29.8.09

Italia multietnica ecco la risposta a bossi

 Mentre  i residui   ideologi  , se d'ideologia   si può parlare  in quanto il razzismo  è   questa  roba qua





 A 70 anni di distanza dalle leggi razziali, una risposta vera dal mondo della Scienza sulla questione razzismo e antirazzismo. Un gruppo di scienziati italiani - tra cui Rita Levi Montalcini, Premio Nobel per la Medicina-  scrive un Manifesto in 10 punti per spiegare quanto false siano tutte le teorie razziste fatte fin ora.) 
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della lega ,  di Forza  nuova  e  affini      non  escono dal passato    l'italia     s'evolve   e  questa  storia presa   dall'unita  online   del 28\9\2009  di Massimo Franchi


La nazionale "multietnica" di cricket


Da buoni patrioti a fine premiazione hanno intonato l'Inno di Mameli. Ha cominciato Harpreet, indiano sikh del Piemonte, poi gli sono andati dietro Adnan, pakistano musulmano di vicino Milano e Charith, nativo italiano da famiglia bengalese. Un “Fratelli d’Italia” del terzo millennio, multietnico e multireligioso, cantato più con gli accenti e le cadenze dei dialetti padani che con quelli delle lingue d’origine. Senza musica se la sono cavata improvvisando qualche parola ("Viva l'Italia" invece che "Italia s'è desta"), ma il risultato è stato più che accettabile. Molto simile a quella della Nazionale di calcio, almeno fino a quando dall’alto non fu imposta la conoscenza dell’inno. Se conoscessero anche “Va Pensiero”, invece, non è dato sapere. I festeggiamenti sono stati all'altezza del trionfo. C'era da festeggiare una vittoria storica: il campionato Europeo di Cricket Under 15. Mai una squadra giovanile di cricket aveva vinto un titolo europeo, sebbene di Seconda divisione. Si tratta di una nazionale in gran parte padana, dieci ragazzi su tredici provengono da squadre del Nord (Lombardia, Trentino, Emilia). Sono immigrati di seconda generazione, quasi tutti figli di quei ricongiungimenti familiari che le nuove leggi della destra renderanno molto più difficili, se non impossibili.
Sabato scorso sul campo di Pianoro, vicino Bologna, ognuno portava una storia che partiva da molto lontano. Famiglie di tutto il mondo che hanno messo radici nel nostro paese, dove, nonostante tutto e tutti, si trovano bene. E non vogliono andersene, alla faccia di Bossi. E proprio al capo lumbard la vittoria è stata dedicata. A farlo è stato il presidente della Federazione italiana cricket Simone Gambino. "La dedichiamo a chi non vorrebbe che questi ragazzi fossero italiani e che invece hanno dimostrato come gli immigrati sono una ricchezza per il nostro Paese". Loro, i ragazzi, Bossi per fortuna non lo conoscono (ancora). Solo qualche genitore gliene ha parlato: naturalmente male. “Mio padre dice che non ci rispetta come noi rispettiamo gli italiani e che non si ricorda che una volta gli italiani erano come noi, emigranti”, racconta Charith, figlio di genitori dello Sri Lanka in Italia da 20 anni. “Io sono nato qua, e la penso allo stesso modo: siamo italiani anche se lui non lo pensa e abbiamo gli stessi suoi diritti”, continua battagliero. Harpreet, indiano sikh arrivato a Mondovì da 4 anni, Bossi non lo conosce, ma concorda con la dedica del suo presidente. “Ha ragione a dedicare la nostra vittoria a uno che non ci vuole perché io sto in Italia e voglio bene all’Italia come all’India. Ci deve accettare come italiani”. Aamir invece è arrivato a Bologna a 6 anni dall’India e a differenza del suo co-nativo è musulmano. “Noi siamo immigrati, è vero. Ma a scuola nessuno mi considera diverso, il razzismo non lo mai sentito e quindi sono italiano come tutti i miei compagni, anche se molti di noi vengono da paesi lontani”.
Il capitano è Adnan, pakistano arrivato a Milano a 6 anni, Bossi non lo conosce, così come non sa che fra lui e i suoi amici indiani non è sempre andato tutto alla perfezione. “Fra di noi parliamo italiano e non conosciamo quello che succedeva prima fra i nostri paesi. Magari i nostri i genitori, ma mi sa che ormai qua in Italia se lo sono dimenticati”.
Per diventare italiani a tutti gli effetti la legge sulla cittadinanza più restrittiva d’Europa impone loro di aspettare il compimento dei 18 anni. “Aspetteremo”, rispondo in coro, ben informati sulla questione. Anche perché quasi tutti hanno fratelli minori: il ricongiungimento familiare quasi sempre porta altri figli in dono e dunque altri italiani a tutti gli effetti. Il più “sfortunato” è Aamir che ha due fratelli più piccoli bolognesi, ma non se la prende: “Sono io che li ho insegnato l’italiano”. Il più “fortunato” è invece Charith, nato a Roma e da sempre a Torrevecchia. “Mio padre fa l’autista e ho un fratello più piccolo. So che per me è stato un piccolo vantaggio essere nato qua, ma con gli altri non è mai parlato. Hanno 15 anni e fra poco saranno italiani anche loro”.
Diventare italiani comporta anche rinunce dolorose, soprattutto per i loro genitori. Harpreet, per esempio, da buon sikh dovrebbe portare il turbante. “Quando l’ho tolto e ho tagliato i capelli qualche anno fa mia madre era disperata. Non mi voleva più parlare. Poi mio padre l’ha convinta: anche lui l’ha dovuto togliere perché lavora in una stalla e con tutti quei capelli faceva fatica con gli animali”. Tutti i musulmani invece rispettano il ramadam, il mese sacro di purificazione e digiuno diurno. “Le tradizioni vanno rispettate, questo mi ha insegnato mio padre e io non ho problema a farlo perché so cosa significa per loro e per la nostra religione”, spiega Aamir. In famiglia quasi tutti però soprattutto con i genitori parlano la lingua di origine. Le madri in quasi tutti i casi stanno a casa e sono quelli che parlano meno l’italiano. Adnan, capitano della Nazionale, pakistano milanese, però spiega che le cose stanno cambiando.
“Oramai anche lei certe parole le usa solo in italiano, insomma finiamo per parlare una lingua mista italiano-pakistano”. Con gli amici invece l’italiano è di rigore. “Anche con i miei amici pakistani e ormai molti di loro usano il dialetto milanese. Io lo capisco, ma ancora non lo parlo: ha dei suoni un po’difficili”. L'unico "italiano-italiano" della squadra è Edoardo Scano. Pure lui è però un piccolo “immigrato” visto che ha dovuto “emigrare” dalla Sardegna a Roma a causa del lavoro del padre. Lui il cricket l'ha conosciuto per via coloniale. Arrivato a Roma è finito in classe con due inglesi (uno è James, compagno di squadra) che lo hanno convinto a provare questo strano gioco. Da lì a finire in Nazionale il passo è stato breve e per lui essere l’unico italiano al 100 per cento non è stato un peso. “Anzi. Mi sono trovato benissimo. Li considero italiani come me e anche se qualcuno non sapeva le parole dell’inno hanno dato tutto per il nostro paese”. L’unico vantaggio era quello di poter prendere in giro i compagni che sbagliavano qualche parola. “Alamin, milanese che viene dal Bangladesh aveva una grossa vescica sul piede e il dottore l’ha visitato. Quando è tornato mi ha detto: “Me l’hanno punzata”, con l’accento milanese. Per quella parola inventata l’ho sfottuto per tutto il torneo, ma lui non se l’è presa e ci siamo fatti delle grandi risate”.
A tenere uniti tutti questi ragazzi è l'amore per uno sport che negli ultimi anni ha subito cambiamenti fortissimi, tanto quanto la nostra società. Se da noi, terra di emigranti, la presenza dei famigerati "extracomunitari" si è allargata dai primi anni novanta diventando "un problema" sempre più grande, così lo sport a squadre più elitario e coloniale del globo si è trasformato in uno strumento di riscatto sociale per le popolazioni immigrate in paesi che con il cricket non avevano niente a che fare. Mazze e pallina in mano fin da piccoli, giocando quasi sempre per strada con i wickets da abbattere e le corse avanti indietro per segnare più punti. Il cricket si contende con il calcio il primato mondiale di praticanti con dati ballerini da uno studio all’altro. “Il cricket è davvero uno sport globale e difatti molti non si spiegano il perché il calcio abbia attecchito in tutto il mondo tranne sul sub continente indiano e Asia del Sud. E’ lo sport che impersonifica l’immigrazione est-ovest meglio di tutti perché chi emigra dall’India continua a giocare dovunque si sposti - spiega il presidente Gambino -. Per noi questo successo è importantissimo: se a livello seniores abbiamo fatto un grande salto grazie agli oriundi, la vittoria di questi ragazzi completamente italiani è un grande vanto. Stiamo lanciando una scuola basandola sull’immigrazione di secondo livello e il boom dei praticanti lo conferma con tanti italiani da generazioni che si avvicinano al nostro sport”.
La diffusione sul territorio è un po’ a macchia di leopardo. Buona al nord, in Emilia e in Lazio, scarsa al sud. In Piemonte c’è poco e per giocare Harpreet deve fare più di 150 km per spostarsi da Mondovì a Varese. Nella profonda Padania ci sono i fortissimi Kingsgrove, un ex babele di lingue ed etnie. Ma anche per trovare questa squadra Harpreet si è dovuto impegnare. “Quando ero in India e giocavo ogni giorno per strada con i miei amici, non credevo che in Italia ci fosse il cricket. L’ho scoperto leggendo i risultati del campionato sulla “Gazzetta dello Sport”. Allora quando sono arrivato ho cercato su internet la squadra più vicina e l’ho trovata a Varese. Quando ho detto a mio padre quanto era distante non ci voleva credere, ma poi l’amore per il cricket ha avuto la meglio e ogni settimana mi accompagna avanti indietro senza problemi”.
Il loro presente da immigrati è questo. E il loro futuro da italiani come lo sognano? "Mi piacerebbe fare il giocatore di cricket professionista - risponde Harpreet - ma sono che sarà difficile". Più pragmatico Aamir: "Sto facendo la scuola professionale, fare il meccanico mi è sempre piaciuto. Poi potrò sempre a giocare a cricket".


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