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« Sono cresciuta in due Italie. La prima è l’Italia di mio padre, un uomo bianco bergamasco la cui presenza era garanzia di privilegio, appartenenza e riguardo. Scortata da lui ricevevo i saluti della gente in dialetto, regali, sorrisi. Al suo fianco ero automaticamente parte del club “noter”, un’italiana a tutti gli effetti. Papà era letteralmente il mio passaporto.
La seconda è l’Italia di mia madre, una donna nera “immigrata” e con disabilità. La sua presenza era portatrice di razzismo, emarginazione, segregazione. Accompagnata da lei, la gente ci insultava, polizia e vigili ci fermavamo regolarmente per controllare i documenti, la gente posava le borse sui sedili vuoti del pullman (anche di fronte alla stampella di mia madre). Al suo fianco ero l’”extracomunitaria”, la straniera - anche se parlavo un italiano perfetto e masticavi il dialetto, anche se ero nata e cresciuta in Italia”.
Credo non mi serve aggiungere altro per farvi venire la voglia di leggere questa donna che ha messo nera su bianco quello che noi genitori chiamati stranieri viviamo con i nostri figli. Nel mio caso posso aggiungere che quando sono in compagnia di mio marito e quando sono sola in giro per qualche città, il trattamento è diverso. Quando sono con mia figlia da sola in viaggio e quando siamo in tre é anche diverso. La gente è indifferente solo dove siamo conosciute. Al di fuori di dove viviamo, siamo trattate da stranieri, extracomunitari con poca importanza. Si parla di queste cose perché speriamo che qualcosa possa cambiare perché i nostri figli sono italiani e non devono soffrire perché crescendo si sentono esclusi dai loro propri connazionali. Molti vanno in depressione. Non è giusto.
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