a volte anche la banalità può essere preziosa nella lotta all'ignoranza e all'alfabetismo di ritorno ed serve ad affrointare il mondo digitale


Elogio e predicazione della banalità: come affrontare l’epoca digitale

Salvatore Patriarca - su ilriformista di giovedì 3 novembre 2022


Un tratto tipico dei sistemi complessi è che ogni elemento facente parte di tale complessità necessita di comprensione. La cultura e la società rientrano ovviamente in questa sorta di meccanismo metariflessivo. Anzi, in un momento nel quale la complessizzazione diviene il segno distintivo dell’epoca digitale, sembra non ci sia fenomeno che possa considerarsi estraneo alla complessità. E infatti tutto appare essere incluso in questo processo di continua metabolizzazione delle manifestazioni naturali e culturali, reali e simboliche, tecnologiche e virtuali. Almeno finché non si arriva davanti alla barriera che annulla ogni interesse significativo: la predicazione del banale.

SalvatorePatriarca_foto© Fornito da Il Riformista

«È una cosa banale» si dice in ambito oggettivo, oppure «È banale» se il riferimento è situazionale. Ma anche «Sei banale», se l’ambito è quello relazionale, e si potrebbe addirittura sfociare nell’auto-attribuzione di insignificanza: «Sono banale». Al di là delle infinite articolazioni che incontra la predicazione di quest’aggettivo, l’elemento che appare in prima istanza è l’assoluta comprensibilità di esso. Di fronte alla banalità non servono ulteriori commenti: è tutto lì. Qualcosa di autoevidente che non richiede ulteriore sforzo. Si potrebbe affermare, prendendo a prestito un’immagine fumettistica, che la banalità sia la kryptonite della complessità. E come accade a Superman che perde i propri poteri a contatto con il materiale proveniente dal suo pianeta d’origine, così avviene al complesso quando incontra il banale. Smette di essere loquace, non ha più bisogno di declinare se stesso. La comparazione con la kryptonite potrebbe essere svolta ulteriormente, perché anche la banalità rappresenta in qualche modo il passato della complessità. Una specie di complicatezza che ormai ha detto tutto e sulla quale diventa inutile soffermarsi ulteriormente.

E se invece, come la kryptonite che permette di comprendere numerosi aspetti della natura di Superman, il banale fosse uno strumento sinora poco utilizzato per entrare nelle dinamiche che caratterizzano l’attualità digitale e coglierne alcune implicite dinamiche operative, soprattutto rispetto alla costituzione della singolare identità del sé e al conseguente rapporto con la comunità? In altre parole, è forse giunto il tempo di prendere sul serio il banale. Circoscrivere una seppur parziale semantica del banale è un’operazione essenziale, perché permette di cogliere quanto pervasiva sia la presenza del banale nel quotidiano orizzonte di considerazione del vivere; e in tale orizzonte va incluso tanto quello del sé quanto quello comunitario della pluralità dei sé. Emerge da subito uno degli aspetti più particolari e decisivi della banalità o, meglio, della sua predicazione: una componente assiologica e morale. Essere banale, comportarsi banalmente, essere considerati tali sono tutte connotazioni che scivolano via via verso una componente valoriale di negatività. Il banale è una negatività in senso generale. La persona banale è invece una persona che è manchevole in senso specifico, a livello morale, come se non avesse la capacità di realizzare davvero se stessa e il compito che inerisce la propria natura.

Proprio questo squarcio verso la dimensione morale che coinvolge in maniera essenziale il tema della singolarità proietta lo sviluppo della riflessione verso una peculiare relazione che sembra caratterizzare la stessa fondazione dell’identità del sé nella contrapposizione all’essere banale. Si sviluppa un approfondimento che articola il banale e alcuni suoi contraria come la creatività, la novità e la distinzione. Rimane alla fine. come superstite significativa, una singolarità connotata in maniera autoaffermativa che riesce ad essere se stessa solo nella negazione dell’esistente e dell’altro da sé. Questa dinamica si realizza nei fenomeni ormai molto diffusi delle pratiche meditative/comportamentali a sostegno della specificità/differenzialità della singolarità, quanto nel ritorno di un primato della cura del corpo inteso come primaria forma d’espressione dell’eccezionalità del sé. Entrambe queste modalità affermative dimostrano una specifica inclinazione verso una componente metaforica improntata a un linguaggio performativo e a una retorica dell’azione come dell’atto differenziante.

La figura che ne risulta possiede i tratti di quella che potrebbe definirsi come una banalità consumata. È come se il reale, lo spazio comune che eccede la sfera del sé, venga progressivamente eroso dalla dinamica distintiva e venga condannato ad essere il serbatoio di ordinarietà da logorare attraverso il continuo movimento di separazione singolare. A questo primo movimento della banalità che si connota in maniera sottrattiva se ne contrappone un secondo di segno contrario, vale a dire accumulativo. Per cogliere questo processo bisogna rivolgersi ad alcune caratteristiche precipue dell’era digitale. Il primo elemento da prendere in considerazione è l’approccio modulare dell’informatica. Alla base di tutto c’è un dato, singolo, specifico, delimitabile, analizzabile, componibile; esso viene accumulato attraverso le reiterazioni d’uso, il replicarsi del calcolo connettivo, e si sviluppa verso modelli sempre più estesi, inclusivi e predittivi.

A fornire questa elaborazione è proprio la molteplicità dei sé che con l’espressività e la distinzione permettono la definizione di modelli comportamentali ed esperienziali. Si definisce così l’altra dimensione della banalità: l’attitudine accumulativa del digitale. Ogni singolarità diventa strumento di costruzione di un modello generalizzante. La libertà dalla banalità ricercata attraverso la differenziazione espressiva conduce verso un’ulteriore forma di banalizzazione che si nutre dell’accumulazione dei dati e della loro elaborazione. Tanto più il sé consuma il banale esistente, tanto più contribuisce a costruire l’accumulo di banalità del digitale; ogni novità nel mondo digitale è già sempre modello; ogni posizione di creatività già sempre in una diffusiva ordinarietà banale.

C’è inoltre una banalità necessaria che va accettata e trasformata utilmente. L’espressionismo del sé frantuma la comunità e isola la stessa singolarità. Bisogna recuperare gli echi dell’appartenenza comunitaria, e non solamente consumarli in un affannoso movimento distintivo. L’orizzonte comunitario è lo spazio che permette al sé e all’altro da sé di essere nella distinzione proprio perché garantisce l’ordinarietà condivisa. Lo spazio comunitario rappresenta la precondizione per ogni sé sia a livello identificativo sia a livello espressivo. La stessa dinamica di evoluzione della dimensione culturale umana si fonda infatti sui processi di condivisione delle esperienze, sulla sedimentazione di quelle più efficaci, sul contributo di ampliamento che ogni singolo apporta nel processo di evoluzione. Da qui passano l’elogio e l’accettazione necessari della banalità: riscoprire la dimensione partecipativa della costruzione di senso, evitando ogni tentazione totalizzante

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