IN AFGHANISTAN Marina, infermiera: «Faccio nascere bambini sotto le bombe»


DA  CORRIERE  DELLA SERA  DEL  5 novembre 2020 (modifica il 6 novembre 2020 | 17:32)

IN AFGHANISTAN

Marina, infermiera: «Faccio nascere bambini sotto le bombe»
Marina Castellano, 58 anni di Torino, è responsabile dell’ospedale materno di Msf a Khost. Nonostante la guerra, le coppie che fanno figli sono tantissime. «Le famiglie numerose si aiutano le une con le altre»
                           di Jacopo Storni


Marina Castellano, torinese di 58 anni, è nello staff di Msf in Afghanistan




C’è la guerra in Afghanistan. L’ultimo attacco pochi giorni fa, a Khost. Un attentato con sei morti e dozzine di feriti. Ma nella guerra non c’è solo morte. Se guardi da vicino, ti accorgi anche del suo opposto, la vita, quella che nasce, tutti i giorni, ad ogni ora, all’ospedale materno infantile di Khost, gestito da Medici Senza Frontiere. Ogni giorno, mentre le bombe esplodono e i kalashnikov gridano, ci sono quasi cento nascite. Neonati che vengono alla luce avvolti dalle tenebre del conflitto, che dovranno diventare adulti prima del tempo. Ma che però sono in vita. E che urlano gioia, sognano pace, proclamano vita oltre la guerra. E poi ci sono loro, le famiglie, quelle famiglie che si ostinano ad avere figli, nonostante tutto. E sono tantissime.
«Perché essere famiglia in Afghanistan è importantissimo, avere una famiglia numerosa fa parte della cultura afghana ma soprattutto significa essere famiglia davvero, cioè aiutarsi gli uni con gli altri, supportarsi, stare insieme, condividere. La famiglia è veramente al centro della vita in Afghanistan». A dirlo è Marina Castellano, torinese di 58 anni, l’infermiera che quei bambini li vede nascere ogni giorno, la responsabile dell’ospedale, per la seconda volta in Afghanistan nelle sue missioni, una terra che le è nel cuore. E ogni volta che nasce qualcuno, è una commozione nuova, forse doppia, proprio perché la nascita è dentro la guerra. E ogni volta, quella nascita, alimenta una nuova speranza.
«È sempre una grande emozione veder nascere un bambino e tutto quello che è legato alla sua nascita», dice. Non ci dovrebbe essere guerra che tenga dentro un ospedale materno. E invece, il richiamo delle armi risuona spesso. «Anche nel nostro ospedale - racconta - capita che la guerra in qualche modo interferisca nella vita delle donne che devono partorire e nella vita dei bambini perché spesso queste donne vivono in villaggi lontano dalla città dove ci sono combattimenti e nel momento del parto non possono accedere alle cure necessarie, oppure non possono arrivare in ospedale in tempo perché la strada non è sicura o magari vengono colpite durante il tragitto da casa all’ospedale».
Fra i tanti parti a cui Marina ha assistito, ce n’è uno indimenticabile, quello di 4 gemelli: «Ad avermi colpito - al di là dei 4 gemelli che pesavano tutti più di un chilo ciascuno e il parto che è avvenuto in modo naturale - è la serenità, il coraggio e la gioia che si leggeva in faccia alla madre. Non si è mai lamentata, non ha mai chiesto nulla a nessuno per il dolore, ha affrontato il travaglio tranquilla e al momento del parto sorrideva nonostante la grande fatica. È stata bellissima ed emozionante l’immagine, che credo non dimenticherò, dei 4 bambini appoggiati sulla sua pancia e lei che li abbracciava tutti e 4 piangendo, così come piangevamo noi infermiere».
Infiniti gli aneddoti che potrebbe raccontare, come quello di lunedì scorso: «Siamo stati svegliati al mattino presto da un attacco sulla città, abbiamo dovuto rifugiarci all’interno della saferoom del compound dove viviamo e allo stesso tempo anche tutto l’ospedale, lo staff e i pazienti hanno dovuto rifugiarsi. Poco prima che iniziasse l’attacco, era stata ammessa una donna al termine della gravidanza con un’emorragia in corso. Alla prima visita il bambino è purtroppo risultato morto, la donna doveva subire un taglio cesareo per fermare l’emorragia e per rimuovere il bambino che era messo di traverso e non poteva essere partorito in modo naturale. La ginecologa Ziya, presente nella saferoom con la donna, tramite radio e telefono ci ha chiesto l’autorizzazione per andare in sala operatoria ma purtroppo il coordinatore di progetto non ha potuto darla: fuori continuavano gli spari, gli attacchi erano troppo vicini e i rischi erano troppo alti. Allora la dottoressa ha deciso di creare una sala operatoria all’interno della saferoom e con l’aiuto delle ostetriche presenti hanno effettuato il taglio cesareo. La donna si è salvata ma se non fossero intervenuti avremmo perso anche lei».

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