L’incredibile storia di Amedeo Guillet, il Lawrence d’Arabia italiano

Questa  storia    " tropicale  "  che  vi  propongo oggi  mi ha  aiutato ad  evadere    dalle  basse temperature    della  scorsa   settimana


La guerriglia contro gli inglesi, la fuga rocambolesca dall’Africa, l’amicizia con l’ufficiale nemico Harari, il servizio diplomatico nel dopoguerra. La vera storia di


Amedeo Guillet, premiato infine da Ciampi come un simbolo dell’Italia repubblicana

Si siede alla sua scrivania. Sul piano del tavolo è depositato un pacchetto. Lui lo apre. Dentro c’è uno zoccolo di cavallo in argento con un’iscrizione: “Sandor. Berbero grigio, 12 anni. Max Harari, Asmara – Giugno 1942”. C’è anche una foto: si vede il bel primo piano di un cavallo grigio affacciato alla porta del suo box. E una dedica autografa a penna: “Ad Amedeo, in ricordo del meraviglioso cavallo che fu causa della nostra amicizia”. Ad Amedeo… ma chi è Amedeo? E chi è la persona che gli invia questo oggetto così particolare ?  Facciamo un salto indietro nel tempo. Adesso siamo nel 1909. È il 7 febbraio, giorno in cui a Piacenza nasce Amedeo. Amedeo Guillet. Famiglia nobile di origine sabauda. Il piccolo Amedeo cresce e diventa ragazzo dall’animo sensibile e creativo: quando è il momento di fare la prima scelta terminata l’età della spensierata adolescenza è indeciso tra la carriera musicale e quella militare. Ma la carriera militare presenta un vantaggio esclusivo, ai suoi occhi: permette di rimanere a contatto con i cavalli praticamente ventiquattr’ore al giorno. La sua passione. I cavalli, certo: elemento fondamentale e imprescindibile dall’inizio alla fine di una vita intera. Amedeo Guillet esce dall’Accademia Militare di Modena con il grado di sottotenente nel 1931. Il Monferrato e le Guide i primi due reggimenti di cavalleria in cui presta servizio, probabilmente con l’idea di dedicarsi (anche) allo sport equestre come molti suoi colleghi d’arma: non dimentichiamo che in questo momento storico, infatti, l’equitazione agonistica è quasi esclusivamente cosa di militari. Ma il destino decide diversamente: nel 1935 Amedeo Guillet viene trasferito in Africa, dove nel mese di ottobre comanda un plotone impegnato nelle prime operazioni della guerra colonialista d’Etiopia e in dicembre viene ferito gravemente a una mano. Ed è a partire da questo momento che la sua vita smette di essere simile a quella di tanti altri ufficiali dell’esercito italiano per diventare la storia di un romanzo. Nel 1937 Amedeo Guillet è in Spagna dove comanda un reparto di carri della divisione Fiamme Nere e poi un reparto di cavalleria marocchina durante la guerra civile spagnola; successivamente ritorna in Libia, quindi nuovamente in Eritrea dove prende il comando del Gruppo Bande Amhara, un’organizzazione militare che riunisce uomini di origine etiope, eritrea e yemenita. È qui che nasce il mito: nel 1939 durante un’operazione militare il suo cavallo viene colpito e ucciso e lui, illeso, ne monta immediatamente un altro per continuare la carica, ma anche questo secondo povero cavallo cade vittima del fuoco; Amedeo Guillet imbraccia allora una mitragliatrice e continua a piedi la battaglia senza alcuna protezione fino a conquistare il sopravvento sulle formazioni nemiche. I soldati indigeni che avevano combattuto con lui, sbalorditi per la sua apparente invincibilità, lo soprannominano Comandante Diavolo, ignari di consegnare così alla leggenda un ‘titolo’ che segnerà ormai per sempre la vita di questo personaggio straordinario. Quando gli inglesi conquistano Asmara nell’aprile del 1941, Amedeo Guillet prende una decisione folle: se anche l’Italia si fosse arresa, lui avrebbe continuato la ‘sua’ guerra. E così accade: Guillet si spoglia della divisa dell’esercito italiano, raduna una formazione di suoi fedelissimi soldati indigeni e inizia una guerriglia senza quartiere, efficace al punto che gli inglesi mettono sul suo capo una taglia enorme. Invano, però: nessuno lo tradisce in nome del denaro, a conferma di quanto questa sorta di Lawrence d’Arabia italiano fosse amato dalle popolazioni locali. Ma in ottobre dopo una continua ed estenuante serie di operazioni Guillet capisce che non avrebbe più potuto andare avanti ulteriormente: significativo il fatto che la decisione di porre termine alla guerriglia venga da lui presa dopo la cattura del suo cavallo grigio Sandor da parte del maggiore Max Harari, l’ufficiale inglese responsabile delle attività di ricerca del temibile Comandante Diavolo.

Amedeo Guillet dunque libera i suoi soldati e si nasconde a Massaua sotto la falsa identità di Ahmed Abdallah al Redai, cosa resa possibile anche dalla sua capacità di parlare perfettamente l’arabo. Da lì raggiunge lo Yemen, inizia a lavorare come palafreniere nelle scuderie della guardia del re, l’Imam Yahiah, il quale lo prende a benvolere fino a nominarlo precettore dei suoi figli nonché istruttore delle guardie a cavallo yemenite.
Nel giugno del 1943, dopo aver trascorso un anno intero alla corte dell’Imam Yahiah, Amedeo Guillet riesce a imbarcarsi su una nave della Croce Rossa italiana per infine rientrare in Italia dopo due mesi di navigazione. Grazie alla sua grande esperienza e alla sua conoscenza delle lingue, viene assegnato al Servizio Informazioni Militare per dedicarsi a operazioni molto delicate contro gli alleati angloamericani. Quando però l’8 settembre viene dichiarato l’armistizio, Amedeo Guillet ripudia Mussolini, rimane fedele al re d’Italia e si trasferisce a Brindisi dove si erano installati i componenti della famiglia reale. Amedeo Guillet diventa un agente segreto formidabile ed è proprio a lui che si deve un’operazione diplomaticamente di grande significato nel processo di riappacificazione tra Italia ed Etiopia: il recupero della corona del Negus, prima confiscata dalla Repubblica di Salò e poi nelle mani dei partigiani, e quindi riconsegnata al suo legittimo proprietario.

Finisce la guerra. Dopo il referendum che trasforma l’Italia da Stato monarchico in Stato repubblicano Amedeo Guillet – coerente con il suo giuramento militare di fedeltà alla corona Savoia – rassegna le dimissioni dall’esercito e diventa un cittadino italiano al servizio della Repubblica. Inizia così la sua seconda vita. Si laurea in Scienze Politiche, vince il concorso per entrare nella carriera diplomatica, nel 1950 è segretario di legazione all’ambasciata del Cairo, nel 1954 viene trasferito in Yemen dove ritrova i figli del vecchio Imam che lo accolgono come chi ritorna a casa dopo anni di lontananza, nel 1962 viene nominato ambasciatore e destinato ad Amman dove può condividere la grande passione per i cavalli e per l’equitazione con re Hussein di Giordania (padre della principessa Haya, che sarà presidentessa della Federazione Equestre Internazionale dal 2006 al 2014), nel 1967 è ambasciatore in Marocco, nel 1971 in India, per infine raggiungere il termine della carriera diplomatica nel 1975 e quindi stabilirsi in Irlanda in mezzo ai suoi amati cavalli.

Nel 2000 insieme allo scrittore irlandese Sebastian O’Kelly (autore della biografia di Guillet uscita nel 2002 con il titolo “Amedeo”), Guillet ritorna in Eritrea: viene ricevuto dal presidente della Repubblica che lo accoglie come un suo pari. Poi arriva il 2 novembre di questo stesso anno: il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, conferisce ad Amedeo Guillet l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia, uno dei più prestigiosi riconoscimenti previsti nel nostro Paese. Infine il 16 giugno 2010 il Comandante Diavolo ci lascia per sempre.

Questa per sommi capi e in estrema sintesi la vita di Amedeo Guillet. Ma tra le tante storie dentro questa straordinaria storia, ce n’è una che non può non emozionare chi vive per i cavalli e con i cavalli. La storia di un pacchetto che un giorno viene recapitato sulla scrivania dell’ambasciatore Amedeo Guillet. Una storia che sembra una favola, invece è la realtà di due persone che prima di essere soldati - e nemici - sono stati gentiluomini nell’animo. Loro: Max Harari e Amedeo Guillet. Proprio loro: il maggiore britannico e il Comandante Diavolo, cacciatore e preda a turno l’uno per l’altro sulla scena dell’Africa Orientale. Ebbene: negli anni Cinquanta, grazie anche all’attività diplomatica di Guillet, i due ‘vecchi’ nemici si incontrano, e tra loro nasce un’amicizia forte come solo l’aver condiviso quel pezzo di storia tremendo avrebbe potuto rendere possibile, seppure da acerrimi rivali. Un’amicizia vissuta nel nome di un cavallo: Sandor. Sì: perché è ovviamente Max Harari il mittente del pacchetto che un giorno viene recapitato sulla scrivania dell’ambasciatore Amedeo Guillet. Sulla scrivania del Comandante Diavolo.



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