Il mio 8 marzo sono storie come questa di Annalisa Malara, 38 anni, anestesista di Cremona, è il medico dell'ospedale di Codogno che ha cambiato la vita di tutti con un'idea folle: intuire che Mattia era stato attaccato dal coronavirus.
il medico anestesista che, a Codogno, ha capito per prima il focolaio italiano della malattia, individuando il coronavirus nel paziente 1 italiano che era stato ricoverato all’ospedale di Codogno con una polmonite leggera ma resistente alle terapie. In poche ore lui si è trasformato nel paziente 1 in Italia e lei ha scoperto di essere il medico che ha individuato il focolaio italiano. Grazie alla sua 'pazzia clinica', il nostro Paese e il resto del continente hanno avuto il tempo per tentare di rallentare ( ? ) l'epidemia. Per gli straordinari medici anonimi dei piccoli ospedali di provincia, la storia di Annalisa e di Mattia è una rivincita insperata: un grande riscatto.
Infatti
storie come la sua e delle scienziate che hanno isolato il coronavirus ed altre donne che lontano dai media maistream ( vedere mio post precedente ) o che vi appaiono per breve periodo per poi essere dimenticate e ritornare a quelle tette e culi dovrebbero essere la normalità in un paese dove l'8 marzo
la prima pagina di libero |
dal settimanale oggi pag.40 n 10 del 12\3\2020 |
Infatti oltre a regalare mimose ed fiori
la seconda
Dopo questa divagazione sfogo ritorniamo alla storia che voglio raccontarvi
Annalisa Malara intervistata su Repubblica del 6\3\2020 , ha dichiarato di aver riflettuto molto sulla situazione del suo coetaneo, che non rispondeva a farmaci e cure.
« Quando un malato non risponde alle cure normali, all'università mi hanno insegnato a non ignorare l'ipotesi peggiore. Mattia si è presentato con una polmonite leggera, ma resistente ad ogni terapia nota. Ho pensato che anch'io, per aiutarlo, dovevo cercare qualcosa di impossibile. Mi sono trovata al posto giusto nel momento giusto, o forse in quello sbagliato nel momento sbagliato ».
Perché ha intuito che la verità si nascondeva nell'assurdo?
"Per la prima volta farmaci e cure risultavano inefficaci su una polmonite apparentemente banale. Il mio dovere era guarire quel malato. Per esclusione ho concluso che se il noto falliva, non mi restava che entrare nell'ignoto. Il coronavirus si era nascosto proprio qui".
Vuole spiegare dall'inizio l'attimo che sta cambiando il destino collettivo?
"Mattia dal 14 febbraio aveva la solita influenza, che però non passava. Il 18 è venuto in pronto soccorso a Codogno e le lastre hanno evidenziato una leggera polmonite. Il profilo non autorizzava un ricovero coatto e lui ha preferito tornare a casa. Questione di poche ore: il 19 notte è rientrato e quella polmonite era già gravissima".
Lei non è un'infettivologa: perché il caso è stato affidato a lei?
"Il paziente e tutti noi siamo stati salvati da rapidità e gravità dell'attacco virale. Dalla medicina è arrivato in rianimazione. Quello che vedevo era impossibile. Questo è il passo falso che ha tradito il coronavirus. Giovedì 20, a metà mattina, ho pensato che a quel punto l'impossibile non poteva più essere escluso".
Cosa ha fatto?
"Ho chiesto un'altra volta alla moglie se Mattia avesse avuto rapporti riconducibili alla Cina. Le è venuta in mente la cena con un collega, quello poi risultato negativo".
Il tampone è stato immediato?
"Ho dovuto chiedere l'autorizzazione all'azienda sanitaria. I protocolli italiani non lo giustificavano. Mi è stato detto che se lo ritenevo necessario e me ne assumevo la responsabilità, potevo farlo".
Vuole dire che il paziente 1 è stato scoperto perché lei ha forzato le regole?
"Dico che verso le 12.30 del 20 gennaio i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva. L'obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane".
Cosa è successo dopo che l'ha scovato?
"Il tampone di Mattia è partito per l'ospedale Sacco di Milano prima delle 13 di giovedì. La telefonata che confermava il Covid-19 mi è arrivata poco dopo le 20.30. Nel frattempo io e i tre infermieri del reparto abbiamo indossato le protezioni suggerite per il coronavirus. Questo eccesso di prudenza ci ha salvato".
Perché?
"Nessuno di noi è stato contagiato. Siamo usciti oggi (ieri, ndr) dalla quarantena: chiusi in ospedale abbiamo continuato a curare i malati anche in queste due settimane".
Pensa di aver salvato la vita del paziente 1 e di altri infettati in Italia?
"Nessuno può dirlo. Avevo davanti un ragazzo giovane e sano. Il quadro suggeriva una polmonite virale, non batterica. I primi trattamenti, in rianimazione, sarebbero stati gli stessi praticati poi per il Covid-19. Solo dopo il trasferimento al San Matteo di Pavia si è potuto sottoporlo ad una terapia sperimentale".
Cosa insegna questa incredibile storia di coraggio scientifico?
"Che la fortuna, se insisti, ti aiuta. Se una persona sta male, una causa c'è. Se le cure note non funzionano, devi tentare quelle che non conosci. Il Covid-19 non aveva messo in conto che l'essere umano, pur di sopravvivere, non si rassegna".
Crede di avere un merito particolare?
"No. Però spero di aver contribuito a dare tempo a colleghi e istituzioni, in Italia e in Europa. Abbiamo guadagnato giorni preziosi per il contrasto all'epidemia. Se anche i cittadini li usano bene, rispettando indicazioni e misure di prevenzione, molti potranno guarire e altri eviteranno il contagio".
Le pare che questo stia accadendo?
"Io sono solo un medico. La responsabilità delle grandi scelte spetta alla politica: che però, in circostanze eccezionali, coincide con l'etica".
con questo è tutto
con questo è tutto
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