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Hanno cambiato la loro vita, sono fuggite dal loro Paese, hanno deciso di scendere in pista o di dare corpo a storie difficili: sono le donne straordinarie di ogni giorno

 

Hanno cambiato la loro vita, sono fuggite dal loro Paese, hanno deciso di scendere in pista o di dare corpo a storie difficili: sono le donne straordinarie di ogni giorno

Mer 28 Apr 2021 | di Angela Iantosca | Attualità

Foto 9 di 27

Sono forti, determinate, desiderose di cambiare. Sono le mamme d’acciaio, quelle che lottano per se stesse, per i loro figli e che, facendolo, migliorano il mondo nel quale vivono, diventando punto di riferimento per altre donne e mamme. Per questo speciale abbiamo raccontato la storia di chi ha deciso di affrontare i suoi problemi con il peso e di aprire una palestra, la storia di quelle donne che non hanno paura di correre a tutta velocità, la storia di chi è fuggita dal genocidio della sua terra per dare un futuro a se stessa, ai figli e a tante altre donne. E la storia di chi ha impersonato “Pieces of woman”, un film capolavoro che racconta nel silenzio il dolore di una donna che partorisce una bambina che rimane in vita per pochi attimi... 


 

Cira e le 600 donne di Scampia

L’infanzia difficile, una famiglia numerosa, quei 92 kg e poi il riscatto: per sé e per altre donne in difficoltà

Angela Iantosca

«Non ho avuto un’infanzia facile. Sono figlia di una famiglia numerosa con un padre (Giovanni - ndr) che faceva fatica a mantenerci e che maltrattava mia madre (Anna – ndr). Ho vissuto la fame e la miseria. L’unica cosa buona dei miei ricordi è che eravamo tanti. Noi otto fratelli eravamo il nostro mondo, ci sostenevamo, facendoci scudo l’un l’altro, per proteggerci da tutto ciò che ci faceva male».
Cira Celotto è nata a Portici, in una famiglia numerosa, quarta di dieci figli, dei quali due morti. La mamma era casalinga e il padre contrabbandiere. «Papà non c’era mai. Era pesante l’atmosfera, ma per fortuna potevo contare sulla seconda sorella, Maria, molto simile a me. Eravamo entrambe molto sensibili e questo ci faceva soffrire più degli altri. La chiamo ancora oggi mamma: è lei che mi ha cresciuta». 

Parlavano poco, ma si capivano nei silenzi, Cira e la sorella. 
«Cercavamo sempre di non parlare. Ci faceva male pensare a ciò che si viveva in casa. Allora pensavamo ad altro: giocavamo con le bambole, ci truccavamo a vicenda, ci pettinavamo. Cercavamo di andare oltre». 

Nonostante la necessità di cominciare a lavorare da bambina. 
«Ho cominciato a lavorare ad 8 anni: con mia sorella mettevo i prodotti sugli scaffali dei supermercati. Allora non c’era l’dea dello sfruttamento minorile. In cambio del nostro impegno ci davano la spesa da portare a casa. A scuola andavamo di mattina e poi a lavorare alle 5 del pomeriggio, ma andava bene anche quello: avremmo fatto di tutto per scappare dalla situazione familiare. La verità è che cercavamo di stare poco o niente a casa…».

Come era tua mamma?
«Ricordo delle cose atroci: scappava da mio padre, anche se mi ha sempre trasmesso forza. Le dicevo che doveva separarsi, che non doveva subire, ma lei non c’è mai riuscita, perché pensava a noi figli e al fatto che ci avrebbe privati di un padre. Allora non la capivo: non capivo come fosse possibile sopportare per ‘amore’. Ma pian piano lo ha cambiato. E questa cosa ha permesso a me e mio padre di riconciliarci. Oggi posso dire di avere con lui un buon rapporto. Nonostante il dolore, lo amo. Anzi, ammetto di essere sempre stata innamorata di lui: un amore innato non giustificato, perché non si può amare un genitore simile. Quando mi sono sposata, lasciando casa, lui ha cominciato a mostrare affetto. Ma solo nel 2020 mi ha abbracciato per la prima volta». 

Quando hai cominciato a mangiare molto e a prendere peso?
«Ho cominciato con lo sviluppo, a 10-11 anni. Venendo da una famiglia povera, sono cresciuta mangiando tanti carboidrati a pranzo e a cena, perché ci dovevano riempire la pancia. Non avevamo amicizie. Stavamo sempre in casa. Il nostro rifugio era il cibo spazzatura. Anche i miei fratelli, quindi, sono diventati come me nel tempo, sia le sette femmine che l’unico maschio, e mi fa male dire che loro non sono riuscita ad aiutarli, così come ho fatto con tante altre persone». 

Quando hai lasciato la scuola?
«Ho frequentato fino alla terza media. I miei non potevano pagarmi gli studi e bisognava portare qualcosa a casa. Mi sono rifatta nel tempo, prendendo qualche titolo in modo autonomo…». 

Tutto questo finché non sei andata via di casa.
«È accaduto a 23 anni. A 13 mi ero fidanzata con un ragazzo fantastico che poi è diventato mio marito. Lo amavo tanto, ma ho deciso di sposarmi così presto per fuggire da tanto dolore. Lui per me era una speranza. Mi è sempre stato accanto: quando ci siamo fidanzati lui studiava e poi la sera lavorava in pizzeria. Mi aiutava economicamente per le cose principali, per comprarmi un completino intimo o per acquistare qualche prodotto per la cura della persona. È stato la mia luce. Mi ha sempre dato quell’affetto che non ricevevo a casa, essendo noi molto numerosi. Nella  sua famiglia ho trovato una madre e un papà: lui è stato il mio iniziare a vivere. Negli anni del fidanzamento, poiché lui era molto geloso, non andavo in giro per lavorare, ma rimanevo nel mio palazzo dove facevo la speaker radiofonica per cantanti neomelodici e poi la babysitter. Mi diceva sempre: “Ci penso io a te”. Aiutava anche la mia famiglia…». 

Come è stata presa la decisione di sposarti?
«Quando ho deciso di sposarmi, mamma e le sorelle l’hanno presa male, perché io ero quella che cercava di dare amore… Mia mamma ancora piange perché mi vorrebbe a casa. Ero la più affettuosa. Ora con mia mamma è rimasta solo una sorella, che è ragazza madre. Tutte le altre si sono sposate. Qualcuna cambiando radicalmente la propria vita, qualcun’altra no: diciamo che non tutte sono state fortunate come me e non hanno avuto la forza di apportare un cambiamento radicale nella propria vita». 

Dopo il matrimonio hai avuto due bambine. Ma, nonostante la gioia della maternità e dell’essere felicemente sposata, hai continuato a mangiare arrivando a pesare 92 kg. Cosa è successo che ti ha fatto cambiare prospettiva?
«Mio marito, che è un grande sportivo, lavora nell’esercito. Ad un certo punto sono cominciate ad arrivare sempre più donne. Insomma, è subentrata la gelosia e mi sono resa conto di quanto fossi trascurata, di come non avessi cura di me: ero un’anti-donna per eccellenza. Mi è subentrata la paura di perderlo e quindi ho cercato dentro di me tutta l’energia possibile per rimettermi in forma. Sono stata durissima: ho cominciato ad evitare di mangiare a pranzo da mia madre, ho cominciato a camminare, a fare sport. Ho messo un punto alla me del passato. È vero, ci vuole coraggio per cambiare, ma ce la possiamo fare».

Tuo marito cosa ha fatto?
«Mio marito ha avuto un ruolo fondamentale. Mi è stato accanto nei momenti difficili, nei quali rinunciavo a qualsiasi sfizio, e soprattutto abbiamo cominciato a condividere la passione per lo sport. Mi ha insegnato tanto fino a cominciare a fare corsi di formazione insieme, diventando prima lui personal trainer e istruttore per allenamento funzionale e poi io istruttrice. Ma soprattutto ho perso quasi 40 kg». 

Le tue figlie come hanno reagito al cambiamento? 
«La grande ha subìto poco, perché nel crescere lei mi ha avuto quasi sempre accanto: io ho cominciato a lavorare nel fitness che lei era grande. La piccolina ha sofferto un po’ di più, perché ho cominciato a dedicarmi all’attività fisica quando lei aveva quattro anni. Ho cominciato allenandomi due ore al giorno, poi sempre di più. La più grande ha notato molto il mio cambiamento. Ha fatto fatica, ma ora è la mia migliore amica: mi dà forza e coraggio».  

Le tue sorelle come hanno vissuto questo? 
«Due, tre vanno fiere, in altre è subentrata gelosia: con alcune ci siamo un po’ allontanate. Invece mia mamma è fiera di me: sono il suo riscatto».

E per le donne di Scampia? 
«Per le donne di Scampia sono la loro ‘Madonna’: mi hanno detto che vogliono farmi una statua al centro di Scampia. Ho rivoluzionato la loro vita. Anche se l’approccio non è stato semplice: all’inizio mi dicevano di stare attenta, invece l’amore è scattato subito e ora ci sono 600 iscritte che vengono a rimettersi in forma nella mia palestra, che si trova nell’Officina delle Cultura Gelsomina Verde. Quando ho chiesto uno spazio nella loro struttura non sapevo niente, non conoscevo la storia di Gelsomina. Poi ho capito. E ho collegato tutto nella mia testa e mi è sembrato tutto legato: l’Officina è intitolata ad una vittima di camorra e io ho aperto una palestra che rappresenta un po’ il riscatto per queste donne. A breve aprirò anche uno sportello per l’ascolto di donne vittime di violenza».

Quanto la tua palestra è una zattera?
«Se ti do in mano il mio cellulare lo getti dal finestrino: mi chiamano continuamente, mi scrivono (Ride felice - ndr). Arrivano da me per sapere cosa mangiare, ma vengono per altro: per trovare l’oasi del benessere, per stare distaccate, per stare in mezzo ad altre donne. Molte di loro sono vittime di violenza, qualche loro compagno ha tentato di ucciderle. Ci sono tante situazioni difficili e la palestra chiusa di questo periodo, causa lockdown, è un lutto». 

Cosa hai scoperto di Scampia?
«Hanno tutte sete di attività. Cercano emozioni e luoghi in cui essere ospitate. Hanno il desiderio di fare qualcosa per se stesse, cercano spiragli di luce ovunque e ho scoperto che tutte hanno un cuore pazzesco: ma non l’ho scoperto io, aspettavano qualcosa che le accogliesse verso il cambiamento, anche per una sola ora».                                           

 


Iron Dames donne (e mamme) oltre i limiti

Manuela Gostner è una delle Iron Dames, donne che si spingono oltre ogni limite, non solo nella velocità

Francesca Favotto

“Donne e motori, son gioie e dolori”, così recita un vecchio adagio, che dovrà essere evidentemente aggiornato, perché oggi il mondo dei motori (come tanti altri settori) non è più solo appannaggio degli uomini, ma le donne ne sono sempre più protagoniste. 
È il caso delle Iron Dames, le “dame di ferro”, o meglio “donne d'acciaio”, un progetto speciale creato e guidato da Deborah Mayer, imprenditrice e ambasciatrice Ferrari all'interno del Racing Team Iron Lynx, con l’obiettivo di supportare le donne nel Motorsport. Una line-up tutta al femminile, composta dall'italiana Manuela Gostner, dalla svizzera Rahel Frey e dalla danese Michelle Gatting, che partecipa con una Ferrari 488 GTE alle competizioni endurance più affascinanti del mondo racing, come l'European Le Mans Series e il 24 Ore di Le Mans.
Tre donne che non hanno paura di superare i limiti – non solo di velocità – e di misurarsi con uno sport in cui l'adrenalina e il pericolo la fanno da padroni. Noi abbiamo raggiunto Manuela Gostner - classe 1984 e mamma di Maya, 13 anni, e Laura, 9 anni - per capire come questa passione, diventata un lavoro, influenzi il suo modo di essere donna e anche madre. 

Quando hai scoperto che i motori erano la tua più grande passione? 
«Ho scoperto la passione per questo mondo solo per caso e molto tardi, quando avevo già 30 anni: mio padre mi portò alle gare del Ferrari Challenge, promettendomi che alla prossima giornata di test avrei potuto provare l'auto da corsa. L'ho fatto e da quel momento non sono più scesa. Avevo vicino mio fratello, che mi ha insegnato come si porta una vettura da corsa al limite. Ne sono rimasta affascinata, è partita una sfida con me stessa, volevo a tutti i costi imparare anch’io a guidare così». 

Cosa provi quando guidi, soprattutto quando porti una Ferrari?
«Correre in macchina non è paragonabile a nessuno sport. Io ho fatto tanti sport (è stata giocatrice di pallavolo e beach volley ad alti livelli - ndr) prima di diventare pilota, ma il racing è una sfida a 360 gradi, molto stancante sia fisicamente che mentalmente, richiede tanto coraggio, istinto, sensibilità, ma è veramente bellissimo quando si riesce a oltrepassare i limiti che ci poniamo. Riguardo alla Ferrari, guidarla ti dà quel brivido in più rispetto a una macchina da corsa diversa: è una sensazione bellissima, è come far parte di un club esclusivo, dà valore aggiunto all'esperienza». 

In che modo questo mestiere, questa passione, esalta la tua femminilità?
«Io sono una ragazza molto femminile, ci tengo tantissimo, è una cosa che mi piace proprio far risaltare quando sono in pista, perché questo è un mondo molto rude e crudo, e non voglio che questo influisca sul mio sentirmi donna. Voglio portare l'esempio che c'è un modo diverso di vivere il motorsport con il mio sorriso e la mia dolcezza». 

Tu sei mamma di due bambine: esiste un punto in cui si possono incontrare maternità e motori? In che modo la tua passione per le gare ti rende una madre migliore?
«In realtà non si incontrano, nel senso che per me essere mamma non esclude in nessun modo l’essere pilota e viceversa. Correre sembra una cosa pericolosa da fare quando a casa si hanno bambini, ma per me è molto importante che io possa fare un lavoro con il quale posso realizzare i miei sogni, perché voglio lasciare loro questo insegnamento: che nessun sogno è irrealizzabile, che devono seguire il loro istinto. Anche se un giorno vorranno fare il downhill o arrampicarsi sulle montagne, io ovviamente avrò un po’ di paura per loro, però le lascerò libere di prendere la loro strada». 

Che immagine di donna e madre speri di restituire alle tue figlie? Cosa desideri insegnare loro?
«Correre in macchina mi rende una madre migliore senza dubbio, perché fare la mamma 24 ore su 24 per me sarebbe stato davvero stancante. Ho bisogno anche di tempo per me, per realizzarmi, per fare il mio lavoro, per fare le cose che mi piacciono, così quando torno a casa sono una mamma molto più equilibrata e felice rispetto a quella che sarei se fossi onnipresente. Con questo non voglio dire che fare la mamma a tempo pieno sia una cosa da poco o noiosa, anzi il contrario. Però, per mia esperienza personale è fondamentale avere qualcosa che sia solo mio».  

Tirando le somme, quindi, cosa ti ha insegnato il motorsport?
«A me, che sono cresciuta facendo sport di squadra, il motorsport ha dato l’opportunità di sfidare me stessa. Ero abituata al lavoro in team, a essere gentile con tutti, e il ritrovarmi da sola in una macchina da corsa, ha tirato fuori la parte più determinata e aggressiva di me». 
                         
 


L’assistenzialismo è inutile senza formazione

Fuggita dal Ruanda, in Italia ha creato una cooperativa costituita da donne rifugiate. Premiata nel 2018 con il Moneygram Award, Marie Terese, mamma di 4 figli, oggi aiuta le donne migranti e crea occupazione

Marzia Pomponio

E' Marie Terese Mukamitsindo, 67 anni,  cittadina italiana, originaria del Ruanda, un esempio di resilienza, dignità e capacità di mettere l’esperienza personale e le competenze professionali al servizio dei richiedenti asilo, attraverso la creazione di una realtà imprenditoriale inclusiva e produttrice di forza lavoro; premiata nel 2018 migliore imprenditrice immigrato dell’anno con il MoneyGram Award, consegnato dall’ex presidente della Camera Laura Boldrini, e nel 2019 con il Premio Palma d’oro per la Pace presso la città di Assisi. 
Laureata in Scienze sociali all’Università di Bruxelles (Belgio), sposata, quattro figli, un lavoro come dirigente dei programmi socio-sanitari della Regione ruandese, nel 1994 a causa del sanguinoso genocidio ha lasciato la sua Butare, vicino Kigali, e con i figli, la più piccola di 3 anni, ha raggiunto l’Italia. Trova asilo in un centro di accoglienza improvvisato alle porte di Roma, non organizzato per fare fronte all’ondata migratoria. Due anni dopo ottiene il permesso di soggiorno e si trasferisce a Sezze (Latina), dove trova la solidarietà della comunità. Per due anni lavora come badante, riesce a farsi convalidare la laurea, si iscrive all’albo professionale degli assistenti sociali e nel 2004, attraverso un bando europeo, fonda Karibu, una cooperativa sociale che offre accoglienza, formazione e inserimento lavorativo ai rifugiati, in particolare donne con bambini. 
Karibu è stata pensata con un doppio obiettivo: aiutare le donne migranti e dare un contributo alla comunità che l’ha accolta creando occupazione. 
«Karibu in lingua swahili significa benvenuto, perché quando sono arrivata in Italia non c’era accoglienza. Nei centri si viveva come in un magazzino, non potevo gestire neanche i miei figli. Ho pensato anzitutto alle donne, perché subiscono violenze. Gli uomini pagano con i soldi il viaggio, le donne invece anche con il corpo. Ho pensato quindi di lavorare per le donne, ma senza dimenticare la comunità che mi ha accolta e permesso di lavorare».

Ha introdotto il concetto di “rimpatrio con dignità” in risposta alla crisi del lavoro che sfrutta l’emigrato. Di cosa si tratta?      
«Vengono in Europa con l’aspettativa di trovare lavoro e fare soldi, invece restano delusi. Chi è più debole finisce in mano ai delinquenti, va a vendere la droga, altri si arrangiano come braccianti vivendo in condizioni misere. Anche dando loro dei soldi per rientrare nel proprio paese poi tornano in Italia, perché lo vivono come un fallimento. Se invece chiedi “cosa sai fare? che ti piace fare?” e dai la formazione per imparare il mestiere, da saldatore, elettricista, idraulico, e li metti in contatto con alcuni costruttori del paese d’origine, tornano a casa contenti. In Africa non manca la terra e opportunità di lavoro, è un paese in crescita e ha bisogno di persone qualificate».

In un periodo di crisi economica, aggravata dalla pandemia, quale può essere una formula vincente per l’imprenditoria? 
«In Europa è cresciuto tanto l’individualismo e questo rende tutto più difficile. La condivisione è invece importante. Noi siamo abituati a creare rete. In Ruanda c’è la tradizione dell’Umuganda, ogni sabato ci vediamo e decidiamo un progetto da fare insieme: si aiuta a costruire casa a una coppia che deve sposarsi, costruiamo una strada per permettere il passaggio all’ambulanza, puliamo la nostra zona, altre volte facciamo animazione, balliamo. Condividere ci fa apprezzare e difendere la città in cui si vive». 

La cooperativa ha avuto anche 150 dipendenti, in gran parte italiani. Quanto hanno influito i recenti cambiamenti in tema di emigrazione?
«Ora siamo in 40. Già lasciare il proprio paese è un trauma, poi a una persona che ha attraversato il mare, il deserto e ha visto morire, come fai a dire che non ha più diritto all’assistenza sociale e allo psicologo? Come fai l’integrazione se hanno tolto il corso di italiano? Limitarsi a dare da mangiare e dove dormire non basta, l’assistenzialismo è inutile senza formazione».                                                  

A SEZZE DAL 2004
La cooperativa sociale Karibu, con sede a Sezze (Latina), dal 2018 è presieduta da Liliane Murekatete, figlia della fondatrice, Marie Thérèse Mukamitsindo. Dal 2004, anno della fondazione, ha offerto corsi di lingua italiana agli stranieri, assistenza psicologica e sanitaria, corsi di formazione progettati individualmente, dando lavoro a 150 persone, in gran parte italiani, tra assistenti sociali, mediatori culturali, psicologi, educatori, con un fatturato annuo che ha raggiunto anche i 10 milioni di euro. Karibu è oggi una delle realtà più significative in Italia nel sistema di protezione dei rifugiati, capace di combinare attività imprenditoriale e inclusività, con collaborazioni stabili con Enti operanti a livello nazionale e internazionale, come il CIR – Consiglio Italiano per i Rifugiati, Ente promosso dalle Nazioni Unite.

 


È una società ancora maschilista 

Incontrarsi nelle diversità: questa è la vera forza

Emanuele Tirelli

Forza e fragilità sembrano due elementi difficili da far coesistere, soprattutto quando si parla generalmente di donne. «Eppure dovremmo parlare di persone -, dice Elisa Calafiore, psicologa, psicoterapeuta e didatta di psicoterapia per la scuola di specializzazione Gestalt -. Ogni individuo ha la propria storia che viene dall’ambiente in cui è cresciuto, quindi innanzitutto dalla famiglia. Spesso tenderà a cercare o a ricreare dei modelli simili, sia se gli sono piaciuti, ma anche in caso contrario, per trasformare positivamente delle dinamiche nelle quali non ci si è trovati bene. E poi c’è chi si ribella».

Come mai l’Italia riconosce ancora dei ruoli ben definiti?
«Forse perché la nostra società è rimasta abbastanza maschilista. Pensiamo anche a cosa accade sul lavoro: durante i colloqui alle donne viene chiesto innanzitutto se hanno o se vogliono avere dei figli, come se questo fosse un discrimine o un’incapacità di assicurare costanza e professionalità. Si trasforma in un disservizio e non in un diritto».

Perché la donna deve essere sempre forte agli occhi della società?
«In realtà il problema sta nel mancato riconoscimento di un equilibrio. Intendo dire che la donna appare come estremamente fragile o come incredibilmente forte, ma è naturale che un essere umano non possa essere considerato in una sola dimensione. D’altro canto, a una donna troppo forte e autonoma viene detto che è arrabbiata, che resterà zitella, che non potrà essere una buona moglie o una buona madre. È una sorta di ricatto, che spesso parte anche dai genitori stessi, e che trova ancora terreno fertile nella nostra società. Inoltre, se una donna vuole far valere semplicemente i propri diritti, spesso viene detta “femminista”, in un’accezione negativa del termine e come a indicare una contrapposizione con il mondo maschile».

È una questione di potere?
«Mediamente gli uomini non voglio lasciarlo alle donne. Se a portare più soldi a casa è la donna, capita spesso che l’uomo vada in crisi perché non si sente abbastanza maschio per la società in cui viviamo. Il punto, invece, è quello di incontrarsi nelle diversità e mettere in campo le due polarità per trasformarle in una forza. Il problema, però, non riguarda nemmeno la contrapposizione tra uomini e donne, perché tra le stesse donne c’è chi concepisce l’esistenza dei ruoli predefiniti, quindi lo scontro per i propri diritti è sia interno che esterno».

Cosa ne pensa dell’utilizzo che si fa spesso della parola “madre”?
«Che quando viene anteposta alla definizione di una professione, da un lato è discriminante e dall’altro riconosce implicitamente che c’è stato uno sforzo incredibile per ottenere quel risultato, proprio perché la società non considera ancora normale che possa averlo raggiunto una donna, che in quel caso è pure una madre».             

 


Vanessa Kirby: Sopravvivere a un figlio

Ha rubato il cuore del pubblico grazie all’indole ribelle della principessa Margaret in “The Crown” per poi spezzarlo come madre in lutto per “Pieces of a woman”: Vanessa Kirby è pronta a reclamare tutta la gloria che merita

Giulia Imperiale

Ogni parola che esce dalla bocca di Vanessa Kirby è calibrata, ponderata e misurata con cura quasi maniacale. Il controllo che esercita sulle sue dichiarazioni sembra davvero quello di un membro della famiglia Reale, soggetto a rigidi protocolli e sottoposto a continue valutazioni. Dietro quegli occhi profondi si capisce che vorrebbe fidarsi, che le piacerebbe lasciarsi andare, ma poi si barrica dietro un contegno british imperscrutabile. L’attrice londinese preferisce tacere la maggior parte delle volte, in modo che siano i ruoli a parlare, come nel caso del fenomeno tv “The Crown” e del film della stagione, “Pieces of a woman”, che la vede con il cuore a pezzi nei panni di una madre che perde la figlia neonata. 
Spalle dritte, gambe accavallate con grazia, pettinatura impeccabile: il linguaggio del corpo non mente e lei si è già messa in posizione difensiva, pronta a proteggersi e a contrattaccare con rapidità quasi felina.

Quest’edizione degli Oscar vanta svariati record, come 70 donne candidate in 76 categorie. Due di loro sono in lizza come miglior regista. La sensibilità femminile dietro la macchina da presa fa davvero la differenza?
«Certo, ci sono storie al femminile - come “The world to come” - che possono essere realizzate solo da donne, perché una regista ha una sensibilità e una delicatezza che si sostituisce ad un approccio basato su rigore e potere». 

Raccontare l’amore di due donne, come di recente nel caso di “Ammonite” con Kate Winslet, fa subito sorgere paragoni…
«Come se per comprenderlo ci sia sempre la necessità a trovare una controparte maschile, come “I segreti di Brokeback Mountain”. Proprio non si riesce a svincolare la figura femminile dalla relazione con il cosiddetto sesso forte e quindi il personaggio è sempre “la moglie di”, mentre stavolta abbia ribaltato la prospettiva».

Pensa che Time’s Up e MeToo abbiano davvero ottenuti cambiamenti tangibili?
«Io l’ho notato in maniera concreta: dalla sera alla mattina si dibatteva di argomenti diversi e io mi sentivo più ascoltata e maggiormente tutelata. C’è di fatto un’apertura a progetti che hanno le donne al centro del racconto».

Che peso ha per lei nella scelta dei copioni?
«È cruciale perché sento la responsabilità delle donne che decido di rappresentare e non ho intenzione di scendere a compromessi o seguire strategie. Sapere, ad esempio, di aver partecipato alla Mostra del cinema di Venezia con due film, legati a tematiche femminili al 100%, mi rende orgogliosa e felice. Mi sembra di dar voce a chi non ce l’ha e in entrambi i casi queste donne sono alle prese con un lutto enorme».

“The world to come” è ambientato nella metà dell’Ottocento eppure sembra modernissimo nel rappresentare le donne. Come mai?
«Si parla di lutto, di violenze domestiche, di mancata emancipazione, insomma di donne zittite che non vengono ascoltare e raccontate. All’epoca non avevano neppure il diritto di scegliere chi amare, non avevano prospettive e non potevano neppure scegliere come passare il pomeriggio. Questo coraggio di far sentire la propria voce mi ha contagiato e ispirato».

È successo lo stesso con “Pieces of a woman”?
«Certamente, la vicenda – tratta da una storia vera vissuta dalla sceneggiatrice – mi ha ispirata e spaventata allo stesso tempo. Io, infatti, non sono madre, ma ho voluto dedicare quest’opera a tutte le mamme del mondo. Volevo poter accedere a questo dolore indescrivibile della perdita di un figlio in maniera autentica e non solo perché è il primo ruolo da protagonista di tutta la mia carriera».

Questi personaggi non sono perfetti, perché mescolano fragilità e forza. Si riconosce?
«Assolutamente: sin da ragazza ho sempre preso a modello donne solide, ma anche sensibili. Sul piano artistico la mia eroina era Gena Rowland, una tosta e imprevedibile che in  “Gloria – Una donna d’estate” arriva a puntare la pistola per proteggere un bambino».

Non si accontenta di recitare, ora è anche produttrice.
«Ho fondato una casa di produzione per avere voce in capitolo, per poter prendere decisioni ed essere ascoltata».

Come ci è arrivata?
«Con una lunga gavetta fatta di viaggi estenuanti in treno d’estate per recitare da ragazza gratis in teatri sperduti. Mi sono sempre data da fare, ero una che voleva imparare a tutti i costi, facendo esperienza su ogni tipo di palcoscenico, senza nemmeno chiedermi se la piece fosse “appropriata” o meno. Sarò vecchio stile, ma sono una di quelle che scrive lettere di gratitudine e apprezzamento ai registi, che crede ancora nell’artigianato di questo mestiere».

Non sarà stato facile passare dall’essere iperattiva al diventare sedentaria durante il lockdown. Come ha impiegato il tempo?
«Verissimo: non stavo così ferma da anni, mi sembrava di essere tornata ai tempi del liceo, quando il sabato era concesso dormire fino a tardi. Ho capito che la creatività non ha una sola fonte e spesso nasce anche dalla staticità. Io ho cercato comunque di rimanere “attiva” guardando molti film». 

Ha presentato il film “Pieces of a woman” proprio in piena pandemia. Questo l’ha riportata a vivere quel senso di vuoto?
«La morte di un figlio ti porta solitudine e isolamento. Cerchi di trovare un senso nel dolore ma non ne sei capace. Io non so cosa avrei fatto in quelle circostanze, forse avrei cercato di esprimere a parole quella perdita. Sono una persona impulsiva ed emotiva, quindi tenermi tutto dentro durante le riprese è stato faticosissimo». 

Come ci è riuscita?
«Mi è stato detto che in quei casi si ha la sensazione di essere sull’Everest, di urlare, ma a valle, dove ci sono le persone che ti amano, nessuno ti sente per via di un vento troppo forte. Ed era vero».               

LA FENICE LEGGIADRA
La britannica Vanessa Kirby, classe ’88, sta vivendo un periodo d’oro grazie al film “Pieces of a woman” (disponibile su Netflix), che alla Mostra del cinema di Venezia le è valsa la Coppa Volpi, oltre a farle collezionare riconoscimenti e candidature ai premi più prestigiosi, Premio Oscar incluso. Volto di Miu Miu Women’s Tales in Laguna ha anche presentato “The world to come”, dramma storico sulla storia d’amore clandestina tra due donne. Il ruolo svolta-carriera è arrivato però grazie alla serie “The Crown”, che per due anni l’ha vista protagonista nel ruolo della Principessa Margaret. Ha alternato al cinema ruoli action (tra cui “Mission: Impossible” – “Fallout e Fast & Furious” – “Hobbs & Show”) a pellicole indie come “Mr. Jones”. Il suo primo e più grande amore resta comunque il teatro.

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