16.4.18

Elisabetta e Mahmoud: l’amore oltre le bombe


  nuova  sardegna  del  15 aprile 2018

Lei di Porto Torres, lui siriano: l’incontro a Damasco, poi la fuga in Turchia
                     di Manolo Cattari


Elisabetta e Mamhoud insieme a Damasco, dove si sono conosciuti

«Chi piange sono sempre le persone comuni... sembra che stiano giocando a Risiko con le vite umane». Così Elisabetta e Mahmoud da Porto Torres, a 2500 km di distanza, vivono la tragedia che si sta consumando nelle loro terra. La Siria. La loro è una storia iniziata in un tempo lontano e in uno spazio che ormai non c’è più. Quando nel marzo del 2011 Moaawya Lssyasn, di 13 anni, scrive su un muro a Daraa in Siria “Il popolo vuole la caduta del regime”, nei paesi vicini la Primavera Araba ha già rovesciato diversi governi. Moaawya probabilmente non immagina che con quella scritta darà il via ad una serie di eventi, che porteranno ad una guerra civile che molti definiranno come il “tragico fallimento dell’umanità”.
Quando Moaawya scrive sul muro, Elisabetta vive a Damasco. Ha lasciato Porto Torres e la facoltà di lingue per imparare l’arabo. «Il prof mi aveva avvisato che il Medioriente è un posto un po’ instabile, ma io ho pensato: ma cosa vuoi che succeda?!». D’altronde che ne può sapere della guerra una ventenne sarda? «Adesso so che non bisogna dare per scontata la nostra pace». Quando Moaawya scrive sul muro, Mahmoud lavora come commerciante; era semplice lavorare in Siria prima del 2011. Ha 26 anni, quando oggi gli chiedono l’età, deve pensarci per non sbagliare: gli otto anni a seguire è come se non fossero trascorsi, in realtà sono stati una fuga e uno spostamento continuo fino ad arrivare a Porto Torres.

La coppia ha un figlio di tre anni


Elisabetta e Mahmoud. Erano fidanzati da un paio di mesi. Lei aveva 22 anni e voleva restare lì per imparare la lingua, amava Damasco. Nell’estate di quell’anno, ritorna in Sardegna per qualche settimana, su richiesta dei genitori preoccupati. Al rientro in Siria, Damasco si era svuotata, gli stranieri erano andati tutti via. Entrambi si raccontano piano e lentamente, consapevoli del peso emotivo che hanno le parole su di loro e su chi li ascolta. Per questo le scelgono con cura: «C’era tensione, si sentiva tanta paura e non si vedevano che uomini armati in giro. Quando chiedevo ai miei professori informazioni sulla situazione di tensione, mi rispondevano che non stava succedendo niente. Banalizzavano e mi dicevano di non credere a ciò che raccontano i TG internazionali. Erano tutti pro il regime di Assad, e chi si azzardava ad andare contro poteva essere fatto fuori dai servizi segreti».
Fuga in Turchia. Ma le cose cambiano rapidamente: il prezzo dei beni di prima necessità, come pane e acqua, schizza alle stelle e le ambasciate invitano a non uscire di venerdì, perché è giorno di preghiera e la popolazione si raduna nelle moschee, diventando luoghi sensibili per rivolte. «Non potevamo avvicinarci a questi luoghi né girare per il paese. Nel corso dei mesi successivi le ambasciate in Siria hanno cominciato a chiudere e quella italiana è stata quasi l’ultima a cessare la sua attività. Io sono partita dalla Siria poco prima che chiudesse» ricorda Elisabetta.
La coppia riesce a scappare in Turchia nel 2012, dove si sposa. A Istanbul aprono un negozio d’abbigliamento e soffrono la discriminazione contro il popolo siriano: «Non ci volevano. Una volta su un taxi l’autista si è girato verso di noi e ci ha detto di tornarcene a Damasco che non eravamo graditi. In alcuni posti neanche rispondevano al saluto e ci incolpavano di rubargli il lavoro». Non tutta la famiglia di Mahmoud se l’è cavata nello stesso modo.
L’Esercito Libero Siriano ha occupato la casa della sorella mentre lei, marito e due figli erano fuori. Non vi faranno più ritorno. Vivranno in una stanzetta insieme ad altre persone fino a quando Elisabetta e Mahmoud non riusciranno a farli scappare in Turchia. «Al loro arrivo a Istanbul i nipotini, 3 e 4 anni, sembravano zombie. Erano sensibili al più piccolo rumore e quando vedevano aerei si nascondevano terrorizzati». In Siria i bambini disegnano gli elefanti nel cielo, non perché credono che volino, ma perché i suoni delle bombe sembrano barriti di elefante. Da questa esperienza Elisabetta si dice trasformata: «Si riscoprono i veri valori della vita. Vedi alcune cose che sono così superficiali, che possono sembrare indispensabili. Invece quando vedi le persone che lottano per vivere ti dici… A cosa mi serve questo?».
Il dramma dei bambini. Per quella scritta Moaawya Lssyasn verrà torturato e suo padre, che tenterà di difenderlo, arrestato e ucciso. L’incipit del conflitto siriano racchiude la tragedia che avverrà: i bambini prime vittime. A noi arrivano le immagini di bambini morti o dentro valigie. Quando si colpiscono i bambini si uccide la speranza. La storia di Elisabetta e Mahmoud è una storia d’amore, che vince sull’odio e sulla disperazione: tre anni fa dalla loro relazione nasce un bambino. È sardo, siriano e incarna un messaggio di speranza: dalla follia della guerra solo i bambini ci possono salvare. Perché è vero quanto dice Ibu Robin Lim che “La pace si costruisce un bambino alla volta”

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