Le tesi sostenute dal documentario : « non rappresentano una novità nel campo delle cosiddette “teorie alternative” alla “verità ufficiale” sul caso Xylella fastidiosa. Il nucleo di fondo è rappresentato dalla messa in dubbio dei dati scientifici emersi nel corso degli anni attraverso l’attività dei ricercatori che studiano l’epidemia. Secondo gli autori, il disseccamento rapido dell’olivo non sarebbe dovuto principalmente a Xylella fastidiosa, che sarebbe presente solo in una minoranza sparuta delle piante coinvolte. L’epidemia viene indicata con la denominazione, caduta in disuso in ambito scientifico, di CoDiRO (Complesso del disseccamento rapido dell’olivo), che la fa apparire come un problema multifattoriale. La principale causa viene individuata nella gestione dell’agricoltura moderna, che avrebbe impoverito i terreni e messo in pericolo la salute delle persone e la sopravvivenza degli oliveti monumentali, attraverso l’uso massiccio di agrofarmaci potenzialmente molto pericolosi. All’origine di tutto ci sarebbe un torbido intreccio di interessi con motivazioni sostanzialmente economiche, che troverebbe un avallo nelle affermazioni degli scienziati, presentate come poco fondate. [... continua qui sul sito ] »
Infatti , mentre ancora si potrà discutere ed indagare sulla diffusione e su modo di contagio della malattia da Xyiella , grazie alle vecchie tecniche e a quelle cosiddette alternative alle cure industriali , si sta come dice questo articolo a contenerne la diffusione
Francesco D’Urso coltiva olivi in Salento. A Grottaglie, in provincia di
Taranto, porta avanti un’azienda agricola oramai secolare: «È da cinque
generazioni che facciamo questo mestiere. Abbiamo 250 ettari di
terreni, 40 mila alberi», racconta. Di una cosa è convinto: «La pianta è
come una persona, se sta bene produce di più e meglio». Per questo
motivo ha deciso di proteggere le sue piante dal rischio che vengano
contagiate da Xylella, il batterio killer degli olivi salentini che
imperversa dal 2013. In che modo? Utilizzando un concime fogliare a base
di zinco, rame e acido citrico, consentito in agricoltura biologica, e
curando il terreno e la pianta, ricorrendo ad arature dolci e regolari e
potature frequenti. Il protocollo, suggerito dal ricercatore Marco
Scortichini del Centro di Ricerca per l’Olivicoltura, Frutticoltura e
Agrumicoltura (CREA) di Roma, sta dando risultati promettenti: «Io lo
faccio da tre anni: l’azienda accanto alla mia sta tagliando le piante,
le mie rendono bene», racconta D’Urso.
L’olivicoltore di Grottaglie non è solo: in totale sono circa trenta i produttori che, tra le province di Lecce, Taranto e Brindisi (per un totale di circa 400 ettari), si sono opposti all’abbattimento degli olivi, la soluzione decisa dall’Unione europea per bloccare l’epidemia di Xylella fastidiosa. Chiamiamoli pure produttori resilienti: pur consapevoli che finora per non è stata trovata cura al batterio, hanno intrapreso una strada diversa dal taglio: «In questo momento, ciò che si può fare è cercare di far convivere nel modo migliore la pianta e l’ospite indesiderato», spiega Francesco Sottile, agronomo dell’Università di Palermo.
Di metodo non ce n’è uno soltanto, ma tutti condividono la cura di
terreno e pianta secondo l’approccio agroecologico, cercando di rendere
dura la vita all’insetto che trasmette Xylella, la cicalina sputacchina.
Francesco De Giuseppe, che con il padre gestisce un’azienda a Otranto,
nel leccese, sta testando diverse tecniche. «Abbiamo circa mille piante,
divise su diversi appezzamenti, per un totale di una decina di ettari»,
spiega. In alcuni campi ha adottato un protocollo a base di
biostimolanti, in altri sta usando lo stesso concime fogliare di D’Urso,
mentre in altri ancora cerca di lavorare «solo a livello organico,
senza irrorare alcuna sostanza ed effettuando solo una buona potatura».
Un mix di tecniche, iniziate un anno e mezzo fa, tutte finalizzate a
raggiungere lo stesso obiettivo, cioè arginare il disseccamento degli
olivi. Gli effetti, assicura De Giuseppe, ci sono: «Tra le campagne dove
abbiamo applicato le tecniche e i terreni dove non abbiamo fatto niente
la differenza si vede. I disseccamenti, in ogni caso, non si bloccano
all’improvviso, ma rallentano».
Niente miracoli, insomma, ma ottimi segnali. Molti produttori hanno
infatti ricominciato a raccogliere le olive e a portarle in frantoio,
con una resa che oscilla tra i 40 e i 60 quintali a ettaro. Olio buono,
di qualità: se fino a una ventina di anni fa dal Salento proveniva
soprattutto il lampante, l’olio d’oliva di minor qualità, grazie al
lavoro di squadra la produzione è andata affinandosi. Lo testimonia il
fatto che, anche nell’edizione di quest’anno delle Guide agli
extravergini (in uscita nelle prossime settimane e dove vengono
recensiti i migliori oli d’Italia), ci sono sei aziende del leccese, in
piena zona rossa da emergenza Xylella. Ostinazione verso un cambio di
mentalità che sta dando risultati interessanti anche dal punto di vista
del riconoscimento economico dell’olio che può affrontare a testa alta
un mercato di qualità. Dal tacco d’Italia, insomma, arriva una speranza,
al punto che da questa esperienza potrebbe nascere una Comunità Slow
Food di olivicoltori resilienti che producono un olio extravergine.
Un modo per stare al fianco dei produttori che si sono rimboccati le
maniche. Un impegno che ha consentito anche di salvare piante secolari e
assicurare la biodiversità dell’area, minacciata dal taglio
indiscriminato. È anche dalla caparbietà dei produttori che, in futuro,
potranno nascere nuovi metodi per combattere il batterio killer: «Magari
tra un anno o due troveremo un trattamento ancora più efficace.
L’importante è sottolineare la volontà di resistere degli agricoltori
che hanno smentito chi, nel 2013, non vedeva altra soluzione oltre al
taglio delle piante», chiarisce Gianluigi Cesari, ricercatore
dell’Istituto Agronomico Mediterraneo, in passato membro della Task
Force della Regione Puglia su Xylella.
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