imparare dale piccole cose e dai classici










Impariamo dalle pietre di Roma Nascondono la nostra storia e rappresentano anche la relazione indissolubile tra l’elemento naturale e la cultura umana
                                          di   Emanuele Coccia


La via Appia a Roma 


C'è qualcosa di strano e di magico nella traiettoria delle pietre a Roma. Come in nessun altro luogo al mondo, in questa città la memoria delle pietre sembra eguagliare quella delle montagne o delle valli: i palazzi, i templi i monumenti vivono così a lungo da avere la stessa età di un fossile e l'arte improvvisamente diventa geologia. È come se bastasse allungare la prospettiva temporale per accorgersi che quello che chiamiamo cultura è solo una degli infiniti modi attraverso cui la natura produce forme.
È come se a Roma fosse impossibile pensare che l'uomo sia qualcosa di diverso dalle forze che muovono le grandi placche tettoniche e che ridisegnano il volto del pianeta: è solo una loro versione locale e accelerata. C'è qualcosa di liberatorio in questa scoperta. La geologia contemporanea ha da qualche anno avanzato l'idea che l'eccesso di operazioni distruttive compiute dalla specie umana sul pianeta ne ha cambiato radicalmente il volto: non c'è più un solo centimetro quadrato della sua pelle che non sia direttamente il frutto della manipolazione umana o che non testimoni della presenza dell'uomo.
Si è chiamato Antropocene quest'epoca in cui guardando il pianeta si scorge solo e soprattutto una delle sue specie. A Roma è possibile fare un'esperienza simile e opposta: passeggiando tra le sue rovine si scopre che ciò che è in gioco in qualsiasi manufatto umano è qualcosa di planetario, che in ogni nostro minimo artefatto è sempre la Terra ad esprimersi e a prendere forma.
Nella scoperta che arte e natura sono non solo coetanee ma sorelle gemelle nate di una stessa madre, ne va qualcosa di più del solito piatto di lenticchie per la conquista della primogenitura. Perché, se il Colosseo è fatto della stessa sostanza dei sette colli e viceversa, allora la divinità o almeno la sacralità che siamo abituati a riconoscere alle nostre rovine passa da queste al suolo che occupano e da questo di nuovo a uno qualsiasi degli oggetti che fabbrichiamo.
Quello a cui è difficile resistere a Roma è la fede nella divinità delle pietre: la vaga intuizione che tutta la materia della Terra è qualcosa di divino, e che la sua divinità non dipende dal fatto di essere una montagna, una donna, un monumento ai caduti o un albero. È come se in questa città in cui mille religioni si sono incontrate si scoprisse che gli dei più importanti sono le pietre di cui è fatta. È forse a causa di questa strana prossimità magnetica con Roma e allo sguardo sul mondo umano che questa città impone a chi ci vive e la frequenta che il pensiero in Italia oggi sembra fortemente caratterizzato da una nuova vena naturalista, almeno osservato da chi, come me, in questo Paese non ci abita.
È come se un insieme di voci delle età più diverse (che quindi non sono l'espressione di una generazione in particolare, ma di un movimento più profondo), provenienti da discipline e pratiche molto distanti come possono esserlo la chimica dei materiali o l'architettura, la filosofia o l'arte si fossero date un appuntamento segreto per poter esprimere da punti di vista diversi una medesima idea: quella medesima intuizione che Roma incarna nelle sue pietre.
Non si tratta della versione locale e quasi folklorica della moda ecologista che sta attraversando tutto il pianeta. Non lo è per una ragione precisa: perché per queste voci la questione è meno quella dell'armonia dei viventi e delle loro comunità che quella della vita della materia, indifferentemente da tutte le opposizioni con cui possiamo provare a pensarla. In questa materia Laura Tripaldi, giovanissima studiosa di nanotecnologie all'università di Milano Bicocca, è sicura di riconoscere l'esistenza di una mente e non in senso metaforico. La materia non è mera estensione geometrica che si oppone a un io pensante, come avevano preteso Cartesio e quasi tutti gli occidentali con lui: è una forma di intelligenza, certo diversa dalla nostra, ma non per questo meno spirituale, meno complessa, meno libera. In un libro edito recentemente da Effequ (Menti parallele. Scoprire l'intelligenza dei materiali) Tripaldi chiede di spiegare cosa sia la materia a un ragno che secerne seta. In questo modo ottiene due grandi rivoluzioni.
In primo luogo, si capisce che l'intelligenza e la sopravvivenza del ragno è legata all'intelligenza della materia che usa - la seta appunto. In secondo luogo, la seta, una fibra proteica capace di adattarsi in maniera inedita in funzione dei contesti, dimostra che la materia ha un comportamento e dovrebbe per questo essere oggetto dell'etologia più che della chimica. La chiave per comprendere il comportamento della materia è la nozione di interfaccia.
Qualche anno fa, un libro di Branden Hookway aveva dimostrato che l'idea di interfaccia viene dalla meccanica dei fluidi e definisce la soglia in cui una materia è assieme soggetto e oggetto di sé: uno stato in cui la materia ha la stessa postura di un vivente autocosciente. Tripaldi sviluppa un'idea simile: la materia è intelligente quanto più diventa interfaccia nei confronti di se stessa e del resto del mondo perché, così facendo, aumenta la sua capacità di adattarsi al contesto e quindi la sua stessa libertà.
È solo pensando la materia come mente e madre che ci genera che riusciremo a capire la nostra stessa intelligenza: a partire da questa stessa tesi, Ingrid Paoletti, professore associato di tecnologia dell'architettura al Politecnico di Milano invita a un vero e proprio "attivismo materico". Nel manifesto Siate materialisti!, pubblicato da Einaudi, Paoletti articola le conseguenze politiche di questa nuova sensibilità: piuttosto che preoccuparsi di distinguere moralmente le buone e le cattive materie, sentirsi vicini o gemelli di qualsiasi materia significa ammettere che "non esistono demoni e santi tra le materie".
A chi pensa che la soluzione del problema ecologico sia l'economia delle materie e la separazione netta tra ciò che vive e ciò che non lo fa, Paoletti oppone la necessità di riconoscere "il continuum tra materiale e immateriale che si influenzano a vicenda", "l'omeostasi tra naturale e artificiale, tra corpo e spirito". L'equazione inedita del libro è quella che per immaginare una società più equa è necessario imparare a sentire che la materia "è viva nella sua microstruttura, viva quando è realizzata con materiali viventi, veramente viva quando la investiamo con la nostra intenzionalità". Ma si farebbe male a confondere questa svolta radicale del pensiero italiano, finalmente lontano dalle risacche della filosofia sociale a cui il Novecento l'aveva spiaggiato, con una forma banale di materialismo. Cercare di far coincidere l'intelligenza, la vita e persino lo psichismo con tutto quello che si trova davanti a noi e non dentro di noi è il sintomo di un atteggiamento che ha in filosofia un nome diverso: "panteismo".
Un libro di Emanuele Dattilo mostra che si tratta di qualcosa di molto più antico e diffuso di quanto si possa credere. Panteista, spiega Dattilo, è chi mette al centro della propria esperienza del mondo l'idea di materia non per negare lo spirito o l'anima, ma per ritrovare l'unità viva e dinamica del cosmo. Non si tratta più di opporre la materia alla coscienza ma di fare del pensiero, come aveva suggerito Poe, la materia che permea ogni cosa ed è in sé ogni cosa: e in nulla questa coincidenza si dà a conoscere in modo più trasparente che nel desiderio. Panteista è chi riconosce che il desiderio - "l'essenza della religione" secondo Feuerbach - è la materia di cui sono fatti gli dei: filosofo - letteralmente colui che conosce grazie al desiderio - è allora solo chi riesce a cogliere in ciascuna delle forme della materia uno degli infiniti nomi di Dio.
Questi tre libri sembrano rinnovare l'antica tradizione alchemica che faceva dello scopo del pensiero la sintesi della pietra capace di trasformarsi in tutte le materie del mondo. Le pietre di Roma, in fondo, ne sono un esempio perfetto. Abbiamo bisogno di una nuova età della pietra - o forse non ne siamo mai usciti. Siamo tutte e tutti Flintstones, e non è affatto una cattiva notizia.

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