perchè nei licei s'insegna la filosofia degli uomini e non delle donne ?

 leggo sul mensile   gratuito   io aqua   sapone  di  Ven 22 Ott 2021 | di Angela Iantosca | Interviste Esclusive questa  intervista  a Mariarosaria Taddeo (  FOTO  A  SINISTRA   PhD in Filosofia Teoretica e Pratica, Università degli Studi di Padova; Laurea Magistrale summa cum laude in Filosofia Università degli Studi di Bari) è Professore Associato e Senior Research Fellow presso l’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford. È anche Defense Science and Technology Fellow presso l’Alan Turing Institute di Londra. Il suo lavoro si concentra principalmente sull’analisi etica dell’intelligenza artificiale, dell’innovazione digitale, della sicurezza informatica e dei conflitti informatici. Ad ottobre ha partecipato all’undicesima edizione dell’Internet Festival  (  www.internetfestival.it  )  a Pisa per parlare di moral machine, festival che prosegue online fino a dicembre. 
Essa a otto anni si poneva domande su Dio e l’universo, su finito ed infinito e su chi genera cosa, provando a dare un senso ai suoi ‘perché’, grazie alle conversazioni con uno zio professore prima e a quelle con un professore di filosofia poi. Oggi Mariarosaria Taddeo è tra le prime 50 donne italiane che lavorano sui temi della tecnologia e della sua governance; è tra le 100 donne più influenti nella tecnologia del Regno Unito e tra le prime 100 donne che lavorano sull’etica dell’intelligenza artificiale nel mondo. Professoressa associata e ricercatrice senior 
presso l'Oxford Internet Institute, il suo lavoro si concentra principalmente sull’analisi etica dell’intelligenza artificiale, dell’innovazione digitale, della sicurezza informatica e dei conflitti informatici.
 Prima  dell'intervista  , chiedo perdono  ,   un ulteriore premessa  :   Poiché non sono nè un filosofo  accademico  nè  un laureato in filosofia la mia   risposta  è ovvia  e  scontata      perchè il sistema  scolastico  \  culturale è  un sistema   patriarcale  e maschilista    , lancio   con  il  titolo interrogativo   la domanda   a miei compagni  di viaggio \  di strada   laureati  ed  insegnanti  in filosofia  . 
Adesso godetevi  l'intervista  in questione  e  gli eventuali link  sotto riportati   per  chi  volesse   approfondire  tali  argomenti  



 
All’undicesima edizione dell’Internet Festival, organizzato a Pisa nel mese di ottobre, è intervenuta per parlare di moral machine: che cosa si intende?
«Questa espressione è un ossimoro, perché non esistono le macchine morali. Ma fa riferimento a qualcosa che sappiamo: tutte le tecnologie, dalla prima leva per sollevare il mondo all’intelligenza artificiale, hanno un impatto etico nella misura in cui aiutano a trasformare la nostra interazione con il mondo o il mondo stesso, quindi hanno delle ricadute sociali ed etiche. L’esempio che faccio spesso è quello della corrente elettrica: nel momento in cui si è creata l’infrastruttura elettrica si sono allungate le giornate lavorative delle persone, perché le ore al buio sono diventate produttive e questo ha trasformato l’interazione sociale, le opportunità e i problemi della società. La tecnologia, quindi, ha un impatto etico e sociale e noi vogliamo capirlo e indirizzarlo, cioè vogliamo fare in modo che la tecnologia sia utilizzata per rendere migliore la società. Questo nel senso più ampio. Nel senso più specifico, moral machine attiene all’ambito dell’intelligenza artificiale e a questo miraggio, che, se si fossero mai costruite queste macchine intelligenti così come noi umani siamo intelligenti - cosa che dico subito è fantascienza, non scienza -, allora questa macchine sarebbero dovute essere morali, comportandosi secondo i nostri valori e, se non lo fossero state, ci saremmo trovati in acque problematiche, perché, essendo macchine intelligenti e autosufficienti, avrebbero potuto sopraffare il genere umano». 
 
Ma non è questo il problema. 
«No. Quindi che cosa ci teniamo del moral machine? Il digitale è una tecnologia altamente trasformativa tanto delle nostre interazioni con l’ambiente, tanto dell’ambiente stesso, tanto della nostra comprensione dell’ambiente. Pensiamo al concetto di fisicità e realtà: fino a qualche tempo fa tangibile e reale coincidevano; ora possiamo dire che la conversazione che stiamo facendo su Skype è reale, ma non è fisica, come i file del prossimo articolo che scriverò non sono tangibili, ma sono molto reali. Si tratta, quindi, di una trasformazione concettuale che il digitale ha determinato. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale abbiamo capito che è una tecnologia, che anche se non ha a che vedere con l’intelligenza umana porta con sé grandi potenzialità e grandi rischi: progettarla e usarla in modo etico è una delle sfide principali del nostro tempo». 
 
Lei è laureata in Filosofia e si occupa di intelligenze artificiali: che collegamento c’è tra filosofia e tecnologia?
«La filosofia della tecnologia esiste da sempre. La tecnologia pone molte domande concettuali a cui la filosofia è chiamata a rispondere. In contesti anglosassoni e nelle scuole di filosofia analitica, filosofia e tecnologia sono un connubio frequente. Forse è un connubio meno frequente nella filosofia continentale, anche se filosofi come Heidegger o Foucault si sono posti questioni che hanno a che fare con la tecnologia. Inoltre, i filosofi da sempre si occupano del tempo in cui vivono: Platone, Aristotele, Kant si preoccupavano dei problemi del loro tempo. E nel nostro tempo al centro c’è la tecnologia, quindi è normale che i filosofi se ne occupino». 
 
Come usarla e non abusarne della tecnologia?
«Non sempre è possibile prevedere e quindi controllare gli effetti e gli usi indesiderati della tecnologia. Nel contesto del digitale è valso per anni il motto della Silicon Valley del fallisci spesso e in fretta per poi ricominciare, senza preoccuparti delle conseguenze, perché l’innovazione deve andare avanti. Questo è uno spirito pionieristico che non tanto collima con le società di oggi. Nella scorsa decade è diventato sempre più chiaro che l’innovazione tecnologica ha bisogno di governance e di strategie che allineino l’innovazione con i valori delle nostre società. È per questo che mi piace molto la strategia europea della Twin Transitions – che lega l’innovazione digitale alla sostenibilità -. Definire governance e strategie non è semplice, la cosa richiede di considerare interessi diversi e equilibri precari e bisogna indirizzare l’innovazione senza rallentarla troppo, favorirne il potenziale buono e nello stesso tempo costruire delle condizioni, identificare e mitigare i rischi. A volte in tutto questo la chiarezza concettuale di analisi filosofiche può offrire un aiuto importante». 
 
Donne e tecnologia, un tema che spaventa più di qualcuno. Quanto siamo indietro nel nostro Paese e all’estero?
«Io sono sempre un po’ in dubbio: non so quanto sia una questione di Paese o personale. C’è sempre, anche nel Paese più evoluto, qualcuno che pensa che sia strano che una donna scriva poesia o costruisca ponti. In Italia - ma non solo - abbiamo un retaggio sia culturale sia formativo. Faccio parte di quella generazione in cui le studentesse di Fisica o Informatica si contavano su una mano, mentre a Lettere, Filosofia o Psicologia la proporzione era quasi inversa. Mi sono sempre chiesta quanto di queste proporzioni fosse il risultato di un retaggio culturale e sociale, un retaggio che abbiamo pagato e continuiamo a pagare in termini di skills. Forse la differenza con gli altri Paesi è che all’estero il problema è riconosciuto in maniera più evidente e vengono prese misure che tendono a limitarlo. Confesso una duplice ambizione: da un lato immagino e lavoro nel mio piccolo per una società in cui la diversità sia riconosciuta come un valore e un assett, dall’altro lato per quello che attiene alla vita professionale, vorrei smettere di pensare in termini di uomini e donne e pensare in termini di persone competenti o non competenti. E immagino una società in cui le opportunità per acquisire competenze siano alla portata di tutti. Ma so che queste ambizioni richiedono molto lavoro». 
 
Lei è nata e cresciuta in Italia, dove si è anche laureata e poi è emigrata, dunque è un cervello in fuga: quando ha deciso di cercare altrove nuove opportunità? 
«Sono andata via la prima volta a 22 anni, ho fatto un Erasmus a Berlino, che ha cambiato la mia prospettiva. A Berlino, per la prima volta, mi sono sentita Europea e non solo Italiana e mi sono ritrovata al centro di mondo che transitava verso il digitale. Quando sono partita per la Germania, vedevo l’Erasmus come una pausa non una fuga; quando sono rientrata ho capito che era stato uno spartiacque.  
Sono successe in un secondo momento delle cose che hanno definito la mia scelta di studiare all’estero. Io ho fatto un dottorato in Italia (a Padova), quindi non posso dire che non ci siano state date opportunità: certo, trovare quelle opportunità è stato tremendamente difficile. La scelta, poi, di cercare contatti ad Oxford è stata molto più consapevole ed ha avuto a che fare anzitutto con la determinazione di voler lavorare su temi di tecnologia, filosofia e etica. Quando ho iniziato ad occuparmi di questi argomenti, Oxford era uno dei pochi posti in Europa in cui si parlava di filosofia della tecnologia ed etica della tecnologia. C’era già un gruppo che se ne occupava, colleghi che avevano gruppi di ricerca. Inoltre, noi filosofi seguiamo delle scuole ed io seguivo più la scuola analitica che quella continentale, quindi è stato ulteriormente ovvio orientarmi su Oxford».
 
Lei lavora anche con la Nato: qual è il suo ruolo?
«Faccio parte di un gruppo di studiosi composto da esperti di tecnologie e militari creato per capire come le tecnologie del digitale possono essere usate a supporto della sicurezza e anche del benessere delle persone che sono impiegate in un campo di battaglia. Poi collaboro da tempo in diversi contesti per quanto riguarda l’analisi dell’impatto etico dell’uso del digitale per la difesa nazionale, come per esempio la definizione dei principi etici per l’uso di intelligenza artificiale nei conflitti cibernetici. La Nato ha un ruolo importantissimo nella spinta verso la definizione di come gli Stati si comportano in certi contesti, in questo caso quello cibernetico. Non definisce leggi, ma si determinano delle prassi, a volte anche non scritte, ma che sono poi rispettate dagli Stati Membri e dagli alleati. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, soprattutto nell’ambito dei conflitti cibernetici, non abbiamo una regolamentazione delle State practices e quindi guardare un po’ a ciò che la Nato dice e fa o poter contribuire alle discussioni su cosa sia giusto fare è un grande opportunità per guidare l’uso dell’intelligenza artificiale, che nel contesto della difesa nazionale ha un enorme potenziale, ma pone anche seri rischi per la stabilità internazionale e i diritti dei cittadini».
 
Quando ha scoperto questa passione?
«Dico sempre che ci sono nata. è un’attitudine. Sin da piccola mi facevo domande un po' strane sulla natura delle cose … Eh sì, avevo di questi problemi (Ride – ndr) di cui riuscivo a discutere solo con uno zio che è stato un professore di filosofia in un liceo napoletano. Negli anni poi le risposte a quelle domande sono venute dai libri di filosofia. Quando poi ho scoperto la logica, che mi ha insegnato a mettere in ordine i pensieri, ho capito che non c’era altra strada».
 
A delle giovani ragazze che si affacciano a questo mondo che consigli darebbe? 
«C’è una cosa che è importantissima, che è forse la più importante che mi hanno insegnato: bisogna buttare il cuore oltre l’ostacolo. Finché si rimane nella confort zone, il salto non è mai abbastanza alto. E questo vale per tutto. Vale sempre. Per me è stato utile capire questa cosa, perché con il cuore oltre l’ostacolo è difficile distrarsi o lasciarsi intimorire. Per le ragazze che vorrebbero fare le filosofe il cuore oltre l’ostacolo vale doppio. In Italia siamo abituati a pensare alla filosofia come alla storia della filosofia e leggiamo questi libri bellissimi, ma difficilissimi, che sono un deterrente per i più. Ma la filosofia, prima di essere storia della filosofia, è ragionamento sul mondo. Quindi i filosofi osano, hanno l’ambizione (e quindi l’entusiasmo, l’impegno e la disciplina) di contribuire a capire e cambiare il mondo (anche solo un po’) con la forza delle proprie idee».  
 
Se potesse intervenire nei programmi delle scuole, quale strategia adotterebbe?
«La copierei al mio professore di filosofia del Liceo: smettete di leggere i manuali e leggete i testi. Il manuale è una sintesi, che rischia spesso di rendere le analisi filosofiche tediose. Il testo, invece, anche se scritto in modo un po’ complesso, rivela molto di più dell’autore, delle sue teorie, del momento in cui sono state definite. Poi, inserirei l’insegnamento di tanta logica. La logica sta alla filosofia come la matematica all’ingegneria: non si costruisce un’analisi, un argomento stringente senza la logica, non si costruisce un palazzo che regga senza fare calcoli precisi… A parte il suo ruolo per la filosofia, la logica è un’alleata dei ragionamenti che noi tutti facciamo nel quotidiano, quindi studiarla non può che essere un valore».   

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