3.4.22

UN CALCIO AI TALEBANI A Firenze, le calciatrici afghane., pagani non ripete raddoppia i gemellini del violino

 

UN CALCIO AI TALEBANI A Firenze, le calciatrici afghane

«Per noi giocare è come respirare». Ma a loro era proibito. Qui raccontano che cosa ha significato lasciare il Paese, i trofei vinti e soprattutto i parenti. E perché due scarpette o una bici sono oro

Alle 7 di sera di un martedì di marzo, Maryam, Susan e Fatima − nello spogliatoio femminile del circolo sportivo Impruneta-Tavarnuzze − indossano le loro preziose scarpe da calcio. Preziose, esatto. È grazie a quelle che sono arrivate in Italia da Herat, Afghanistan. Era il 27 agosto 2021. E ora nello spogliatorio ridono con grazia, si svestono velocemente di pantaloni e maglie e indossano la tuta del loro club Lebowski, mostrando gambe forti. Prima di scappare dai ta

lebani e da un’altra guerra giocavano a livello agonistico.

Chiedono se sia possibile parlare in dari, la loro lingua, per spiegare che cosa hanno dentro. Certo non può servire l’italiano, stentato. L’inglese va meglio, d’altra parte sia Maryam che Susan erano iscritte a Letteratura inglese. Maryam e Susan non portano il velo. Fatima, che porta un cappellino che la fa apparire una rapper, invece lo indossa per questioni religiose, mentre quando fa sport usa lo «sport hijab». «Sotto, ho i capelli lunghi e ricci», racconta. Fatima era considerata l’astro nascente del calcio e si vede da ogni suo movimento che è una ragazza che sogna in grande. È attaccante. Maryam gioca in difesa, Susan è centrocampista.

Al Paese facevano parte del Bastan Football Club.

Il loro racconto del passato è praticamente identico. Maryam: «I miei genitori mi hanno sempre supportato, invece i parenti scuotevano la testa: “Una brava ragazza non fa sport”. Poi sono arrivati i talebani e mio cognato ha deciso di passare con loro, ci ha additato: “Guardate che queste ragazze giocano a calcio”. È diventato tutto pericoloso». Susan: «Ho iniziato a 15 anni, non c’erano problemi. Quando sono diventata grande mi hanno detto “smettila”, soprattutto mio fratello. Mio padre non l’ha ascoltato, mi ha sempre fiancheggiato, è un eroe». L’eroe, chemostra orgogliosa sul cellulare, è un signore dall’aria pacifica, con giacchina trapuntata e bicicletta. Susan, quando il padre andava a insegnare, prendeva la sua bici e la provava in cortile, lì dove quasi tutto era proibito. Tant’è che l’avere qui, in Italia, una bici, è per lei una grande gioia. Fatima ricorda invece il caldo: «Giocavamo a mezzogiorno, quando potevamo». E poi l’addio all’Afghanistan: «Ho portato solo i vestiti, nessun trofeo», dice lei che ha vinto 3 golden Boots, 2 coppe come miglior giocatrice, 10 medaglie d’oro, 4 d’argento e 2 di bronzo. «Sarebbe stato troppo pericoloso se avessero aperto i bagagli». Per tutte e tre il calcio è la vita, l’aria che respirano.

La presa di Kabul è del 15 agosto e da lì si parte. Il racconto di Anna Meli della onlus Cospe sulla loro fuga è dettagliato: «Il 13 le ragazze avevano già contattato il giornalista Stefano Liberti per un aiuto. Dal 24 al 26 agosto

La famiglia ci ha sempre supportato, erano gli altri a storcere il naso; poi sono arrivati loro ed è diventano tutto molto pericoloso

abbiamo cercato di far partire 60 persone, 42 ce l’hanno fatta, le guidavamo via WhatsApp dall’Italia. Per rendersi riconoscibili ai militari italiani tutti avevano un fazzoletto bianco al polso e nelle vicinanze dell’Abbey Gate, la via d’ingresso all’aeroporto, dovevano gridare “Tuscania”, il nome del contingente di stanza lì». Tra quelle 42 persone c’erano Maryam, Susan, Fatima e l’allenatore Najibullah Nawrozi. E ora l’allenatore, fisico compatto simile a un masso che resiste alle intemperie, se ne sta a bordo campo a guardare le sue ragazze, con quegli occhi chiari afghani così ben raccontati dal fotografo Steve McCurry.

Della loro terra Susan dice in inglese: « I miss my family» , mi manca la mia famiglia, e poi «le nipoti, l’università », mentre Maryam, che offre samosé e che ha imparato a cucinare in Toscana, non in Afghanistan eh, sospira: «Ho nostalgia di tutto: la casa, le nuvole, l’università».

Di Firenze che non sapevano così famosa, Susan ama le pescaie sull’Arno, Maryam paragona la strada di San Domenico, verso Fiesole dove abita, alla Bam di Herat, una strada in mezzo al nulla che mostra in un video sul cellulare e le si illuminano gli occhi. Dell’Italia sapevano poco, sapevano di più dell’Arsenal e di Messi, e qualcosa pure di Sara Gama, la nostra calciatrice della Nazionale vista su Instagram. Susan indossa una maglietta con su scritto «I buoni vanno in paradiso io sono cattivo vado dappertutto», e quando scopre che significa scoppia a ridere. Lei è fortunata perché è qui con gran parte della famiglia, compreso il padre eroe. La famiglia di Maryam sta a Kabul, vive nascosta perché «la figlia giocava a calcio e ha lasciato l’Afghanistan con gli occidentali». Quando si sentono, uno degli argomenti principali è la visa, il visto di ingresso (visa e ancora visa, fa capire Maryam) per il Pakistan. Città di destinazione Quetta, vicina al confine. Sperano di raggiungere la figlia in Italia.

Maryam, Susan e Fatima sono solo ragazze. E così nello stadio a un certo punto si guardano e ridono ascoltando «Con le mani, con le mani, ciao ciao». Il ritornello è casuale, ma è impossibile non pensare ai talebani.



I GEMELLI DEL VIOLINO Da grandi vogliamo solo farvi felici

Suonando Viva la vida in un video, Mirko e Valerio hanno conquistato l’America, prima grazie a Chris Martin e poi a Ellen DeGeneres. «Non ci montiamo la testa: per noi il massimo sono lamusica e una pizza con gli amici»

Questa è la favola di due gemelli violinisti di 14 anni di Agrigento che, dopo aver girato un video nella loro cameretta, hanno

conquistato gli Stati Uniti e sono stati invitati nel famoso talk show di EllenDeGeneres. Ora hanno pubblicato il loro primo album, The violin twins. Mirko e Valerio Lucia sono identici, vestono pure allo stesso modo. Ci hanno fatto entrare in casa, li abbiamo fotografati là dove tutto è iniziato, e nel loro posto del cuore: la Scala dei Turchi. «E pensare che papà quel video non lo voleva neanche fare, è stata mamma che si è intestardita», dicono.

Il video è quello in cui suonavate Viva la vida dei Coldplay, nel marzo del 2020, con milioni di visualizzazioni sui social.

«Tutto è nato per gioco, per dare speranza alle persone in unmomento difficile. Mai ci saremmo aspettati che potesse fare il giro del mondo».

Poi, la svolta.

«Unmattino ci ha svegliato un’amica di famiglia per dirci che il video era stato condiviso nella pagina di ChrisMartin. Saltavamo come canguri per l’emozione. Subito dopo è arrivata unamail, Chris Martin voleva conoscerci».

Com’è andata?

«Ci siamo incontrati su Zoom. Lui ha capito che eravamo tesi e ha iniziato a farci domande semplici, del tipo come va la scuola, che sport fate. E poi come se nulla fosse ci ha chiesto di suonare Viva la vida con lui in un live sui social».

Poi vi ha cercato Ellen DeGeneres.

«Ci ha chiamato subito, ma non potevamo spostarci per via della pandemia. Appena hanno aperto le frontiere, ci siamo fiondati a Los Angeles, con mamma e papà».

Primo impatto?

«Ci è venuto a prendere John, il driver personale. In quel van aveva portato Brad Pitt, Penelope Cruz, Jennifer Lopez e... Mirko e Valerio!».

E dopo?

«Arriviamo ai Warner Studios, una città piena di studi televisivi. Abbiamo abbracciato Ellen, ci siamo seduti e ci siamo tranquillizzati. Ci ha regalato due violini meravigliosi».

Quando avete iniziato a suonare?

«Siamo cresciuti con lamusica grazie a papà che suona di tutto. Nel suo studio c’era un violino attaccato al muro. A 8 anni abbiamo iniziato a suonarlo, un colpo di fulmine».

Com’è la vostra giornata tipo?

«Ci dividiamo tra la scuola, l’istituto tecnico turistico, e il conservatorio. Suoniamo il violino tre ore al giorno. Egiochiamo a calcio. Il sabato sera usciamo con gli amici».

C’è il rischio che vi montiate la testa?

«I nostri genitori ci tengono con i piedi a terra».

Avete successo con le ragazze?

«Abbiamo tante amiche, ma nessuna fidanzata».

Il lato oscuro di essere artisti già noti?

«Stiamo meno con gli amici. Nella vita devi prendere una decisione: o segui la tua passione o pensi solo a uscire, ma poi non costruisci nulla».

Siete dipendenti dai social?

«Preferiamo uscire in bici. Tanti nostri coetanei passano 10 ore davanti al telefono. A noi basta un’ora, poi ci stufiamo».

A 14 anni avete conosciuto una pandemia e ora la guerra.

«Stare chiusi in casa ci è costato, ci ha salvato la musica. Questa guerra è ingiusta, il popolo non la vuole, né i russi né gli ucraini. Ma non abbiamo perso l’ottimismo e la gioia di vivere».

Cosa volete fare da grandi? «Suonare nei più grandi teatri del mondo e rendere felici le persone».

Carol Maltesi e Alessandra Quaresima le donne da lapidare ed nessuno che Pur potendolo fare si sente di scagliare la prima pietra. Sono tutti nudi.

   in sottofondo 
ragazzo mio  -Luigi  Tenco
 


Il continuo parlare  sui media   e nei bar  ma  soprattutto  rimestare  i  fatti privati scavare  per  cecare   di dire qualcosa  a tutti   i costi    anziché fare  silenzio  e  dare  un po' di  respiro e  pace    protagonisti ( Carol Maltesi  e  Sabrina  Quaresima  ) mi  ha  riportato alla  mente  questo celeberrimo  brano   del vangelo   qui sotto   commentato   su  FQ  d'oggi  

In alcuni paesi le donne adultere o libere si lapidano ancora con le pietre. Noi le linciamo sui giornali e sui media .

2.4.22

Due pesi e due misure di Patrizia Cadau

 leggi anche   il precedente  post  
anche il caso della prof di Roma Sabrina Quaresima è patriacato\femminicidio


Tra   gli scritti   più interessanti    che  commentavano   la  vicenda   ( non mi dilungo  perr  ovvi motivi  ma  chi vuole  può   andare  a cercare quello  che   ho  scritto   qui  nel blog  o sul mio facebook )  di Carol  Maltesi ed ora della preside di Roma e   di  come  i  media maistream   e  lo  hanno trattato  ed ancora  continua a  trattarlo  è questo  scritto della  mia  amica  ed  utente   

Due pesi e due misure.
Poche settimane fa, ho seguito con ribrezzo le vicende dell'occupazione studentesca di una scuola superiore del Cosentino a seguito degli abusi perpetrati da un docente a diverse ragazzine.
Il professore di matematica dell'illustre liceo era solito avere condotte abusanti, tanto che a seguito della denuncia di due ragazze, si è aperto il vaso di Pandora con la testimonianza di ex
studentesse che raccontavano le molestie sessuali subite negli anni dal professore quando peraltro erano minorenni. Era stata anche creata una pagina Instagram che radunasse tutte le testimonianze sulle molestie.

Molestie che andavano avanti con la complicità della dirigente scolastica che per salvare il nome della scuola si sarebbe scapicollata in insabbiamenti e intimidazioni.
Per diversi giorni 1400 studenti hanno occupato il liceo a sostegno delle loro compagne, pretendendo giustizia. A tutt'oggi, così risulta dalla cronaca, altre ragazze negli ultimi giorni si sono aggiunte alle prime coraggiosissime che hanno fatto partire le indagini. Per caso avete avuto notizia del nome del professore? Avete visto screenshot di conversazioni segrete? Qualcuno ha crocifisso la dirigente? Qualcuno ha visto nomi e volti dei protagonisti ? Domanda retorica. No, non li avete visti e non li vedrete mai perché delle minorenni che denunciano uno stimato professore di matematica sono solo delle ragazzine mitomani e comunque è normale che un maschio attempato si lasci turbare dalla scompostezza di giovani ragazzine provocanti (non lo so se fossero provocanti, ma è certamente vero che per molti maschi attempati è provocante qualsiasi cosa respiri e abbia meno di trent'anni).Ovviamente di questa storia se n'è parlato pochissimo, l'abbiamo seguita in poche, perché del resto questa è roba normale, è violenza "normalizzata", mica ci scandalizza un uomo che tenta di toccare le tette a un'alunna o pretende uno scatto della studentessa in mutande per approvarle la verifica. Suvvia, è roba che va così dalla notte dei tempi. Sì è dato anche poco peso a quei 1400 studenti che sono scesi a fianco delle loro compagne e che si sono messi contro la dirigente, per dire, per la quale non si è emesso nemmeno un sussurro, come se fosse normale proteggere il nome della scuola e non la dignità anche solo di una studentessa ferita a morte in un luogo in cui dovrebbe essere protetta. Tutto questo pippone, insomma, per arrivare invece alla Dirigente di non so dove, che forse avrebbe avuto una relazione con uno studente maggiorenne, pronto immediatamente a sacrificarla sull'altare della gogna e sulla quale tutti da giorni buttano merda come se fosse una criminale. Una donna, che essendo tale non ha difesa ne attenuanti, non ha diritto nemmeno alla presunzione d'innocenza pur essendo innocente, perché non ha commesso reato. Eppure la sua faccia è dappertutto, e per questo nessuno s'indigna. Questo si chiama patriarcato. E i modi che trova per lapidare le donne si modificano nella forma ma non nella sostanza.
Nei secoli dei secoli

Nient' altro d'aggiungere

in attesa che la storia del vino sia materia obbligatoria Tra i banchi di scuola di uno dei 9 istituti enologici storici d'Italia si studia l'arte del bere

 In  attesa  che  la  Storia del vino  diventi  obbligatoria a elementari e medie: in arrivo proposta di legge  il  cui  Primo firmatario della proposta che è appena sbarcata in Senato e ha già cominciato a far discutere è Dario Stefàno, presidente della Giunta per le immunità e le elezioni: "Non vogliamo insegnare a bere ai nostri bambini, solo introdurre un ulteriore elemento di sapere nel bagaglio di formazione della scuola italiana. Perché il vino è uno degli elementi identitari del nostro Paese"     riporto l'esperienza    che  aviene  In una scuola di Locorotondo


 in cui si studia vino, dal campo all'imbottigliamento, passando per le analisi gusto-olfattive, quelle in laboratorio e tanto altro. È uno dei 9 istituti enologici storici d'Italia ed è una cosa seria. 

Dentro al più grande bunker antiatomico italiano

  da   https://www.ilpost.it/2022/03/24   e  da  repubblica  video 
Dentro al più grande bunker antiatomico italiano

 se non avete    voglia  o tempo di leggere  tutto  l'articolo         qui ne  trovate  un sunto




È in provincia di Verona ed è dismesso da quando la NATO, che l'aveva costruito negli anni Sessanta, decise che non serviva più
                                             di Isaia Invernizzi

Le porte di ingresso del bunker antiatomico di Affi (Il Post)


Nei lunghi corridoi dell’enorme bunker all’interno del monte Moscal, in provincia di Verona, ci sono un bar, una palestra, alcune stanze per il relax, la mensa e la cucina, ma ciò che rende davvero speciale questo posto è che niente può distruggerlo, nemmeno una bomba atomica. Il suo nome in codice, West Star, è rimasto segreto per decenni fino a quando la NATO, che lo aveva fatto costruire tra il 1960 e il 1966, decise che non sarebbe più servito perché la Guerra fredda era finita da tempo.
L’ultima esercitazione risale al 2004, l’anno in cui l’esercito iniziò a smantellarlo pezzo dopo pezzo. Negli anni successivi furono rimossi molti macchinari, gli strumenti usati per le comunicazioni, le casseforti con i documenti segreti. Per il resto è rimasto come era all’epoca, e così lo ha trovato il comune di Affi che nel 2018 lo ha acquisito dal demanio militare e ora vorrebbe trasformarlo in un museo della Guerra fredda. Perdersi tra le stanze e i corridoi può essere spaventoso e affascinante allo stesso tempo, ma il vero valore di West Star è il suo stato di conservazione, quasi perfetto, che in un certo senso testimonia i timori e le ossessioni che caratterizzarono la lunga fase di ostilità tra Unione Sovietica e Stati Uniti successiva alla Seconda guerra mondiale.
Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina molti abitanti di Affi si sono ricordati del bunker. Gli scontri tra l’esercito russo e ucraino avvenuti vicino a centrali nucleari, a Chernobyl e a Zaporizhzhia, hanno creato una certa preoccupazione alimentata da approcci dei media talvolta allarmisti.
In realtà, dice il sindaco Marco Giacomo Sega, nessuno ha mai considerato di poterlo riaprire per accogliere gli abitanti, nemmeno se il conflitto degenerasse in una guerra nucleare. È rimasto chiuso per troppo tempo: non è utilizzabile, se non per emergenza estrema e per un periodo molto limitato, forse qualche ora. Potrebbe ospitare comodamente quasi la metà degli abitanti di Affi. Grande 13mila metri quadrati, disposto su due piani, è stato pensato per accogliere fino a 999 persone, un’informazione che sarà utile a chi studierà il progetto del nuovo museo più che agli esperti di piani di emergenza.
Da fuori, il bunker è ovviamente invisibile. Lungo la strada che costeggia una delle tante vigne della zona si nota un grande cancello verde, un po’ arrugginito, chiuso con un semplice lucchetto. Al di là delle sbarre si vede l’ingresso della galleria che porta al bunker: è lunga quasi un chilometro, per la precisione 970 metri. Serve a collegare le due entrate, all’epoca sorvegliate da cinque carabinieri.

La galleria che porta al bunker (Il Post)

Quando gli operai iniziarono a scavare nella montagna, negli anni Sessanta, pochissime persone ad Affi sapevano che lì sarebbe stato costruito un bunker antiatomico. Nessuno poteva fare domande, non si potevano scattare fotografie, nemmeno da lontano, e chi si avvicinava veniva fermato dai carabinieri e allontanato. Chi abitava in una piccola frazione poco distante dall’ingresso del bunker ricordò a lungo i boati degli esplosivi utilizzati per scavare nella collina.
Dopo la sua apertura, nel 1966, quasi tutti ad Affi si dimenticarono del bunker, almeno ufficialmente. Per le strade si notavano auto con targhe strane (AFI), ma nessuno sapeva o poteva chiedere a cosa stesse lavorando l’esercito dentro la collina. Per evitare problemi, quando capitava di parlarne, perfino in famiglia si faceva riferimento semplicemente al “buco”, un nome che con il passare degli anni diventò familiare anche tra i militari.
Il livello di sicurezza e di segretezza era alto perché nel bunker venivano gestite informazioni importanti. Era il centro di comunicazione di due importanti comandi NATO: il comando delle forze terrestri alleate per il Sud Europa (FTASE) della NATO, che aveva sede a Verona, e la Quinta ATAF (Allied Tactical Air Force) con sede a Vicenza. Da qui veniva coordinata l’organizzazione delle esercitazioni sul fronte nord orientale italiano, e si ricevevano e trasmettevano i messaggi criptati con le unità al fronte e gli altri comandi NATO. Al suo interno c’era anche l’AOC, l’air operation center, il centro delle operazioni aeree della quinta ATAF, Allied Tactical Air Force, con sede a Vicenza, in sostanza una centrale di controllo per osservare tutti i movimenti degli aerei militari in volo sull’Europa. In caso di attacco nucleare, chimico o batteriologico, il comando NATO di Verona si sarebbe trasferito qui, al sicuro.
Uno dei corridoi del bunker (Il Post)

Venne costruito secondo le specifiche di una direttiva della NATO del 1958, che imponeva caratteristiche tecniche per resistere a un’esplosione nucleare fino a 100 chilotoni, molto superiore alla potenza della bomba che colpì Nagasaki, tra 10 e 30 chilotoni. È protetto da uno spessore di terra di 150 metri ai lati e circa 200 in altezza. Le pareti e il soffitto, in cemento armato, sono spessi quasi due metri.
Gerardino De Meo sentì per la prima volta il nome West Star negli anni Ottanta, durante un’esercitazione della Terza brigata missili in cui prestava servizio come sottocomandante della batteria obici. «La comunicazione iniziò con il segnale “From West Star to Tango 21”. Chiesi al mio comandante cosa fosse West Star e scoprii del bunker: all’epoca non mi sarei aspettato di diventarne comandante», dice De Meo, oggi generale in pensione dopo una lunga carriera nella NATO. «Quando me lo affidarono negli anni Duemila, prima della dismissione, era un luogo così segreto, perfino all’interno dell’esercito, che non mi resi conto di quanto fosse grande e importante, molto impegnativo da gestire».
Una delle sale del bunker (Il Post)

De Meo conosce ogni angolo del bunker perché nel 2004 coordinò il supporto logistico dell’ultima esercitazione NATO sul posto e il successivo smantellamento, concluso nel 2007. È il custode di diversi documenti risparmiati dalla distruzione e tra le altre cose ricorda alla perfezione come era organizzato il lavoro e soprattutto come i militari vivevano la quotidianità in un ambiente alienante.
La porta di ingresso ricorda quella di un sommergibile. È spessa una ventina di centimetri, così pesante che un tempo poteva essere aperta o chiusa soltanto con un sistema idraulico. Qualche metro più avanti, in una stanza di decompressione, se ne trova una identica, con un meccanismo di apertura che scattava solo nel momento in cui si chiudeva la prima porta. Ogni coppia di porte creava una camera stagna per motivi di sicurezza.
L’ex generale Gerardino De Meo (Il Post)

In sottofondo si sente il rumore delle ventole installate dal comune per far circolare l’aria. È simile a quello che si percepiva costantemente all’epoca, dice De Meo, anche se un tempo era più insistente. Entrando, la prima sensazione è di essere in una grande camera iperbarica. Le voci sono ovattate, si sente un leggero odore di stantìo, quasi metallico.
La piccola botola azzurra che si trova nel muro in fondo alla prima stanza non è mai stata utilizzata: sarebbe servita, in caso di emergenza, a gettare i vestiti contaminati in un magazzino chiuso e rivestito di piastrelle. Sulla sinistra ci sono le docce, anche in questo caso da usare solo in presenza di una contaminazione radioattiva.
Anche nei corridoi le porte sono spesse e fino a quando il bunker è rimasto operativo si aprivano una per volta, per mantenere una pressione costante. Ogni zona aveva diversi livelli di sicurezza a seconda del grado dei militari e dei loro compiti. Non tutti potevano andare ovunque. «C’era il culto della segretezza per motivi di sicurezza», spiega De Meo. «Si lavorava a compartimenti stagni. Non si poteva entrare negli uffici dei colleghi per chiacchierare. Molte porte si aprivano con una combinazione che veniva cambiata spesso e non poteva essere trascritta: bisognava ricordarla a memoria. Queste accortezze servivano a prevenire una possibile fuoriuscita di informazioni e documenti».
I locali tecnici con i motori del gruppo elettrogeno di emergenza (Il Post)

Una mappa ingiallita, rimasta appesa dietro a una porta, mostra la planimetria della struttura. Le gallerie principali sono tre, parallele, più due di raccordo. Il bunker ha la forma di un grande otto. I corridoi dove si aprono le stanze e gli uffici sono tutti uguali. È facile perdere l’orientamento.
I reperti di archeologia industriale rimasti nei locali tecnici aiutano a capire il funzionamento del bunker, studiato per essere completamente autonomo dall’ambiente esterno. Nella centrale elettrica si trovano tre grandi trasformatori e un gruppo elettrogeno alimentato a gasolio, da accendere in caso di attacco per alimentare i servizi di emergenza e quelli essenziali, come la centrale radio. Il sistema di smaltimento dei gas di scarico era stato progettato per raffreddarli e liberarli all’esterno, attraverso delle condutture, in modo che aerei o satelliti spia non potessero individuare attività all’interno della collina attraverso sensori agli infrarossi. Tutto era regolato da sistemi elettronici – «il meglio della tecnologia degli anni Sessanta», dice De Meo – sopravvissuti ai computer installati alla fine degli anni Ottanta.
(Il Post)

Quattro cisterne da 4.500 metri cubi di acqua, profonde dieci metri, garantivano la riserva d’acqua sia per i servizi sanitari, sia per il raffreddamento del gruppo elettrogeno e degli impianti.
In tutti gli spazi del bunker si notano i grandi tubi di metallo dell’impianto di aerazione. Un canale per l’aria in ingresso, uno per l’aria in uscita. In caso di esplosione nucleare o di attacco chimico, due sensori (uno ottico e uno di pressione) installati all’ingresso della galleria avrebbero fatto scattare le paratie dell’impianto di aerazione, di fatto rendendo West Star ermeticamente isolato dal mondo esterno. L’aria passava in una stanza con filtri chiamati assoluti, capaci di assorbire inquinanti o bloccare particelle contaminate. 920 bombole di ossigeno stipate in un magazzino sarebbero servite a reintegrare l’ossigeno in caso di chiusura ermetica.

La stanza con i filtri per l’aria (Il Post)

Oltre la centrale elettrica si trova una delle stanze più importanti del bunker. Qui c’era un grande contatore Geiger, uno strumento che serve a misurare le radiazioni. Una consolle di controllo era posta su una piattaforma sospesa da terra attraverso un sistema di cavi e molle: i grandi pulsanti controllavano l’apertura e la chiusura di tutte le porte. Era sospesa per evitare che oscillazioni e vibrazioni improvvise, dovute a una possibile esplosione, mandassero in tilt il sistema di sicurezza.
Molti spazi venivano utilizzati come sale per le riunioni e le comunicazioni con gli altri comandi della NATO. Entrando nella War Room, segnalata da una targa luminosa, si potrebbe sospettare di essere su un set cinematografico. La stanza è completamente insonorizzata e alle pareti ci sono mappe dettagliate dell’Europa del tempo. Oltre a vecchi microfoni, in un angolo si notano decine di cuffie ormai inutilizzabili. «Da qui ci si collegava con tutti gli altri comandanti», spiega De Meo. «Le cuffie servivano per le traduzioni e perché c’era il timore di essere intercettati, quindi non c’erano altoparlanti. Delle circa 250 persone che lavoravano fisse nel bunker, una buona parte era addetta alla trasmissione delle informazioni di tipo terrestre, navale, aereo».

La war room (Il Post)

I messaggi criptati arrivavano in un bunker all’interno al bunker, una stanza protetta da una porta corazzata e in cui nemmeno De Meo poteva entrare. Qui fino agli anni Ottanta si sentiva il rumore incessante delle telescriventi, che ricevevano e inviavano i messaggi. Con l’arrivo dei computer le operazioni iniziarono a essere più veloci e si risparmiò una notevole quantità di carta.
In un’altra grande stanza, chiama il “vascone”, era stato allestito l’air operation center, dove il personale dell’esercito aveva il compito di seguire e tracciare le rotte degli aerei militari che entravano nello spazio aereo della NATO. Non c’erano schermi, solo enormi lavagne su cui le rotte venivano tracciate a mano a matita. Nelle sale degli uffici direttivi sono rimasti armadi con moltissimi vecchi manuali tecnici di macchinari già smontati. Le casseforti con i documenti protetti da segreto sono state portate via, così come gran parte delle attrezzature.

Mappe dell’Europa appese alle pareti (Il Post)

Lavorare all’interno di un bunker per lungo tempo era piuttosto snervante. Sulla parete della mensa da 110 posti spicca la riproduzione del monte Baldo, che si trova vicino al lago di Garda: il disegno era stato pensato per ingannare lo sguardo e dare profondità alla stanza. Ma non era l’unico luogo in cui i militari potevano rilassarsi: c’erano alcune “break room” dove si poteva chiacchierare, una palestra e un bar rimasto quasi intatto, con i lampadari dell’epoca, le vetrine, e il vecchio televisore.
Dopo l’ultima esercitazione, nel 2004, iniziò il declino dei bunker antiatomici e anche quello di West Star. Secondo uno studio della NATO, queste strutture non erano più considerate strategiche e soprattutto costavano troppo.
La mensa (Il Post)

De Meo inviò un rapporto dettagliato per cercare di convincere l’alto comando della NATO che sarebbe stato utile avere un bunker in caso di una crescita della tensione nel Mediterraneo. Nel 2006 lo Stato maggiore dell’esercito gli comunicò che West Star non era più di interesse nazionale. «Chiuderlo mi sembrava un delitto», dice De Meo. «A causa della segretezza con cui era stato gestito, nemmeno i vertici sapevano con esattezza cosa stavamo chiudendo. Avvisai tutti: lo smantellamento sarebbe stato irreversibile». Le operazioni di dismissione durarono alcuni mesi.
Il bunker rimase sotto il controllo del demanio militare fino al 2010 quando l’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa confermò che West Star non era più di interesse militare. Nel 2011 un guasto rovinò l’impianto elettrico e negli anni successivi alcuni ladri riuscirono a rubare tutto il materiale di un certo valore, soprattutto rame. Infine, nel 2016, il comune di Affi presentò domanda per l’acquisizione gratuita nell’ambito della legge sul federalismo demaniale e l’1 marzo del 2018 il bunker diventò proprietà comunale.
Il bar all’interno del bunker (Il Post)

Per la sua struttura a forma di otto, West Star sembra essere perfetto per una lunga visita guidata. Finora il progetto del comune, che vorrebbe farlo diventare un museo della Guerra fredda, è stato fermato dai costi di bonifica e di allestimento. Servirebbero tra 4 e 6 milioni di euro, secondo le prime stime, per metterlo in sicurezza, costruire i parcheggi e rifare le strade.
«In questa fase stiamo coinvolgendo l’azienda sanitaria per capire se il bunker può essere visitato da molte persone e nel caso quali lavori servirebbero per trasformarlo in un museo», spiega il sindaco Marco Giacomo Sega. «Vorremmo portarlo all’attenzione della Soprintendenza perché secondo noi è un patrimonio storico di notevole valore. Al suo interno ci sono oltre 50 anni di storia militare. Ovviamente vorremmo coinvolgere anche il ministero della Cultura e l’Unesco». Ma tra le possibili idee per raccogliere fondi ci sono anche iniziative più curiose, come un’accurata scansione 3D per provare a vendere la mappa tridimensionale di un vero bunker risalente alla Guerra fredda a uno sviluppatore di videogiochi. «I diritti andrebbero al comune», dice il sindaco, con un certo ottimismo. «Siamo certi che il bunker, per Affi, può essere una miniera».





1.4.22

Scusa sembra essere la parola più difficile per Pietro Diomede ( e non solo )che non si scusa con i familiari di carol

Dopo le ultime dichiarazioni e  l'intervista   o  botta  \  risposta  alla  zanzara del comico   (?) P.Diomede 

N.b
non mi dilungo sulla vicenda : perchè 1) credo che   ormai  sappiate  tutti\e  di   cosa  si parla  .  E poi  non voglio fargli ulteriore pubblicità dall'altronde è quello che vuole visto come ha reagito
alla richiesta di scuse ai familiari ., 2) ne ho già parlato per  chi volesse nei precedenti post ( qui  e  qui  ) ed se ne parla troppo senza aggiungere niente di rilevante e di nuovo se non solo morbosità ., 3) Per rispetto della vittima e dei suoi familiari meglio fa calare il silenzio su tale fatto .


coadiuvato da questa canzone












mi è venuta in mente questa riflessione già espressa nel titolo . In questa canzone l’autore pone il suo sguardo un momento ben preciso di tante storie d’amore, soprattutto in tante nate da sentimenti molto forti e coinvolgenti: il momento dell’incomprensione totale, quello in cui sembra non ci sia proprio più nulla da fare ed in cui ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo sembrano soltanto peggiorare le cose. Ed in una situazione del genere c’è spesso uno dei due, quando non sono entrambi, che si chiede cosa fare per sistemare tutto, per cancellare tutto il male e riportare quel bene, quell’amore, quella fusione su cui la storia si fondava. Quindi anche se il contesto se il contesto è diverso il principio è lo stesso . << Un amore che >> come dice quest  articolo  di   https://www.ariesblog.it/<< sembra svanito nel nulla, un amore la cui assenza genera disperazione, una disperazione che, a sua volta, rende ciechi e complica ancora più, se possibile, la ricerca di quella fiammella che potrebbe essere di nuovo alimentata. Ascoltare questa canzone equivale a sentire il dolore di una delle due parti, quella che continua a cercare, quella che vorrebbe abbattere un muro costruito da entrambi e causato probabilmente anche da suoi errori, ma che forse ci sta provando troppo tardi, quando ormai quel muro sembra inamovibile. E pensare che prima sarebbe bastato poco, sarebbe stato sufficiente ascoltarsi, sarebbe stata sufficiente una parola che ormai sembra difficilissima. Sarebbe bastato chiedere scusa.>>
Lo so che per esperienza personale è difficile scusarsi   ed   essere  sincero  , ma  anche se a volte ipocritamente è meglio farlo per non passare per un cinico ed un putribondo figuro . Ma  soprattutto  ti libera da stress , ansia  ,  e pesi sulla coscienza  . 
Ora   qualcuno\a  mi dirà , ma   ti devi scusare  perchè  lo senti  tu  non perchè  te lo  chiedono  quasi obbligatoriamente  . E  poi  Zelig  lo  ha  censurato    che   vergogna   primo lo accetti e poi lo cancelli ?.
Veramente  quello  che Gasman   era  solo  un suggerimento  non  un ordine od  un obbligo  . E' vero che dev' essere una  persona  a  decidere da  solo se scusarsi o meno  e decidere   se  seguire  il consiglio  o l'ordine qualora  si tratta  di ruoli importanti.
ecco cosa ha risposto a   Giancarlo Bozzo   direttore  artistico di Zelig   a su: https://www.fanpage.it/spettacolo/interviste/giancarlo-bozzo-direttore-zelig-che-ha-cacciato-pietro-diomede-non-e-censura-ma-buon-gusto/ [... ] la cancellazione dell'esibizione di Pietro Diomede non la considera una forma di censura, ma solo rispetto del buon gusto. Non è contrario a una certa forma di umorismo, ma ritiene che chi si avventura nel black humor, debba anche saperlo fare con maestria altrimenti il risultato è disastroso: "Non chiamiamola censura per favore, è semplicemente buon gusto. La comicità può benissimo essere scorretta, scherzare anche su certe cose, ma in quel caso deve essere un capolavoro. Questa battuta non lo era, non faceva ridere. Certo, la risata può fare arrabbiare qualcuno, se si sceglie questa via, ma non deve essere urticante".
Ecco quini  che la  prima parte   è condivisibile  . la  seconda un  po'meno  .
[....] Perché ha chiamato Pietro Diomede ad esibirsi
Quella su Carol Maltesi non è la prima battuta di cattivo gusto di Pietro Diomede. I suoi profili social sono carichi di scivoloni. Dunque, perché un personaggio così controverso era stato chiamato a esibirsi allo Zelig? Giancarlo Bozzo si è assunta la piena responsabilità. Il direttore artistico ha ammesso di non essersi informato abbastanza sulla carriera di Diomede e sul suo stile: "E questa è colpa mia, ammetto che non lo conoscevo a sufficienza, ma in Italia ci sono circa 3000 comici, non posso sapere tutto di tutti".
 Vero  però  visto che  si selezionano i comici   da far  esibire   un  minimo di  curricula  lo si chiede   e poi si decide  se  farlo esibire  o meno 

31.3.22

dignita e identita la storia di miko omosessuale e sua figlia che non lo vuole al matrimonio

non sono solo   i  figli\e    a  subire   l'omofobia    da  parte dei genitori  ma  anche , come  la  storia che  riporto  sotto  tratta    da Matteo Grimaldi , figli\e    che  in maniera  indiretta  come questo  caso  ,    che  sono  omofobi  di  un confronto di un genitore  omosessuale 


Questa storia ha per protagonisti un padre omosessuale di 40 anni che chiamerò #Mirko e sua figlia 21enne, avuta prima di capire e dichiarare il proprio orientamento sessuale.

Mirko si è separato da sua moglie restando con lei in buoni rapporti come lo era con sua figlia prima che lei si fidanzasse. Suo padre le aveva persino promesso che avrebbe pagato il suo #matrimonio, ma non poteva immaginare che a quella festa così importante lui e il suo compagno non sarebbero stati graditi. Sua figlia gli ha vietato di partecipare per non "turbare i #suoceri #conservatori e molto religiosi".
Mirko questo non lo può accettare.
"Le ho detto che se i suoi suoceri sono così importanti, a tal punto da indurla a escludere il padre, dovrebbero pagarlo loro il matrimonio. Lei si è arrabbiata con me, mi ha chiamato "bambina" e ha detto che avrebbe chiesto ai suoi futuri suoceri di accompagnarla all’altare. A quel punto le ho fatto presente che se io, il mio compagno e nostro figlio non eravamo i benvenuti allora saremmo rimasti a casa nostra, e le ho detto che io ovviamente non avrei pagato il matrimonio.
Lei è andata su tutte le furie, ma io, oltre a essere un padre, ho una dignità, ho delle persone accanto che amo e rispetto molto. Mia figlia mi ha scambiato per un bancomat. Sono molto dispiaciuto di non essere riuscito nel mio compito di insegnarle a rispettare le #identità di tutti. Questo gesto, che mi fa male, è tutto ciò che in questo momento possa fare nella speranza che lei capisca qualcosa. Io non pago un matrimonio #omofobo." 👏👏👏

anche questo è femminicidio il caso della preside sabrina quaresima

 Che paese bigotto e  sessuofobicoche  siamo . Se un alunno\a ha un rapporto sentimentale  o sessuale con il prof  ed ha oltre ai 14 anni  è  c'è consensualità da entrambi    perchè dev'essere  reato .
Sembra  d'essere  ritornati  a quando Il plagio   era   a pieno titolo  nel diritto penale italiano .


 Infatti Il plagio nel diritto penale italiano era il reato previsto dall'art. 603 del codice penale, secondo cui «Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni». Tale norma è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 96 del 9 aprile 1981. Il termine plagio deriva dal latino plagium (sotterfugio), che nel diritto romano indicava la vendita di un uomo che si sapeva essere libero come schiavo, ovvero la sottrazione tramite persuasione o corruzione di uno schiavo altrui. Si legge infatti nella citata sentenza, che «Nel diritto antico e fino all’inizio dell’età moderna il reato di plagio era inerente all’istituto giuridico della schiavitù inteso come stato dell'uomo non avente personalità giuridica [...]. Dalla fine del sec. XVIII con la progressiva accettazione del principio dell’uguaglianza dello stato giuridico delle persone e la conseguente progressiva abolizione della schiavitù [...] è concepito come un delitto contro la libertà individuale[2]»Nel lontano  1964 la norma era stata invocata contro un artista con un passato da dirigente locale del Partito Comunista Italiano, Aldo Braibanti, che si riteneva avesse indotto due giovani, Piercarlo Toscani e Giovanni Sanfratello, diciannovenni all'epoca dei fatti, in sua dipendenza psicologica, affascinandoli con le sue idee artistiche e filosofiche ispirate al marxismo libertario di Herbert Marcuse e a una visione anarchica della vita e delle relazioni sociali: l'artista era stato arrestato il 5 dicembre 1967 e il 14 luglio 1968 era stato condannato dalla Corte d'Assise di Roma a nove anni di reclusione; il 28 novembre 1969, dopo oltre un anno, la Corte d'Appello aveva ridotto la pena a quattro anni e nel 1971 la Corte di Cassazione aveva confermato la condanna. Braibanti, beneficiando di uno sconto di pena per meriti resistenziali, era stato rilasciato il 12 dicembre 1969. Negli anni della rivoluzione sessuale la storia aveva suscitato clamore e generato un clima di protesta, nonché le reazioni sdegnate di Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco, Alberto Moravia, Elsa Morante, Adolfo Gatti, Mario Gozzano, Cesare Musatti, Ginevra Bompiani nonché dei radicali di Marco Pannella. Braibanti sarà l'unico condannato nella storia italiana per il delitto di plagio.Successivamente, infatti, la legge era stata invocata contro Emilio Grasso, sacerdote appartenente al Movimento carismatico, accusato da alcuni genitori di aver plagiato i figli minorenni. Questa circostanza spinse il magistrato a chiedere alla Corte Costituzionale se la norma non contrastasse con i principi della Costituzione. Dopo la sentenza il sacerdote fu scagionato.

30.3.22

Eriksen e il gol dove il cuore si fermò, la dolce vendetta sul destino

 l centrocampista della Danimarca è andato a segno nel 3-0 in amichevole contro la Serbia. Una partita che si è giocata al Parken Stadium di Copenaghen, l'impianto dove il 12 giugno dello scorso anno l'ex Inter - che oggi gioca con un defibrillatore sottocutaneo - fu vittima di un arresto cardiaco e rischiò la morte

Un rientro con la Nazionale perfetto per Christian Eriksen che torna a vestire i colori della Danimarca nella sfida con l'Olanda - persa 4-2 - e segna dopo due minuti dal suo ingresso. Un sogno per il calciatore alla sua prima partita internazionale nove mesi dopo l'arresto cardiaco avvenuto durante il match partita del Campionato Europeo a giugno. L'Olanda ha vinto la partita per 4-2, ma il risultato dell'amichevole è sembrato quasi irrilevante per il pubblico della Johan Cruyff Arena dove Eriksen è tornato alla ribalta sulla scena internazionale, andando a segno poco più di due minuti dopo l'ingresso in campo da sostituto nel secondo tempo: suo il potente tiro che ha portato i danesi sul momentaneo 3-2
Lo stesso stadio, lo stesso prato. Forse, inv parte, anche lo stesso pubblico. Soltanto la curva è quella opposta. Quando il 12 giugno 2021 il cuore di Christian Eriksen si fermò nella gara d'esordio dell'Europeo contro la Finlandia, l'azione era nel lato Sud del Parken Stadium di Copenaghen dove Christian è tornato per l'amichevole contro la Serbia, tre giorni dopo il rientro (con gol al primo tocco, dopo appena due minuti) in Nazionale contro l'Olanda. Ma questa volta c'era qualcosa in più, cioè il luogo. Quello di un terribile dramma sfiorato, e di una vita diversa che ora può ricominciare.
La fascia e il gol
Contro la Serbia, Eriksen ha giocato dall'inizio e con la fascia di capitano al braccio, ed è rimasto sul terreno per 80 minuti. Al 22' del secondo tempo ha segnato il gol magnifico: destro dalla lunetta a fil di palo, imparabile. Una prodezza simile a quella inventata contro gli olandesi. Anche stavolta, e ancor più che ad Amsterdam, è seguita un'ovazione: quasi la parola fine allo shock collettivo di giugno, quando soltanto il defibrillatore permise al cuore di Christian di ripartire.

Lo stesso stadio, lo stesso prato. Forse, in parte, anche lo stesso pubblico. Soltanto la curva è quella opposta. Quando il 12 giugno 2021 il cuore di Christian Eriksen si fermò nella gara d'esordio dell'Europeo contro la Finlandia, l'azione era nel lato Sud del Parken Stadium di Copenaghen dove Christian è tornato per l'amichevole contro la Serbia, tre giorni dopo il rientro (con gol al primo tocco, dopo appena due minuti) in Nazionale contro l'Olanda. Ma questa volta c'era qualcosa in più, cioè il luogo. Quello di un terribile dramma sfiorato, e di una vita diversa che ora può ricominciare.
La fascia e il gol
Contro la Serbia, Eriksen ha giocato dall'inizio e con la fascia di capitano al braccio, ed è rimasto sul terreno per 80 minuti. Al 22' del secondo tempo ha segnato il gol magnifico: destro dalla lunetta a fil di palo, imparabile. Una prodezza simile a quella inventata contro gli olandesi. Anche stavolta, e ancor più che ad Amsterdam, è seguita un'ovazione: quasi la parola fine allo shock collettivo di giugno, quando soltanto il defibrillatore permise al cuore di Christian di ripartire.
Gioca con un defibrillatore
A una settantina di metri dal settore di campo in cui Eriksen crollò, si è dunque consumata una piccola vendetta sul destino, nonostante la situazione fisica del numero 10 danese resti piuttosto precaria. Per poter giocare e non rischiare un'altra aritmia, infatti, gli è stato applicato un defibrillatore sottocutaneo, una specie di centralina elettrica che regola gli impulsi del muscolo cardiaco e evita i "cortocircuiti". Secondo le norme sanitarie italiane, non può essere concessa l'idoneità agonistica ai portatori di questo tipo di apparecchiatura. Non così in altre nazioni come l'Olanda, la stessa Danimarca e l'Inghilterra, dove Eriksen ora gioca, con la maglia del Brentford. Paradossalmente, l'ex interista potrebbe disputare una finale mondiale in alcune di queste nazioni, meno rigorose dal punto di vista sanitario, ma non giocare in un qualunque torneo italiano, neppure tra i dilettanti. Ed è il motivo per cui l'Inter non ha potuto tenere Eriksen tra i propri tesserati.
"Mi sento di nuovo un calciatore"
Tra gli specialisti in cardiologia, il parere non è unanime. Una pallonata potrebbe danneggiare il defibrillatore, e innescare una crisi cardiaca anche fatale. Christian Eriksen non teme una cosa del genere, o forse preferisce non pensarci: "Finalmente mi sento di nuovo un calciatore, questo soltanto conta per me". La Danimarca ha battuto la Serbia per 3-0, proprio nello stadio vicino all'ospedale dove Eriksen venne ricoverato dopo la crisi, e dal quale ascoltò i cori che i tifosi gli dedicarono nella seconda gara dell'Europeo. Quel giorno, tuttavia, nessuno poteva immaginare che dopo appena 290 giorni il campione sarebbe tornato, su quello stesso campo, segnando addirittura un gol. Un gesto dall'enorme valore simbolico, un augurio e una speranza. Ma anche un nuovo ricordo da sovrapporre a quel giorno tremendo, per mandarlo via.

Carol Maltese uccisa due volte [ reprise UCCISA E DEMONIZZATA MEDIATICAMENTE IN UNA SOCIETA’ MORALISTA] adesso ci si mette anche il comico l'humor nero non gli s'addice pietro diomede comico

leggere prima  iniziare la 1° parte

Neppure io che uso , con risultati altalenanti e cadute di cinismo , l'ironia ( ed l'auto ironia ) come arma contro le brutture della vita reputo questa battuta fuori luogo e poco rispettosa . Io non arriverei a tanto . Infatti Nella vergognosa narrazione ( vedi precedente post trovate l'url in cima al post ) con cui in queste ore molti media hanno raccontato il femminicidio di Carol Maltesi , vedere post precedente trovate sopra l'url , c’è chi è riuscito a fare addirittura di peggio. Si tratta di tal Pietro Diomede, sedicente comico, che ha commentato così, con questo tweet immondo a dir poco , la notizia, nel misero tentativo di dire “esisto” nonché promuovere la sua partecipazione al prossimo Zelig. Qual è la buona notizia in questo scempio? Direte voi. Le proteste e l’indignazione sono state talmente forti ed indignate che Zelig

ha dovuto cancellato il suo nome da ogni programmazione. Perché questa non è né una battuta né satira, è solo immondizia con rispetto per l'immondizia e mostruoso sciacallaggio. Meglio tardi che mai.
















Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona e il seguente testo "Pietro Diomede @PD... 18h Che il cadavere di una Pornostar fatto a pezzi venga riconosciuto dai tatuaggi e non dal diametro del buco del culo non gioca a favore della fama della vittima. #CharlotteAngie #CharlotteAngie #carolmaltesi #DavideFontana"


l'humor nero non gli s'addice . Egli fa battute sul filo del rasoio . Egli dovrebbe , e non risulta che  fin ora lo abbia fin ora fatto , chiedere scusa ai familiari della povera Carol e non solo limitarsi a cancellare dai suo twitter il post anzi meglio i post visto che ne fece un altro cinico  su Bebe Vio.
Solo cosi la questione sarà chiusa e cadrà il silenzio e il fango ed la povera carol riposerà in pace ed  imparerà   spero che “Fare i simpatici” facendo riferimento a tragedie come quella avvenuta a Carol Maltesi o su una dolorosa vicenda personale, come quella di Bebe Vio, è da sciacalli e non può esistere alcuna giustificazione in nome di una presunta libertà di satira, perché una satira che sia realmente tale dovrebbe  schernisce i potenti, mette in ridicolo i tic della società, colpisce in generale categorie di persone “forti”   soprattutto  

«Il patriarcato è finito. Violenze in aumento per l’immigrazione illegale»: il discorso di Valditara alla Fondazione per Giulia Cecchettin. se stava zitto faceva più bella figura

«Occorre non far finta di vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e devianza, in qua...