25 aprile in piena deriva neofascista . La Storia manomessa tra menzogne e omissioni. Così la nuova destra cancella l’antifascismo

Partigiani e  Prtigiane   a Milano 
 




   repubblica    di Paolo Berizzi


La memoria ha i suoi tempi. Entrambe le cose — memoria e tempo — , si possono manipolare, manomettere, trasformare. A maggior ragione dopo una “sconfitta”. La Grande Sconfitta, da qualcuno mai digerita, del 25 aprile 1945. In questo processo revanscista di rewriting, anche la storia, insieme alla memoria, diventa materia plasmabile. Non occorre essere campioni di revisionismo: basta muoversi dentro il cavallo di Troia della democrazia, coperti dal mantello dei diritti che essa garantisce, ed ecco che la verità storica è piegabile alla propaganda.

Metropolis Files/15 - Il Fascismo di ieri e di oggi: la Bestia è ancora tra noi?

In un anno e mezzo di governo-Meloni la destra e il partito di maggioranza relativa hanno portato a compimento il più duro attacco politico e “ideologico” mai mosso, dal Dopoguerra ad oggi, ai fianchi della Memoria; la memoria di chi ha dato la vita per liberare l’Italia dal nazifascismo e restituirci l’aria tolta dal regime di Mussolini. L’operazione condotta dal melonismo bifronte — postura neoconservatrice e insieme mantenimento della matrice identitaria di una comunità politica che da settantotto anni si tramanda il simbolo della fiamma che arde dalla tomba di Mussolini e che, ad eccezione di Forza Nuova, è stato utilizzato da tutti i partiti neofascisti e post fascisti — appare come un combinato di revisione storica e di omissione sul ventennio fascista. Così come sul neofascismo degli anni ’70. Le note ambiguità, ogni volta rilanciate come successo l’ultimo 25 aprile che ha confermato l’indisponibilità a dirsi antifascisti; gli affondi mirati, l’esaltazione dei “nostri morti” — formula cara anche ai gruppi di ultradestra; modifiche e atti legislativi, toponomastica; il tutto all’insegna della surreale equiparazione tra fascisti e comunisti italiani, i repubblichini al servizio dei nazisti e i partigiani, e dunque boia e vittime, Salò e Resistenza. Obiettivo: slavare la Memoria, spiantare l’antifascismo. Ovvero sradicare la radice della nostra democrazia e della Costituzione.Un “cambio di narrazione” previsto. Finanche annunciato dalla premier Meloni quando ancora non era a palazzo Chigi e già prometteva. «Sogno una nazione nella quale le persone che hanno dovuto abbassare la testa per tanti anni, facendo magari finta che la pensavano in maniera diversa, sennò sarebbero stati tutti cacciati, possano dire come la pensano e non perdere il posto di lavoro per questo». E ancora, sempre Meloni: «Noi non tradiremo». Già. Sfrecciando su un terreno già arato dall’afascismo di altri — prima Berlusconi, quindi il più estremista Salvini — , il gruppo dirigente post-fascista del partito locomotiva della destra ha messo la marcia a tutta dritta. Lo stesso hanno fatto, a cascata, le organizzazioni giovanili. Per avere conferma di questa azione erosiva della memoria non c’era bisogno di attendere l’ultimo dribbling di Giorgia Meloni che ha furbescamente sbrigato la pratica 25 aprile senza dispiacere ai suoi. Né occorreva registrare la scomposta polemica contro gli “antifa” uscita dal cilindro nero di Lollobrigida, quello del monumento al maresciallo Graziani e del mito della “sostituzione” diffuso tra suprematisti e neonazi. Scontate anche le sgrammaticature equiparazioniste su «anticomunismo» e «dittatura comunista in Italia» (quale?, quando?) di Sangiuliano seguito a ruota dal collega leghista Valditara («fascista è oggi una certa estrema sinistra»). Ci ha pensato Mattarella a richiamare — chissà con quale esito — i revisionisti al «dovere dell’antifascismo».E però va detto era già tutto scritto. Se questa destra affamata di rivalsa nel 2024 emette un francobollo dedicato a Giovanni Gentile che il ministro Urso accosta a Matteotti in forza di «una memoria collettiva da ricomporre», non è solo perché fingono di non ricordare che il filosofo e ministro della Pubblica istruzione del governo fascista — oltre a ideare il Manifesto degli intellettuali fascisti — , giurò fedeltà al regime, aderì alla Rsi e fu ammiratore di Hitler. Lo fanno perché c’è un filo nero da seguire. Una linea. È la direzione indicata anche ai baby-meloniani. Eccolo dunque, Giovanni Gentile. La foto su una parete nel video con cui il responsabile del circolo di Gioventù Nazionale di Mazara del Vallo mostra pochi giorni fa la nuova sede. Il “filosofo idealista” è una delle figurine di arredo. In buona compagnia. C’è Evola, c’è il picchiatore missino Grilz e un altro santino più impegnativo, Ernst Junger in divisa nazista della Wehrmacht. I famosi “cambi di narrazione”.La melodia del «non restaurare, non rinnegare», ché poi qua e là un po’ di restaurazione, se si pensa a cos’erano il Msi e Colle Oppio, la si vede. Il punto è che, a colpi di contro-racconto, la memoria repubblicana antifascista l’hanno messa nel mirino. Prima e dopo il giuramento al Quirinale del 22 ottobre 2022. Esempi. Il 9 marzo 2022 il Comune di Orbetello intitola l’ex idroscalo all’aviatore e gerarca Italo Balbo, uno dei quadrumviri della marcia su Roma. Cinque giorni dopo si scopre che a Balbo è intitolato l’Airbus blu dell’Aeronautica che fa volare le alte cariche dello Stato nato dall’antifascismo. Clamore. Il nome di Balbo viene rimosso e sulle chat di FdI montano le proteste. “Chi vola vale!” scrivono citandolo. Miti da onorare. Grosseto, Massa Carrara, Pescara, Gioia del Colle, Teramo, Sant’Anastasia. Sono solo alcuni dei Comuni che, con la destra al governo, hanno sentito l’urgenza di avere almeno una strada o una piazza o una rotonda dedicata a Giorgio Almirante. Il segretario di redazione della Difesa della razza, fucilatore di partigiani e collaborazionista dei nazisti.Laddove ci si mettono di traverso quei rompiscatole degli antifascisti la destra usa l’escamotage subdolo e peloso delle soluzioni “pacificatrici”. A Grosseto alla fine delle polemiche è saltata fuori via della Pacificazione: una strada a Almirante e una a Berlinguer. Con il melonismo le commissioni toponomastiche hanno un gran daffare. Perché si sa, la storia la (ri)disegnano anche le targhe sull’asfalto. A Lucca ci sono voluti mesi, e una vergogna nazionale, prima che la giunta ostaggio di una destra estrema rinunciasse alla pregiudiziale contro l’intitolazione di una strada a Sandro Pertini. L’altro giorno, festa della Liberazione, quegli stessi assessori neri sono usciti dai radar per 24 ore. La titolare FdI all’Istruzione Simona Testaferrata non ha partecipato a iniziative e come lei anche i consiglieri comunali del partito. Se le «radici non gelano» — cit. Isabella Rauti in ricordo del Msi fondato da fascisti e repubblichini — quelle della Repubblica chissene importa. «Il 25 aprile festeggio San Marco». A dare nuova linfa all’anti-antifascismo fu, nel 2021, con un cartello, una certa Rachele Mussolini. Idem Tommaso Foti, oggi capogruppo dei “patrioti” alla Camera. «Neanch’io festeggio il 25 aprile!», fece eco La Russa che nel 2020 propose di intitolare il 25 aprile ai «caduti di tutte le guerre» esortando a intonare la canzone del Piave. L’anno scorso, da presidente del Senato, ribadì: «La parola antifascismo non è in Costituzione». Quando non spara a palle incatenate la destra usa il fioretto delle mozioni. Strumentalizzando celebrazioni e doverosi ricordi. Prima in Friuli-Venezia Giulia e poi in Veneto FdI ha fatto approvare in consiglio regionale la sospensione di contributi a associazioni che «si macchiano di riduzionismo o negazionismo sulle foibe». Il nemico non dichiarato erano e sono la ricerca e la divulgazione sugli eccidi nazifascisti. «Sotto le insegne dell’Anpi si nascondo i crimini del comunismo», ringhiano i colonnelli veneti di Meloni. Di che stupirsi in fondo se, nel 2021, l’assessora regionale Elena Donazzan decide di celebrare la Liberazione alla foiba Buso de la Spaluga, sul monte Corno, dove furono uccisi 14 soldati nazisti. Lontani dal verdetto della storia, lontani dall’aula. Da poco il consiglio comunale di Vicenza ha reintrodotto dopo 8 anni la clausola antifascista per la concessione di aree e luoghi pubblici: i meloniani sono usciti dalla sala consigliare. C’erano tutti invece, il 20 agosto 2022, nel circolo FdI di Velletri inaugurato qualche anno prima dalla Lady M. Appeso al muro spicca il vessillo del Msi intitolato al gerarca Ettore Muti, segretario del PNF nel periodo delle leggi razziali. “L’uomo userà la velocità, non il contrario!” dicevano i futuristi. Velocemente, nel solco del “non restaurare non rinnegare”, era tornato persino Marcello De Angelis, ex terrorista di Terza Posizione, amico di Giorgia e autore del brano ‘Claretta e Ben’. Quando si sono accorti che era troppo l’hanno dovuto lasciare a casa. Per compensare l’album di famiglia un mese fa Lollobrigida ha assunto come portavoce Paolo Signorelli jr, nipote del cofondatore di Ordine Nuovo. E sì, la memoria ha i suoi tempi.


  Ora    Il 25 aprile è una festa. È la festa , o al,meno dovrebbe  essere  , di tutti gli italiani, festa della libertà e della democrazia.Libertà, democrazia, italiani: tre parole che non possono che essere patrimonio di tutti. Non ci si   dovrebbe  dividere nemmeno su una di queste parole che sono fondative della nostra Repubblica e della nostra Costituzione e che sono soprattutto fondative della nostra possibilità di essere quello che siamo oggi: donne e uomini liberi. Ecco perché mi auguro illudendomi  che questo 25 aprile
2024 non ammetta distinguo.Sappiamo bene che il clima politico nel quale stiamo vivendo non promette niente di buono ma a maggior ragione sarebbe importante che noi tutti, cittadini di questo Paese,
fossimo consapevoli del significato di questa data e cercassimo di onorarla senza se e senza ma. In una democrazia compiuta devono esserci valori non discutibili e condivisi: primo fra tutti, il ricordo di quel giorno che ha restituito dignità a un’Italia che aveva conosciuto la vergogna del fascismo, l’orrore della violenza e delle leggi razziali, che aveva scelto l’alleanza con i nazisti, che aveva patito la tragedia della guerra in cui il regime ci aveva trascinato.Il 25 aprile ci ha portato la libertà ma soprattutto ci ha regalato il futuro. Un dono prezioso, pagato col sangue di migliaia di innocenti e con quello di ragazze e ragazzi, in molti casi ragazzini, che hanno sacrificato la loro esistenza per il nostro futuro. Molti di loro quel giorno non hanno visto il sole che splendeva ma hanno dato la loro vita perché potessimo vederlo noi.Noi che oggi abbiamo il diritto e la possibilità di pensarla diversamente, di esprimere le nostre opinioni liberamente. Per questo la reticenza con cui alcune cariche pubbliche non riescono a esprimersi chiaramente sul fascismo, per non parlare di coloro che, pur avendo giurato sulla Costituzione nata dalla Resistenza, non riescono a definirsi antifascisti, è inammissibile.Sarebbe bello che potessimo ritrovarci tutti insieme nei valori che il 25 aprile rappresenta: sarebbe importante, sarebbe naturale perché la libertà è come l’aria che respiriamo. È la stessa per tutti.  

 ecco due  storie  ed  una bibliografia  se  pur   sommaria  e  in parte  capziosa    per  alcuni libri   prese   dal settimanale 

  • Oggi 
  • Di FIAMMA TINELLI — foto di STEFANO G. PAVESI

  • A 11 anni, Gustavo Ottolenghi diventò un partigiano. Dormiva nei fienili, faceva la staffetta. I genitori l’avevano lasciato per salvarlo: «Ci vediamo a fine guerra». Non aveva nulla. Solo un appuntamento

    - Gustavo Ottolenghi che a 11 anni diventò partigiano di Fiamma Tinelli

    - Sandra Gilardelli che conserva ancora una rosa di Fiamma Tinelli

    - I libri: vedi alla voce Liberazione di Valeria Palumbo

    Mi dicevano: “Vai là, a piedi”. Ero una staffetta ma non lo sapevo, mi nascondevano i messaggi negli zoccoli — G. Ottolenghi

    Gustavo Ottolenghi aveva 11 anni quando si unì ai partigiani. Che nome di battaglia vuoi?, gli chiesero. E lui: «Robin. Come Robin Hood». Oggi, Ottolenghi di anni ne ha 92 e vive a Sanremo con la moglie, Maria Pia, in una casa che guarda il mare. Medico, nella vita ha fatto molto: è stato primario di Radiologia, ha partecipato alla guerra dei Sei giorni («Perché quella volta avevano ragione gli israeliani»), attraversato lo stretto di Bering con le spedizioni di Overland. «Ma senza la Resistenza, non
    sarei qui».

    Figlio di Raimondo, ebreo, e di Letizia, cattolica, con le leggi razziali suo padre perse il posto alla polizia municipale di Torino e Gustavo venne espulso da scuola. Era battezzato, ma bastava il cognome. Per sfuggire alle retate la famiglia si rifugiò nel Monferrato. A fatica, il padre aveva trovato lavoro nella ditta di un amico. Finché, nel 1944, quello gli disse: “Mi dispiace, a tenerti qui rischio troppo”. «Senza lavoro, coi repubblichini addosso, non sapevamo cosa fare. Così, una sera, mio padre convocò me e mia madre con aria grave. “Vi devo parlare”».

    Che cosa vi disse?

    «“Se stiamo insieme ci ammazzano, l’unica via è dividersi”. Aveva dei contatti coi partigiani dei dintorni, ci saremmo uniti a loro in tre luoghi diversi. Ci diede un appuntamento: “Se questa guerra finisce, ci vediamo sotto la statua del Duca d’Aosta in piazza Castello, a Torino”».

    E lei partì.

    «Mi affidarono a Guido e Sergio, due 20enni della brigata

    Cossolo. Ci nascondevamo nei fienili, si mangiava quel che c’era. Li seguivo dappertutto, come un cagnolino. Finché si resero conto che ero sveglio e cominciarono ad affidarmi dei compiti».

    Quali?

    «Dovevo far la guardia, in cima al campanile. “Se vedi camion tedeschi o fascisti corri giù e ci avverti”. Poi, cominciarono a mandarmi in giro per i paesi. Camminavo per chilometri con un paio di sabot di legno ai piedi. Ma non capivo il perché».

    Messaggi.

    «Esatto, facevo la staffetta e non lo sapevo. Avevano fatto un buchino nel tacco, ci infilavano dentro i biglietti. Arrivavo da tizio, da caio, e quelli mi dicevano: “Togliti gli zoccoli all’ingresso, che sono sporchi”. E poi mi davano la merenda in cucina, pane e formaggio. L’ho capito dopo, che intanto prendevano il pizzino e lo sostituivano con un altro».

    Aveva dovuto rinunciare alla scuola.

    «Mi davano una mano i partigiani laureati, chi m’insegnava geometria, chi grammatica. Quando arrivai all’età della terza media mi dissero: “Meglio che tu faccia l’esame, almeno un pezzo di carta ce l’hai”. Mi presentai a Torino, alla scuola Cavour, da privatista. Il preside che faceva l’appello quando arrivò al mio cognome lo pronunciò con la faccia scura: “Ottolenghi?!?”. Aveva capito che ero ebreo. D’un tratto mi sentii afferrare il braccio, un altro professore mi trascinò via. Prese un pezzo di carta, ci scrisse “Promosso” e mi disse: vattene, subito. Mi salvò la vita».

    Un antifascista.

    «La Resistenza era fatta anche da quelli che il mitra non ce l’avevano. Dai maestri, da chi preparava i documenti falsi, dalle donne di campagna».

    Finché la guerra finì, per davvero.

    «La mia brigata entrò a Torino che c’erano ancora i cecchini, la gente festeggiava, ballava, cantava. La prima notte dormimmo nella caserma Cernaia, un

    carrarmato tedesco nel cortile. Poi, i partigiani cominciarono a tornarsene a casa loro. Guido e Sergio mi dissero: “Sei vivo, sei libero, vai”. Ma vai dove? Io non avevo più famiglia. Solo un appuntamento».

    La statua in piazza Castello.

    «Corsi lì e aspettai mamma e papà tutto il giorno, seduto sul basamento. Guardavo, guardavo, non venne nessuno. Il giorno dopo, uguale. Cercavo i loro visi tra la gente, vedevo solo sconosciuti. “Sono morti”, pensai. Avevo 13 anni, ero un ragazzino. Ed ero solo».

    Eppure, tornò.

    «Non sapevo cos’altro fare. Il terzo giorno, vedo una donna sbucare da via Po. I capelli erano cambiati ma gli occhi, gli occhi erano i suoi. Era mamma. Non la vedevo da un anno e mezzo, quell’abbraccio lì non lo dimenticherò mai. Il giorno dopo ci mettemmo ad aspettare di nuovo, insieme. Eravamo preoccupati, di mio padre nessuna notizia. Finché sentimmo una voce da dietro: “Gustavo, Letizia!”. Era lui. Era vivo. Era con noi. Aveva lavorato per il Cln a Torino, aiutato i partigiani».

    Il 25 aprile è la vostra festa.

    «È la festa di tutti, anche se qualcuno al governo vorrebbe tanto che non se ne parlasse più. Ha mai sentito dire a La Russa: “Sono antifascista”? Io no. Quando sento che il ministro dell’Istruzione vorrebbe classi di soli italiani lo sa a cosa penso? A quando hanno mandato via me, a quando ero un indesiderato. E poi le frasi, la retorica… Il premierato caldeggiato da Meloni cos’è, se non la nuova versione di uno solo al comando? Se andiamo avanti così tra dieci anni il 25 aprile sarà una data come un’altra».

    Si rischia di perdere la memoria.

    «Io continuo a raccontare, lo farò finché campo. Lo ripeto sempre, ai ragazzi: la libertà non è un regalo. È una conquista».






    CONSERVO ANCORA QUELLA ROSA

    «Mi chiesero: cosa sei disposta a fare? E io: tutto». A 17 anni, Sandra Gilardelli è entrata nella Resistenza. In guerra ha trafugato farmaci, rischiato la vita. E incontrato un uomo con gli occhi buoni

    Sotto elezioni, Sandra Gilardelli al mercato è meglio che non ci vada. «Sennò attacco briga, che io se vedo un fascista ancora gliene canto quattro. Non mi facevano paura a 18 anni, si figuri adesso». A 99 anni, la partigiana della brigata Cesare Battisti non è stanca di raccontare la sua battaglia. Partecipa agli incontri nelle scuole, riceve i ragazzi. «Tutto quel che serve per ricordare la Resistenza, io lo faccio. E per favore non darmi del lei, non mi piace. Io sono solo Sandra». Seduta nella poltrona rossa della sua casa di Milano, apre una scatola di cartone con cautela. Dentro c’è un bocciolo di rosa, secco. Ha quasi 80 anni. «Me lo diedero il 25 aprile, in piazza. Per festeggiare», dice, mentre lo sfiora leggera.

    Antifascista, Sandra, non lo è diventata. Lo è sempre stata. Fin da quando, bambina, vedeva suo padre Antonio irritarsi di fronte ai discorsi del Duce. «Scuoteva la testa e mi diceva: “Questa è una dittatura, e il regime ci toglie la cosa più importante che c’è, la libertà. Ricordatelo sempre”». Mai indossato una divisa da Piccola italiana: pur di non mandarla alle riunioni, i suoi genitori, d’accordo col medico, la davano malata. Una volta il mal di testa, un’altra il mal di pancia. Quando scoppiò la guerra, Sandra frequentava la quarta ginnasio al liceo classico Parini, «un covo di antifascisti». Le bombe su Milano dell’ottobre del 1942 se le ricorda bene: gli inglesi avevano lanciato ordigni incendiari al fosforo e lei, che era sola in casa, si fece a piedi mezza città con le scarpe che bruciavano. «In piazza Cavour, dove era stato colpito un palazzo, vidi la gente che si gettava dai balconi per sfuggire alle fiamme. Non lo dimenticherò mai». Finché la sua famiglia decide di sfollare, prima a Gorgonzola, poi nel Verbano, a Pian Nava: una manciata di case, una piazza, un albergo. È lì, che a Sandra è cambiata la vita.

    Per essere fascista mica serve fare il saluto romano. Basta dire che chi è diverso se ne deve andare Sandra Gilardelli «Sapevo che in montagna c’erano dei ragazzi che combattevano contro i fascisti. Un giorno ne vidi due seduti in piazza, giovanissimi. Mi avvicinai facendo la timida - anche se timida non ero - e chiesi: “Siete partigiani? Io vorrei dare una mano”. Mi squadrarono dalla testa ai piedi, sospettosi. “Fatti trovare domattina presto a Premeno”». Quando lo racconta al padre, lui le dice solo: «Vai».

    Sandra ha 17 anni, una cascata di ricci, l’aria ingenua. Al comando, i partigiani le fanno un mezzo interrogatorio. Chi sei, cosa sei disposta a fare? «Tutto». Decidono di metterla alla prova. «Abbiamo molti feriti, mancano bende, Streptosil. Ruba, inventati qualcosa». Sandra ci pensa su tutta la notte. Siamo in guerra, non si trova nulla. L’indomani, le viene un’idea. Mette tutte le donne di casa al lavoro: tagliano le lenzuola per farne delle strisce, le fanno bollire per sterilizzarle. Le bende ci sono. Recuperare il disinfettante, è un’altra storia. «Girai tutte le farmacie del Verbano, trovai solo un paio di confezioni, troppo poco. Poi, mi venne in mente che lo zio di mia cognata era un chimico. “Puoi produrcelo tu?”. “Certo”. Ci si aiutava, tutti».

    Una sera di febbraio, l’ufficiale medico la fa chiamare d’urgenza. C’è il partigiano Sasha ferito, bisogna operare subito e serve che Sandra dia una mano («Io, che non mi ero mai messa neanche un cerotto»). Appuntamento la mattina dopo alle 7, nel bosco, l’unico posto sicuro. Sasha urla dal dolore, ma di anestetizzante non ce n’è. «Vado a bussare alle case vicine, cerco qualcosa, finché la signora Angioletta mi fa: “Io in casa ho solo il Vov...”. L’abbiamo operato così, con me che gli facevo tranguigiare il liquore e il medico che cuciva».

    Il passo successivo è fare la staffetta. I combattenti le affidano messaggi sensibili, roba che se ti scoprono i fascisti mettono al muro te e tutta la brigata. E durante una delle sue missioni, per la prima volta, ha paura. «Viaggiavo in tram con un’amica, due ragazze che chiacchierano si fanno notare meno di una sola. All’improvviso sale un gruppo di soldati. “Perquisizione!” gridano, e cominciano a strappare le borse di mano, a far svuotare le tasche. Io faccio appena in tempo a sfilare il biglietto che dovevo consegnare, una richiesta dei medici del CLN, e lo tengo in mano, sollevato come fosse un

    Sasha era ferito, lo operammo nel bosco. Per sedare il dolore gli facevo bere il Vov

    — Sandra Gilardelli

    fiore. In bella vista, immobile. Finché quelli mi restituiscono la borsa: “Può andare”. Non lo so che cosa m’è passato per la testa, ma ha funzionato». Un giorno del 1944, la ragazza si affaccia alla finestra di casa e sobbalza: appoggiato al cancello, c’è un nazista che fuma una sigaretta. «Stavo per dare l’allarme quando vedo due partigiani mettersi a parlare con lui. Non capivo…».

    L’uomo travestito da SS è “Mosca”, alias Michele Fiore, la primula rossa dei combattenti. La divisa nemica, la usa per infiltrarsi. «Ne avevo tanto sentito parlare, ma non l’avevo visto mai». Giorni dopo, mentre Sandra sta andando a comprare il pane giù in paese, Mosca la blocca: «Dove vai? Di te non mi fido, e se poi avverti i fascisti che sono qui?». Lei lo guarda, stupita. «E però sorrideva, aveva gli occhi buoni... È stato in quel momento che mi sono innamorata di lui». Si sposeranno subito dopo la guerra, avranno una figlia, Michela. «Siamo stati insieme 65 anni, una vita intera», dice Sandra. E intanto, si commuove.

    Se le parli di coraggio, fa spallucce: «Incoscienza, forse». E poi, ci tiene a dirlo, «a combattere i fascisti eravamo in tanti». Le donne, non solo le partigiane, hanno fatto più di quanto si sappia, più di quanto venga loro riconosciuto. In silenzio. «Le contadine che nascondevano i combattenti nel fienile, mia madre e mia zia che sventravano i materassi di lana per fare i calzettoni per i ragazzi, su in montagna. Di loro non si parla mai».

    La libertà, spiega Sandra, è per questa che combattevamo. È per questa che lei ancora racconta. «Perché per essere fascista non c’è mica bisogno di fare il saluto romano. Basta dire che chi è diverso non ha diritti, che chi è di un altro colore deve tornarsene a casa sua. Sei fascista lo stesso».



    Infatti  

    il fantasma del fascismo che continua a premere, anche nel 2024. Solo affrontando il passato possiamo capire perché il governo di Giorgia Meloni ha risvegliato gli istinti peggiori del nostro Paese. Nella settimana del 25 aprile, una puntata speciale di Metropolis Files/15 - Il Fascismo di ieri e di oggi: la Bestia è ancora tra noi?




     ispirata da "Il ritorno della Bestia. Come questo governo ha risvegliato il peggio dell'Italia" (Rizzoli), di Paolo Berizzi.
     





    io aggiungo   due  anzi  tre    molto  obbiettivi     che    denunciano  le  stesse cose  di Pansa   ma  verificandole  e senza  scadere  nè  nel negazionismo    nè nell'esaltarla   . 












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