laura morelli 60 anni rider

  
Non sapevo che LAURA MORELLI   

dal  suo sito https://www.lauramorellieu.com/

 fosse   oltre 
 
 Docente universitaria. Rider. ciclista. Un decennio come restauratrice di dipinti murali.
Dal 2000 inizia una ricerca sull’estetica della relazione. Crea le innermost machines. Decostruisce giocattoli elettronici e li riassembla in opere d’arte cinetiche fino alla tecnologia robotica.
Dal 2003 coinvolge gruppi di persone nel processo creativo.
Nel 2006 fonda ed è presidente dell’associazione Di + onlus per la realizzazione di progetti d’arte relazionale.
Nel decennio 2000 fa progetti d’arte relazionale all’estero e in Italia. La sua ricerca non si ferma mai.
Nel 2016 realizza una performance sul desiderio connesso a dolore represso e corpo. Ne declina una prassi educativa e in tre anni coinvolge nell’esperimento 180 studenti di 5 università/scuole internazionali. Produce installazioni, video, audio, sculture, fotografie, testi.
 
a quanto dice  nella  sua   la  biografia    del suo  sito  \  pagina   internet  e nel suo ( ottime le sue foto e i suoi video ) account instangram   fosse     come  raccontano      gli articoli sotto  riportati    anche rider  


Morelli è forse la rider più anziana d'Italia. Artista, ha iniziato per documentare un suo progetto, ha proseguito per necessità. La sua bici ha percorso 30mila km: come da casa sua a Singapore, andata e ritorno

"Ah, sei tu la rider?". Quando Laura arriva di corsa, con la bici nera e il giubbino rosa fluo, sorprende sempre. Perché è esile, è donna, parla forbito. E perché sotto il casco da ciclista i capelli sono bianchi come la neve. Laura Morelli - nata a Bergamo terza di quattro fratelli, istinto ribelle, laurea con lode al DAMS di Bologna - a novembre ha compiuto 60 anni. Ciò la rende probabilmente la rider più "vecchia" d'Italia, sicuramente di Milano. Negli ultimi 24 mesi - estate e inverno, giorno e (preferibilmente) notte, domeniche comprese - ha percorso quasi 30mila chilometri con uno zaino in spalla, che è un po' come pedalare da Milano a Singapore e ritorno. Lo ha fatto prima per Glovo, poi per Mama Burger, Jobby, Foorban e infine Winelivery. "Ebbene sì, sono una rider: il livello sociale appena sopra i senzatetto", esordisce sarcastica mentre nella camera di casa sua - Laura divide un appartamento con due amici in viale Abruzzi - si sta preparando per uscire.
Alle pareti ha foglietti e appunti, i libri sul ciclismo sono sparsi ovunque e a fianco del letto, sulla scrivania, il computer è acceso. "Ci osservano quasi tutti con sguardo giudicante e misericordioso - continua - e quando poi vedono che sono donna, bianca, che parlo correttamente italiano, pensano "poveretta, deve essere una signora che ha perso il lavoro". Poche donne fanno le rider, non vogliono abbassarsi a questo livello. Ne conosco una che non usa mai il termine "rider" ma "fattorina", per marcare la differenza. Psicologicamente funziona".Di solito Laura si presenta ai citofoni per nome ("Salve sono Laura, devo consegnare una bottiglia di vino"), e a molti fa piacere. Ma i tempi della gig economy (letteralmente: l'economia dei lavori saltuari, per lo più gestiti da app digitali) non lasciano spazio alle chiacchiere futili: bisogna correre, schiavi di un algoritmo che detta il ritmo e discrimina i meno efficienti.



Non esistono dati ufficiali sul numero di rider in Italia, ma in tempo di Covid il servizio è cresciuto tantissimo: per farsi un'idea, sono oltre 16mila (fonte Assodelivery) i ristoranti che nel nostro Paese usufruiscono del food delivery, per un giro d'affari nazionale che supera i 750 milioni di euro. "Un'economia enorme, che fa leva su un vuoto legislativo presente in molti paesi", dice Laura mentre scende le scale di casa, pronta per iniziare una lunga serata lavorativa: "Se ci pensi è una genialata, che toglie completamente responsabilità al datore di lavoro e ci spinge verso il modello americano. Sarà il futuro. Ma se hai cinquant'anni e per te questa è l'unica fonte di reddito, be', sei fregato".
Accese le luci, Laura inizia a pedalare e starle dietro è un'impresa. Corre in sede, ritira gli alcolici che deve consegnare, uno sguardo al cellulare per l'ordine e via "sul maledetto pavè": le strade diventano una palestra en plein air ed esplorarle su due ruote significa, per lei, riuscire a "cogliere la vera pancia della città, gli umori della comunità umana". Fino ad ammettere di essersi "innamorata di Milano grazie alla bicicletta, nelle settimane di lockdown, girandola con il sole e l'aria pulita, scoprendo androni inaspettati e portoni silenziosi del centro, abitati da quella borghesia che ha scritto i Promessi Sposi".
Laura ha fatto un po' di tutto, nei suoi primi 60 anni di vita. Si è occupata di iconografia teatrale, ha fotografato concerti, ha scritto articoli per giornali di provincia, ha restaurato per un decennio dipinti murali in cantieri sparsi per l'Emilia Romagna. Poi vent'anni fa si è presa una pausa, è andata tre mesi in analisi e un bel giorno si è sentita pronta per ricominciare tutto da capo. "Sentivo che si era chiuso un ciclo. Volevo vivere di arte ma il restauro mi andava stretto, e così sul finire del secolo ho realizzato che volevo e potevo essere io l'artista". Laura inizia a lavorare sul concetto di dialogo tra spazio e individuo, sull'idea di combinare insieme tecnologia e relazione. Una serie di riflessioni che segnano il suo percorso artistico, fra gallerie, esposizioni pubbliche (al Miart, alla Fondazione Stelline) e collaborazioni con atenei come la Cattolica di Milano, l'Università di Brescia, il TEC di Monterrey e l'Unisob di Napoli, dove oggi è professore a contratto nel corso di Progettazione artefatti cognitivi e strumenti per la prototipazione.
Non le basta. Fonda una onlus (chiamata D+) per promuovere l'arte contemporanea, e continua a farsi domande. Una in particolare segna gli ultimi due anni della sua vita: "Dov'è la bellezza, nel fenomeno sociale dei rider?".
Inizia coì, iscrivendosi a Glovo. Il progetto artistico ha un nome - gLOVERs - e una curatrice, la storica della fotografia Giovanna Bertelli: per un anno intero, a partire dal febbraio 2019, Laura lavora come rider e re-lizza piccoli video "come appunti poetici del mio quotidiano rubato ai ritmi del software". L'obiettivo è comunicare: mostre, conferenze pubbliche, performance. Ma a febbraio 2020 accade l'imprevedibile: la pandemia di Covid-19 si abbatte sul mondo intero, tutto si ferma e il progetto viene con- gelato. "Inizia il primo lockdown - racconta - e capisco che per i rider ci sarà sempre più lavoro. Quei 500, 600 al mese guadagnati pedalando per Milano mi fanno comodo e decido di continuare, anzi alzo il tiro: pur di non restare in casa arrivo a lavorare anche 8, 10 ore al giorno".
Piano piano per Laura la bicicletta diventa magia, benessere, piacere puro. Alla media di 40 chilometri al giorno la fatica scompare, il cervello produce endorfine, neppure la pioggia le dà più fastidio. I sensi sono vigili, devi prevedere tutto - quel pedone sta attraversando, quell'auto si fermerà allo stop, quella portiera si sta aprendo? - e hai pure il tempo per piccoli momenti di libertà ("fare le gare con gli altri rider alle 2 di notte, e ridere dentro di te perché l'hai superato").
A mezzanotte piazza Duomo è deserta. La donna appoggia il cubetto isotermico e si siede sui gradini del lampione: dal termos esce caffè caldo, è il tempo del relax. "In questi mesi ho consegnato di tutto: sigarette e vestiti, mazzi di fiori e superalcolici. Mi è capitato di finire in mezzo al litigio di una coppia gay e di consegnare un pacchetto di pop-corn a un adolescente dall'altra parte della città. Ho sfiorato ambulanze e ho litigato con le forze dell'ordine: volevano darmi la multa perché pedalavo senza mascherina. State voi per 6 ore in bici - ho risposto -
con 5 chili sulle spalle, sotto il sole d'agosto, con occhiali da vista e mascherina. Hanno avuto pietà".
Chi vive sulla strada sviluppa solidarietà nei confronti di chi fa lo stesso. I tassisti, gli operai del tram, gli stradini che asfaltano: "Ci si aiuta tutti, ci si comprende; la sera i controllori della metropolitana aprono i tornelli ai rider stanchi che vogliono solo una bottiglia d'acqua al distributore automatico". Laura l'ha capito, la bicicletta è entrata prepotentemente nella sua vita e non se ne andrà più. Abituata com'è ad alzare sempre la posta, ha deciso di puntare in alto. Da mesi su un foglio Excel si segna i chilometri che fa, i tempi che impiega, i recuperi e le ripetute. Il suo obiettivo è semplice: fare il giro del mondo. "Ora è diventato il mio sogno, la mia ossessione: smetterò di fare la rider solo per questo".


Hanno deciso di inforcare la bicicletta per occuparsi di consegne a domicilio e integrare così il loro reddito. La storia di due donne, Laura e Barbara.

«Poverina, una signora così anziana che gira in bici. Chissà che vita difficile». È il pensiero che molti avranno fatto incrociando per le strade di Milano Laura Morelli. A raccontarcelo è lei stessa: 59 anni, rider.Ha sperimentato in prima persona cosa significhi Gig economy, ossia guadagnarsi da vivere o integrare il proprio reddito facendo lavori saltuari, senza alcun contratto a garanzia e solo quando si viene chiamati o, più in generale, quando si può. «È un’esperienza molto spinta perché hai tempi stretti da rispettare, un percorso da seguire e del cibo – quindi materiale fragile – da trasportare». Nel suo caso bevande, visto che ora consegna bottiglie di vino e, più in generale, alcolici.«Ho iniziato il 14 gennaio del 2019 e penso di aver fatto almeno 10mila chilometri perché ho lavorato tanto. Ho cambiato diverse aziende della Gig economy. Il fine settimana si guadagna di più ma, se in media lavori quattro giorni a settimana, per 4/5 ore al giorno, ti porti a casa 600 euro».

Pochino, no?
Sette euro l’ora. Decisamente poco.

E lavorare durante la pandemia da Covid come è stato?
Come essere improvvisamente Alice nel paese delle meraviglie. Una città vuota. I suoni, gli uccellini.

Laura Morelli, rider

Milano. Laura Morelli in Piazza Duomo.

Una risposta che può sorprendere se non fosse che Laura ha scelto di fare questo lavoro e lo ha fatto per un tempo determinato. A parlarci bene, infatti, si scopre che è un’artista e si occupa di indagine estetica. Ha affrontato quello che poi si è trasformato in un anno di lavoro in un’occasione per intraprendere un suo percorso di sperimentazione artistica. «Cercavo bellezza, apparentemente difficile da trovare in un ambiente di produzione. Eppure l’ho trovata, per la strada, mentre attendevo di ricevere l’ordine da consegnare o mentre attraversavo la città». Così ha fotografato, registrato, filmato qualsiasi cosa la attraesse: dal logo con immagine femminile di un ristorante cinese alle conversazioni in attesa al semaforo. Il tutto confluito in un progetto chiamato “Glovers”, dal nome dei rider che lavorano per uno dei più importanti vettori, ma che porta in sé anche il termine “Love”. E dunque, amore.

Un bel vantaggio, sicuramente, rispetto ai tanti che invece il rider devono farlo per forza: perché è l’unica fonte di reddito.
Non sono mai stata ricca e se ho potuto vivere questa esperienza è perché ci ho guadagnato qualcosina. In più, per dieci anni sono stata capocantiere in imprese di restauro e lì ho guadagnato il necessario per acquistare due immobili dai quali oggi ho una piccola rendita. Nella mia vita, mi sono sempre trovata a fare cose diverse. Prima ci soffrivo, non perché non mi piacesse ma perché l’ambiente sociale circostante richiedeva, come modello, il lavoro unico. Solo che a me questa cosa dell’identità unica è sempre stata stretta. Oggi vivo a Milano in cohousing: 100 mq che condivido con una coppia e un singolo.

Barbara Vidor

Milano. Barbara Vidor durante il suo turno di rider.

Diversa, ma accomunata dall’età e dall’amore per la bicicletta, l’esperienza di Barbara Vidor, 56 anni. Vive a Landriano, in provincia di Pavia, e fa la rider da cinque anni. «A Landriano carico la bici in auto e lavoro a Milano. Quindici chilometri. Trovo parcheggio e da lì parte tutto il gioco». Eppure, di mestiere principale, Barbara fa altro: «Io sono una barista da undici anni. Ho una passione grandissima che è quella del cavallo. Perciò ho chiesto un part time – lavoravo troppo per potermi prendere cura del cavallo e gareggiare con esso – e, quando le spese hanno iniziato a salire, ho integrato il reddito lavorando come rider. Scotch, il mio cavallo, è un Sella francese: mi costa 350 euro al mese. Ed è esattamente quanto riesco a guadagnare consegnando cibo a domicilio».

Ma non è  faticoso a 56 anni?
Ho fatto tanti sport – prima del cavallo, ho gareggiato nello sci slalom gigante, windsurf, kitesurf e skateboard – e perciò sono molto allenata. In più, il lavoro di rider mi lascia tempo libero perché do disponibilità a seconda di quando ho possibilità di lavorare. Sono una “jobby”, ossia iscritta alla piattaforma Jobby, con la quale trovi il lavoro quando ti serve. Si trovano anche lavoretti per la casa, offerte come domestica o se serve di tinteggiare. Io avrei anche il brevetto per montare i televisori, ma poi non l’ho mai usato.

In bici, lei dice: «È come se fossi in palestra. Non la pago e mi mantengo in forma».

Pensi che continuerai a fare questo lavoro anche in futuro?
Sì, ho interrotto solo durante il Covid. Mi sono fermata perché avendo già un lavoro ho preferito lasciare le consegne a chi ne aveva veramente bisogno e vive solo di quello.

Quindici giorni ferma. Poi, non ce l’ha fatta più. È tornata in sella alla sua bicicletta. E a Scotch.

 

Senza Diritti. Una categoria da tutelare

Per mesi la politica si è interrogata su come debba essere normato il mondo dei rider, i lavoratori senza diritti né tutele che consegnano cibo a domicilio rischiando la propria incolumità nel traffico cittadino. In tanti raccontano la pesantezza di stare fuori casa dieci ore al giorno, percorrendo anche 80/100 chilometri in bicicletta, di turni di lavoro massacranti, con compensi che variano a seconda delle ore di lavoro e delle consegne. Sempre al di sotto del necessario per andare avanti. Una condizione così complessa che è finita nel mirino della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano con l’accusa di caporalato a un noto vettore, in particolare per lo sfruttamento dei rider. Tra le testimonianze raccolte, quella di un fattorino che ha dichiarato: «La mia paga era sempre di 3 euro a consegna indipendentemente dal giorno e dall’ora». A essere sfruttati, migranti provenienti da contesti di guerra, richiedenti asilo e persone che dimoravano in centri di accoglienza temporanei.

 

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