Leone, la piuma del Ghetto. Il figlio Romolo e l'infanzia negata: "Sempre in fuga, ma riuscì a salvarmi"

La giornata del 27 gennaio       si potrebbe riassumere la  battuta  che  trovate  sotto  ma   ho preferito 
 raccogliere    nel  post  d'oggi  la  storia    di   leone  efrati (  foto   a  sinistra  )  un pugile italiano,  che  troviamo   tra le vittime ebree romane dell'Olocausto.con questa  battuta  

Ma     ci sono    storie  bellissime    da  raccontare  su  tale  periodo appunto      come   quella  di  cui  parlavo  prima  

 repubblica    online  
La storia di Efrati, il pugile che arrivò in cima al mondo prima di morire in un campo di concentramento raccontata in un libro. Il figlio ricorda quegli anni terribili, come sopravvisse e come fece condannare le due persone che lo fecero arrestare col padre
                   di  Luigi Panella


"Avevo sette anni ma è come se ne avessi avuti 15. Sempre in fuga, da un portone all'altro a cercare un posto dove dormire. Una volta bastò un minuto di distrazione e ci rubarono persino le coperte". Romolo Efrati ora di anni ne ha 85, ha cinque figli e una vita felice che però non ha conosciuto l'infanzia. Il padre si chiamava Leone, per tutti Lelletto. Era un grande pugile, ne racconta la storia La piuma del Ghetto, di Antonello Capurso (Gallucci editore). Una parabola di gloria e tragedia che parte negli Anni 20 del secolo scorso. Nelle strade del Ghetto di Roma, tra pietre millenarie, carretti e odore di fritto. È come il quartiere ebraico di C'era una volta in America di Sergio Leone, ma Noodles e Max cercano la scorciatoia facile, mentre Lelletto sceglie l'onestà e si arrangia con i lacci, venduti otto alla volta. Ring e strada è un trait'd'union. La boxe la fanno in tanti, anche quel piccolo pugile - peso piuma - che inizia all'Audace, a due passi dal Colosseo.
Lì la storia riavvolge il nastro partendo dal ritrovamento quasi casuale di una valigetta di pelle con incise due iniziali: L.E. Leone Efrati la nascondeva in quella palestra. "Ormai gli ebrei non solo non potevano più combattere - ricorda Romolo -, non avevano diritto neanche ad allenarsi". Eppure "l'orgoglio nazionale non ha bisogno di deliri di razza, l'antisemitismo non esiste in Italia", aveva detto Mussolini nel 1932, eppure i giornali avevano esaltato le vittorie di Efrati con la sua stella di Davide cucita sui pantaloncini. Ce l'hanno in tanti, tra loro anche quel Max Baer che ha posto fine al regno di Primo Carnera, il mito a cui tutti i pugili italiani dell'epoca si ispirano. Lelletto vince, tanto. Si guadagna l'America, la chance per il titolo mondiale a Chicago: perde ai punti contro Leo Rodak, un grande campione d'origine ucraina, ma ormai è arrivato in alto. Se restasse negli Usa avrebbe una vita diversa, avrebbe una vita. Ma la sua adorata Ester e i figli non possono più espatriare, le cose per gli ebrei sono cambiate. "Più che come pugile, lo ricordo come padre buono e generoso. Mi sono rimaste impresse quelle caramelle sul letto, lo aiutavo a confezionare sacchetti da dieci, per me era un gioco". Ma non era un gioco.


Quelle caramelle venivano vendute per tirare avanti ai soldati che partivano per il fronte. Senza più diritti, senza più una casa: "Se l'era presa una famiglia non ebrea. Non erano brava gente, avevano assicurato a mia madre che almeno ci avrebbero fatto fare il bagno. Invece non ci fecero più entrare e per lavarci dovevamo andare al fontanone a Ponte Sisto. Quando non c'era nessuno, alle 5 di mattina, con l'acqua gelata". Una storia già tragica che si arricchisce di due personaggi oscuri, si chiamano Consoli e Ceccherelli. "Mio padre mi aveva comprato un gelato al cioccolato, fuori dalla gelateria ci aspettavano quei due. Ci portarono prima a via Tasso, mi ricordo un portone grande. Poi a Regina Coeli, in una camera di 2 metri quadri in cui restammo 21 giorni. Non addabbera niente (non dire nulla in giudaico romanesco) si raccomandò mio padre. E io non dissi niente quando mi chiedevano dove fosse il resto della mia famiglia".
Il destino poi li divide. Per Lelletto si chiama Fossoli, Auschwitz, Ebensee. "Io mi salvai perché mi lanciarono fuori dal camion che ci doveva portare al treno. Con l'arte della strada riuscii a scappare salendo su una carrozzella". Il padre non si salvò. Nei campi di concentramento si organizzavano incontri di boxe, alcuni erano anche campioni come Victor "Young" Perez, tunisino, campione del mondo dei pesi mosca o Hertzko Haft, detto "la Belva giudea", che dopo la guerra sfiderà Rocky Marciano per il titolo dei massimi. Efrati a suon di pugni guadagna per sé e per il fratello Marco una sopravvivenza appena più dignitosa. Ma è proprio l'ultimo match che gli costa la vita. Ridicolizza un polacco molto più grosso di lui, e i kapò connazionali dello sconfitto si accaniscono contro il fratello Marco. Lelletto cerca di vendicarsi, ma uno contro tanti non è possibile. Pochi giorni dopo sarebbero arrivati quegli americani che invece Romolo ha già visto entrare a Roma.
La sua famiglia si è ripresa la propria casa, il senso di giustizia torna a farsi largo. Ma quei due prendevano soldi per ogni ebreo consegnato potrebbero farla franca. Solo un testimone che ora ha 10 anni può inchiodarli: "Al processo non avevo paura, mi sentivo solo confuso. Ricordo l'entusiasmo della gente in aula quando finì tutto. Dissi che uno dei due non aveva un braccio, e quando lui fu costretto a togliersi il cappotto tutto divenne chiaro". Per Romolo un nuovo inizio: "Quando sono cresciuto anche io ho fatto il pugile, ho toccato buoni livelli tra i dilettanti. Mi sono fatto una famiglia, sono riuscito ad avere una vita felice". Ma l'infanzia negata non potrà mai riaverla indietro.

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