Paese mio che stai sulla collina...
Si racconta spesso di chi lascia la città per fuggire nella natura. Ma la storia più comune (e meno romantica ) è quella dei piccoli borghi da cui i giovani vanno via. Un fenomeno di spopolamento che continua da un secolo e sembra inesorabile. Ma in alcuni borghi ad esempio a Calascio, in Abruzzo, è nato un progetto per dare un futuro ai ragazzi, per non farli partire. E così sono ricominciati anche a nascere i bambini.
DA https://mariocalabresi.com/
Un secolo fa a Santo Stefano di Sessanio vivevano novecento persone, poi è cominciata l’emigrazione verso Belgio e Francia e oggi ci abitano in settanta. A Calascio erano quasi duemila, trent’anni fa resistevano in duecentocinquanta, ora sono rimasti in ottanta. Da qui sono partiti verso Stati Uniti e Canada. Siamo in Abruzzo, a 1.200 metri sul livello del mare, sotto l’altopiano di Campo Imperatore, nel cuore del massiccio del Gran Sasso. Lo spopolamento maggiore è cominciato negli anni Cinquanta e non si è mai fermato. Per secoli gli abitanti di questi luoghi sono stati pastori, vendevano la lana e facevano il formaggio, e agricoltori, lenticchie soprattutto. Poi il loro mondo è finito e se ne sono andati. I paesi sono diventati dei fantasmi silenziosi. In questi anni abbiamo letto e ascoltato storie di persone coraggiose – coppie giovani, qualche straniero, adulti stanchi di un’esistenza dai ritmi insostenibili – che hanno lasciato le città dove sono nati, per andare a vivere in montagna. Storie nobili, ma non fenomeni diffusi, non una risposta alla domanda vera: perché non esiste la possibilità di restare?
Uno scorcio del paesaggio rurale tra Santo Stefano di Sessanio e Calascio (AQ)
Pensavo che non ci fosse una risposta a questa domanda, ma mentre camminavo in quello che il grande antropologo e esploratore Fosco Maraini aveva ribattezzato “Il piccolo Tibet”, sono inciampato in qualcosa che somiglia a una ricetta, che contiene gli ingredienti per un tentativo di soluzione.
Partiamo dall’inizio, quest’estate volevo fare un viaggio di scoperta, in cui camminare nella natura e conoscere posti nuovi, sognavo l’Islanda, poi ho pensato che, a essere onesti, c’era ancora un pezzo d’Italia che non conoscevo bene: le aree interne, quella dorsale appenninica che dall’Abruzzo arriva in Calabria, passando per il Molise e la Basilicata.
Un’ “Italia vuota” per usare il titolo di un bel libro scritto da Filippo Tantillo.
Così mi sono comprato una cartina e sono partito. È stata un’esperienza meravigliosa, ho negli occhi panorami e luoghi che non immaginavo e mi sono portato a casa incontri indimenticabili. Impensabile fare l’elenco, ho fatto 18 tappe e percorso 1.600 chilometri, vi suggerisco solo l’Abbazia di Bominaco, con un ciclo di affreschi del tredicesimo secolo; la città romana di Sepino; le piccole Dolomiti lucane a Castelmezzano; i calanchi di Aliano – il paese della Basilicata in cui venne mandato al confino dal Fascismo il pittore Carlo Levi, che ci ambientò il suo romanzo: Cristo si è fermato a Eboli – un paesaggio a metà tra la Cappadocia e le rocce dell’Arizona, dove ho partecipato a un festival immaginifico organizzato dal poeta Franco Arminio.
Gli affreschi dell’Abbazia di Bominaco
Il parco archeologico di SepinoIl Comune di Castelmezzano, in provincia di Potenza
Uno scatto dal festival “La Luna e i Calanchi” di Aliano, giunto quest’anno alla tredicesima edizione. La direzione artistica del festival è del poeta Franco Arminio
In Abruzzo, la regione che mi ha stupito di più per l’estensione dei boschi e dei paesaggi, ho fatto alcuni cammini con Lorenzo Baldi, una guida di Roma che vive a Calascio da quasi trent’anni. Mentre salivamo in una lunga vallata per raggiungere Rocca Calascio (in due ore non abbiamo incontrato nessuno tranne due caprioli maschi che combattevano per il controllo del territorio) mi sono fatto raccontare la storia di quella terra. Ho provato a immaginare quale potesse essere il panorama nel Cinquecento, quando in quest’area c’erano centomila pecore, e per controllare nemici e pericoli alla torre centrale quadrata di epoca normanna ne vennero aggiunte altre quattro e una cinta muraria.
Rocca Calascio, dove ambientarono parte del film Ladyhawke con Michelle Pfeiffer e Rutger Hauer, aveva visto andare via il suo ultimo abitante nel 1956 e non aveva più avuto una luce accesa finché un romano non decise di ristrutturare un rudere per le vacanze, che nel 1992 diventò il luogo dove restare e mettere su famiglia. «Quel pazzo romano – mi ha raccontato Lorenzo – si chiama Paolo ed è mio fratello. Ha fatto la scommessa di poter vivere di turismo. Ha sistemato un altro rudere e lo ha trasformato in un rifugio con una camerata con i letti a castello, poi da una vecchia casa ha tirato fuori tre camere e così, piano piano, è nato un piccolo albergo diffuso. Oggi Rocca Calascio ha sette abitanti: mio fratello, sua moglie e i loro cinque figli».
La rocca di Calascio e uno scorcio dal paesaggio che si può osservare dal suo interno
Lorenzo è arrivato nel ‘94, dopo aver fatto l’alpino a L’Aquila e aver preso il brevetto come pilota di aerei, ma senza riuscire ad essere assunto dall’Alitalia. Così ha iniziato a lavorare in montagna, facendo un progetto di ripristino e manutenzione delle antiche mulattiere (quelle che mi ha fatto percorrere). Con il tempo ha gestito un piccolo rifugio a Campo Imperatore, sulle piste dello sci di fondo, e poi ha cominciato ad accompagnare i turisti in montagna e nei boschi. «In questi anni mi ha salvato l’inglese, sono stati gli stranieri i primi a capire questi territori, e la cosa più bella che faccio è la salita in cima al Corno Grande nelle notti di luna piena per vedere l’Adriatico all’alba». Anche lui si è sposato e vive con due figli nel paese di Calascio (poco a valle della Rocca).
Il più grande cruccio di Paolo e Lorenzo era quello di dare un futuro a quei figli nati in un posto dove non nasceva più nessuno, di non vederli obbligati ad andarsene come accade da un secolo. Così nel 2020 hanno fatto nascere una Cooperativa di comunità (un modello di innovazione sociale che nasce per creare lavoro nei piccoli borghi e frenare lo spopolamento) che si chiama “Vivi Calascio”.I ragazzi della cooperativa “Vivi Calascio”, fondata da Paolo e Lorenzo Baldi nel 2020
È nata nel momento in cui c’è stato un aumento del turismo e sono cresciute le necessità dell’accoglienza. «In questa cooperativa adesso ci lavorano 14 persone dai 16 ai 30 anni per sei mesi all’anno. Alla metà di loro riusciamo a garantire il contratto tutto l’anno. Fanno accoglienza turistica, gestione dei bus navetta, biglietteria, servizio informazioni, gestiscono il parcheggio delle auto, la torre di Rocca Calascio e il negozio di souvenir. Abbiamo reinvestito i primi utili comprando 20 biciclette elettriche e formando i ragazzi come guide cicloturistiche».
Il problema però è l’inverno, allora la cooperativa ha cominciato a lavorare anche nella cura del verde pubblico, nelle manutenzioni comunali e dei sentieri e nella pulizia dalla neve: «Per tenere le persone a vivere qui bisogna dargli uno stipendio tutti i mesi: questa la nostra sfida e ce la faremo». Una delle ragazze della cooperativa si è sposata e ha due bambini piccoli: la prima nuova famiglia nata qui.Il Battistero di Santa Maria della Pietà visto dalla Rocca di Calascio
Ma ora, grazie anche ai fondi del PNRR, a Calascio pensano ancora più in grande: vogliono aprire un ostello, un campeggio, un rifugio in montagna e una scuola di pastorizia. Oggi ogni turista che si ferma qui vorrebbe provare il pecorino locale e nella testa di questi due fratelli e di queste ragazze e ragazzi c’è la speranza che questi immensi prati tornino anche ad essere dei pascoli (per la gioia dei lupi…).
Si racconta spesso di chi lascia la città per fuggire nella natura. Ma la storia più comune (e meno romantica ) è quella dei piccoli borghi da cui i giovani vanno via. Un fenomeno di spopolamento che continua da un secolo e sembra inesorabile. Ma in alcuni borghi ad esempio a Calascio, in Abruzzo, è nato un progetto per dare un futuro ai ragazzi, per non farli partire. E così sono ricominciati anche a nascere i bambini.
DA https://mariocalabresi.com/
Un secolo fa a Santo Stefano di Sessanio vivevano novecento persone, poi è cominciata l’emigrazione verso Belgio e Francia e oggi ci abitano in settanta. A Calascio erano quasi duemila, trent’anni fa resistevano in duecentocinquanta, ora sono rimasti in ottanta. Da qui sono partiti verso Stati Uniti e Canada. Siamo in Abruzzo, a 1.200 metri sul livello del mare, sotto l’altopiano di Campo Imperatore, nel cuore del massiccio del Gran Sasso. Lo spopolamento maggiore è cominciato negli anni Cinquanta e non si è mai fermato. Per secoli gli abitanti di questi luoghi sono stati pastori, vendevano la lana e facevano il formaggio, e agricoltori, lenticchie soprattutto. Poi il loro mondo è finito e se ne sono andati. I paesi sono diventati dei fantasmi silenziosi. In questi anni abbiamo letto e ascoltato storie di persone coraggiose – coppie giovani, qualche straniero, adulti stanchi di un’esistenza dai ritmi insostenibili – che hanno lasciato le città dove sono nati, per andare a vivere in montagna. Storie nobili, ma non fenomeni diffusi, non una risposta alla domanda vera: perché non esiste la possibilità di restare?
Uno scorcio del paesaggio rurale tra Santo Stefano di Sessanio e Calascio (AQ)
Pensavo che non ci fosse una risposta a questa domanda, ma mentre camminavo in quello che il grande antropologo e esploratore Fosco Maraini aveva ribattezzato “Il piccolo Tibet”, sono inciampato in qualcosa che somiglia a una ricetta, che contiene gli ingredienti per un tentativo di soluzione.
Partiamo dall’inizio, quest’estate volevo fare un viaggio di scoperta, in cui camminare nella natura e conoscere posti nuovi, sognavo l’Islanda, poi ho pensato che, a essere onesti, c’era ancora un pezzo d’Italia che non conoscevo bene: le aree interne, quella dorsale appenninica che dall’Abruzzo arriva in Calabria, passando per il Molise e la Basilicata.
Un’ “Italia vuota” per usare il titolo di un bel libro scritto da Filippo Tantillo.
Così mi sono comprato una cartina e sono partito. È stata un’esperienza meravigliosa, ho negli occhi panorami e luoghi che non immaginavo e mi sono portato a casa incontri indimenticabili. Impensabile fare l’elenco, ho fatto 18 tappe e percorso 1.600 chilometri, vi suggerisco solo l’Abbazia di Bominaco, con un ciclo di affreschi del tredicesimo secolo; la città romana di Sepino; le piccole Dolomiti lucane a Castelmezzano; i calanchi di Aliano – il paese della Basilicata in cui venne mandato al confino dal Fascismo il pittore Carlo Levi, che ci ambientò il suo romanzo: Cristo si è fermato a Eboli – un paesaggio a metà tra la Cappadocia e le rocce dell’Arizona, dove ho partecipato a un festival immaginifico organizzato dal poeta Franco Arminio.
Gli affreschi dell’Abbazia di Bominaco
Il parco archeologico di SepinoIl Comune di Castelmezzano, in provincia di Potenza
Uno scatto dal festival “La Luna e i Calanchi” di Aliano, giunto quest’anno alla tredicesima edizione. La direzione artistica del festival è del poeta Franco Arminio
In Abruzzo, la regione che mi ha stupito di più per l’estensione dei boschi e dei paesaggi, ho fatto alcuni cammini con Lorenzo Baldi, una guida di Roma che vive a Calascio da quasi trent’anni. Mentre salivamo in una lunga vallata per raggiungere Rocca Calascio (in due ore non abbiamo incontrato nessuno tranne due caprioli maschi che combattevano per il controllo del territorio) mi sono fatto raccontare la storia di quella terra. Ho provato a immaginare quale potesse essere il panorama nel Cinquecento, quando in quest’area c’erano centomila pecore, e per controllare nemici e pericoli alla torre centrale quadrata di epoca normanna ne vennero aggiunte altre quattro e una cinta muraria.
Rocca Calascio, dove ambientarono parte del film Ladyhawke con Michelle Pfeiffer e Rutger Hauer, aveva visto andare via il suo ultimo abitante nel 1956 e non aveva più avuto una luce accesa finché un romano non decise di ristrutturare un rudere per le vacanze, che nel 1992 diventò il luogo dove restare e mettere su famiglia. «Quel pazzo romano – mi ha raccontato Lorenzo – si chiama Paolo ed è mio fratello. Ha fatto la scommessa di poter vivere di turismo. Ha sistemato un altro rudere e lo ha trasformato in un rifugio con una camerata con i letti a castello, poi da una vecchia casa ha tirato fuori tre camere e così, piano piano, è nato un piccolo albergo diffuso. Oggi Rocca Calascio ha sette abitanti: mio fratello, sua moglie e i loro cinque figli».
La rocca di Calascio e uno scorcio dal paesaggio che si può osservare dal suo interno
Lorenzo è arrivato nel ‘94, dopo aver fatto l’alpino a L’Aquila e aver preso il brevetto come pilota di aerei, ma senza riuscire ad essere assunto dall’Alitalia. Così ha iniziato a lavorare in montagna, facendo un progetto di ripristino e manutenzione delle antiche mulattiere (quelle che mi ha fatto percorrere). Con il tempo ha gestito un piccolo rifugio a Campo Imperatore, sulle piste dello sci di fondo, e poi ha cominciato ad accompagnare i turisti in montagna e nei boschi. «In questi anni mi ha salvato l’inglese, sono stati gli stranieri i primi a capire questi territori, e la cosa più bella che faccio è la salita in cima al Corno Grande nelle notti di luna piena per vedere l’Adriatico all’alba». Anche lui si è sposato e vive con due figli nel paese di Calascio (poco a valle della Rocca).
Il più grande cruccio di Paolo e Lorenzo era quello di dare un futuro a quei figli nati in un posto dove non nasceva più nessuno, di non vederli obbligati ad andarsene come accade da un secolo. Così nel 2020 hanno fatto nascere una Cooperativa di comunità (un modello di innovazione sociale che nasce per creare lavoro nei piccoli borghi e frenare lo spopolamento) che si chiama “Vivi Calascio”.I ragazzi della cooperativa “Vivi Calascio”, fondata da Paolo e Lorenzo Baldi nel 2020
È nata nel momento in cui c’è stato un aumento del turismo e sono cresciute le necessità dell’accoglienza. «In questa cooperativa adesso ci lavorano 14 persone dai 16 ai 30 anni per sei mesi all’anno. Alla metà di loro riusciamo a garantire il contratto tutto l’anno. Fanno accoglienza turistica, gestione dei bus navetta, biglietteria, servizio informazioni, gestiscono il parcheggio delle auto, la torre di Rocca Calascio e il negozio di souvenir. Abbiamo reinvestito i primi utili comprando 20 biciclette elettriche e formando i ragazzi come guide cicloturistiche».
Il problema però è l’inverno, allora la cooperativa ha cominciato a lavorare anche nella cura del verde pubblico, nelle manutenzioni comunali e dei sentieri e nella pulizia dalla neve: «Per tenere le persone a vivere qui bisogna dargli uno stipendio tutti i mesi: questa la nostra sfida e ce la faremo». Una delle ragazze della cooperativa si è sposata e ha due bambini piccoli: la prima nuova famiglia nata qui.Il Battistero di Santa Maria della Pietà visto dalla Rocca di Calascio
Ma ora, grazie anche ai fondi del PNRR, a Calascio pensano ancora più in grande: vogliono aprire un ostello, un campeggio, un rifugio in montagna e una scuola di pastorizia. Oggi ogni turista che si ferma qui vorrebbe provare il pecorino locale e nella testa di questi due fratelli e di queste ragazze e ragazzi c’è la speranza che questi immensi prati tornino anche ad essere dei pascoli (per la gioia dei lupi…).
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