chicco», spiega Sebastiano. Da quel momento, il bambino è cresciuto con quelli che credeva essere i suoi genitori.
L'infanzia nascosta
La donna aveva fornito un indirizzo falso e non fu possibile rintracciarla. «Lei non poteva avere figli, però desiderava averne, non tanto per sé ma per suo marito. Aveva avuto delle gravidanze isteriche e, dal momento che mi aveva portato a casa a cinque mesi e mezzo, a suo marito aveva detto che ero dovuto stare in ospedale perché non stavo bene, lui non sapeva niente e quando sono arrivato era molto felice», spiega Sebastiano, che nel frattempo era stato chiamato Hermann. Vivevano in Valsassina, in provincia di Lecco, ma il bambino non poteva frequentare la scuola poiché senza documenti. Un'infanzia «diversa dagli altri, ma non ho un ricordo brutto». Quello che credeva essere suo padre gli ha insegnato a leggere e scrivere, anche se non usciva mai di casa e non frequentava coetanei. 
Il collegio
La situazione è cambiata quando, in seguito a un incendio in casa, Sebastiano - che all'epoca aveva circa 10 anni - è stato messo in un collegio religioso. L'istituto ha pubblicato delle foto dei ragazzi su una rivista che girava gratuitamente nelle parrocchie di tutta Italia ed è stato così che quell'immagine è arrivata in Puglia, tra le mani di una cugina del padre biologico di Sebastiano, che ha notato la somiglianza tra quel ragazzino e suo nipote. Da lì sono partite le ricerche: «Dentro di me sapevo da sempre che mio figlio era ancora vivo e il dna ce ne ha dato la prova».
L'incontro con i genitori biologici
L'incontro di Sebastiano con la sua famiglia biologica è avvenuto quando aveva 16 anni. «Ho conosciuto prima mio padre e i miei fratelli, con cui finita la scuola ho iniziato a vivere. Mamma e papà si erano nel frattempo separati e mia madre l'ho incontrata solo tempo dopo, perché il giudice aveva disposto che stessi con l'unico dei due genitori che aveva un lavoro». Poi, il ricongiungimento con la madre: «Io ero seduto sul divano e quando lei mi ha visto è scoppiata a piangere». Il rapporto tra i due, però, non è stato idilliaco: «Purtroppo con mia madre non ho avuto un rapporto madre-figlio, ma io penso che non sia colpa sua, è colpa mia, perché sono cresciuto con una famiglia che ho sempre creduto che fosse la mia mentre non lo era, perciò mi è molto difficile oggi costruire legami». 


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Senza parole  davanti a tali forme di fanatismo religioso e fondamentalista 

Quattordici membri di un gruppo religioso australiano sono stati dichiarati colpevoli della morte di Elizabeth Struhs, una bimba diabetica di otto anni a cui era stata negata l’insulina per quasi una settimana. La piccola è deceduta nel 2022 nella sua casa di Toowoomba, nel Queensland, a causa di una grave chetoacidosi diabetica. Secondo la ricostruzione del tribunale, il gruppo noto come i “Saints” si opponeva alle cure mediche, nella convinzione che solo Dio potesse guarire Elizabeth. Anche il padre della bambina,

Jason Struhs, la madre e il fratello della bambina, oltre al leader della congregazione, Brendan Stevens, sono stati condannati per omicidio colposo. Nel pronunciare il verdetto di quasi 500 pagine, il giudice Martin Burns ha evidenziato che, sebbene Elizabeth fosse amata e accudita sotto molti aspetti, le sue condizioni di salute erano state ignorate a causa della fede cieca nel potere di guarigione divino. “Le è stata negata l’unica cosa che le avrebbe salvato la vita”, ha dichiarato il giudice.
La tragedia e il processo

Elizabeth, descritta come una bimba intelligente e vivace, ha trascorso gli ultimi giorni della sua vita tra sofferenze atroci. Secondo la testimonianza dell’accusa, la piccola era debole, parlava a fatica ed era incapace di camminare autonomamente. Mentre le sue condizioni peggioravano, i membri della setta si limitavano a pregare e cantare, convinti che la guarigione sarebbe arrivata per intervento di Dio. Nessun medico venne chiamato, e le autorità furono avvisate solo 36 ore dopo il decesso. Il processo, iniziato nel luglio scorso, ha visto la deposizione di 60 testimoni e ha svelato dettagli inquietanti sulla comunità religiosa, che conta circa due dozzine di membri provenienti da tre famiglie. Gli imputati, di età compresa tra i 22 e i 67 anni, hanno scelto di rappresentarsi da soli, rifiutando ogni assistenza legale e senza dichiararsi colpevoli. Il tribunale ha pertanto registrato automaticamente dichiarazioni di non colpevolezza.
Una lunga storia di negligenza

Il caso di Elizabeth non era il primo episodio di negligenza da parte della sua famiglia. Nel 2019, la bambina era stata ricoverata in ospedale in coma diabetico, pesando appena 15 chili. I medici le diagnosticarono il diabete di tipo 1 e spiegarono alla famiglia che avrebbe avuto bisogno di iniezioni quotidiane di insulina per sopravvivere. Tuttavia, il padre, inizialmente favorevole alle cure, cambiò posizione dopo il battesimo nella setta e, sotto la pressione degli altri membri, smise di somministrarle il farmaco salvavita. Durante il processo, Jason Struhs ha dichiarato tra le lacrime che lui ed Elizabeth avevano deciso insieme di interrompere l’insulina, convinto che la figlia sarebbe “risorta”. Stevens, leader della setta, ha difeso le azioni del gruppo, sostenendo che il processo fosse un atto di “persecuzione religiosa” e rivendicando il diritto della congregazione di credere unicamente nella parola di Dio. I “Saints”, una piccola congregazione separatasi dalla Revival Centres International di Brisbane, continuano a rimanere un gruppo chiuso e poco conosciuto. Fondato da Stevens dopo il suo fallimento nel diventare pastore, il gruppo tiene sermoni settimanali nella sua abitazione. La sentenza per gli altri imputati è attesa il mese prossimo. Il caso ha riacceso il dibattito in Australia sull’intervento dello Stato nei confronti di gruppi religiosi estremisti e sulla protezione dei minori in contesti di negligenza dovuta a credenze radicali.

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La voglia di essere abbronzati anche in inverno è molto comune, tanto che in molti cedono allo sfizio di farsi una lampada pur di vedersi più colorati allo specchio. A farla è stata anche una ragazza a cui, però, questa volta non è andata bene. Dopo una seduta di 20 minuti sotto il lettino abbronzante, infatti, ha iniziato a perdere pelle dal viso. A raccontare la disavventura è stata lei stessa sui social.

Cosa è successo

Natalia Armstrong ha mostrato su TikTok le orribili conseguenze di essersi sottoposta ad una lampada abbronzante "al contrario" per ben 20 minuti. Appena uscita ha riferito di sentirsi «bene», come sempre. Tutto è cambiato due giorni dopo la seduta. Da allora si è rivolta al social per sensibilizzare le altre ragazze all'utilizzo di queste apparecchiature.

La ragazza, che ha esortato gli altri a non commettere lo stesso errore che ha commesso lei, ha spiegato di aver messo il viso dove avrebbero dovuto esserci i piedi, e le dita dei piedi sotto i tubi abbronzanti. Natalia ha scoperto solo dopo, che le luci UV nella zona dei piedi sono «più forti di quelle della lampada abbronzante per il viso».

Le conseguenze e il messaggio

Sebbene all'inizio Natalia si sentisse benissimo e non avesse segni evidenti di alcuna scottatura, due giorni dopo la sua faccia ha iniziato a spellarsi. La ragazza ha spiegato sul social che la pelle del viso era talmente tesa da non riuscire neanche a sorridere correttamente. Tuttavia, il peggio doveva ancora arrivare, la ragazza, infatti, presentava anche alcune dita delle mani rosse e gonfie.

Dopo alcune visite mediche, a Natalia sono stati tagliati quattro anelli che indossava alle dita e che non riusciva più a togliere. Un suo dito ha anche sviluppato un'infezione. «Sono lesa, ma è riparabile», ha detto Natalia, spiegando che erano state delle sue amiche a parlarle del metodo di sdraiarsi a testa in giù nel lettino abbronzante. La ragazza, nonostante si dichiari «dipendente dalle lampade» ha voluto mandare un messaggio di avvertimento a chiunque, come lei, ne faccia uso: «Condividetelo, ripubblicatelo. Se conoscete qualcuno che lo fa, per favore ditegli di non farlo». 

Rischi dei lettini abbronzanti

I lettini abbronzanti sono da tempo ormai associati al cancro della pelle, sono stati addirittura vietati in alcuni paesi, come Brasile e Australia. Secondo l'International Agency for Research on Cancer (IARC) (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro), ci sono prove significative che dimostrano che l'uso dei lettini abbronzanti causino il melanoma. Secondo gli esperti, infatti, i lettini abbronzanti aumentano il rischio di cancro della pelle fino al 20 percento.«Siamo chiari sui lettini abbronzanti. Non sono solo “alcuni” esperti a dire che fanno male alla pelle. Sono quasi tutti - ha dichiarato la dottoressa Carol Cooper - I raggi UV danneggiano il DNA nelle cellule della pelle, quindi è più probabile che si trasformino in cancro. Non devi nemmeno scottarti perché ciò accada».

DIARIO DI BORDO SPECIALE 8 MARZO parte 2 ANNO Ⅲ Come la cultura woke mina le basi del femminismo, l’inganno di alcune battaglie giuste condotte in modo sbagliato

“I femminismi di fronte alla cultura woke”, Roma, Sabato 8 marzo dalle 10.00 alle 18.00, Fondazione Einaudi via della Conciliazione,10. Con ...