15.4.22

si cerca personale per la stagione estiva ma non se ne trovano ”. Imprenditori e chef si lamentano sui giornali, ma senza dire le condizioni proposte

 

51 m 

"I ragazzi hanno perso il valore del lavoro: io da giovane raccoglievo le mele per due soldi, e lo facevo con passione. Adesso l’obiettivo è opposto, non lavorare. Lo ripeto: colpa del reddito di cittadinanza, una vera catastrofe"Flavio Briatore si schiera con Alessandro Borghese dopo le polemiche per le frasi su giovani e lavoro. Poi svela quanto paga i suoi dipendenti: https://fanpa.ge/Inqup

DI FRASI come queste se ne trovano decine: è il racconto del lavoro nella ristorazione che viene premiato sui media tradizionali. Poi c’è la realtà, l’altro lato della barricata. I numeri: nell’italia in uscita dalla pandemia, il settore alberghiero e della ristorazione è penultimo nella classifica delle retribuzioni (peggio solo l’agricoltura) e ai primi posti per utilizzo di personale irregolare (numeri della Fondazione Di Vittorio, anno 2021). Le imprese del turismo hanno quasi un terzo dell’organico con contratti part time (28,7%), il 70% dei quali involontari. Anche le testimonianze dello sfruttamento quotidiano, della negazione dei diritti basilari, del lavoro al di fuori della legge e al di là della decenza sono ampiamente documentate da chi le ha subìte, basta andarle a cercare. Il Fatto  Quotiiano  (  FQ  ) ha parlato con un giovane capo partita di una cucina stellata di Milano: un lavoratore più che qualificato, con una responsabilità importante. “Come molti colleghi – racconta, sotto promessa di anonimato – per accedere alle cucine degli stellati ho seguito una scuola di alta formazione gestita dallo stesso chef del ristorante. Queste scuole costano tra i 10 e i 15mila euro. I partecipanti vengono poi impiegati in quelle cucine da stagisti, per completare l’abilitazione, al posto di chi va in ferie. Gratis o con rimborsi spese di 200 o 300 euro. Per i più bravi, che vengono presi, si lavora con turni massacranti, dalle 9 alle 23. Io, da capo partita, svolgo anche le seguenti mansioni: carico e scarico merci e pulizia della cucina. Lavoro 7 giorni su 7, guadagno 1.200 euro al mese, senza straordinari, inquadrato come lavapiatti. Così sul mio contratto pagano meno tasse”. 

Va detto che i ristoratori non fanno tutti Borghese o Briatore di cognome, e spesso pagano i dipendenti con cifre da miseria, quando li pagano. Non generalizzerei, e non starei sempre a dare degli scansafatiche ai giovani.
Il fil rouge che collega tutti interventi ed  dichiarazioni   di  chi   se la prendono con il Reddito o quelli che accusano direttamente i candidati  alle  offerte  di  lavoro  è uno: non vengono mai citate le condizioni contrattuali che vengono proposte ai lavoratori né si ritrovano mai in rete annunci di lavoro postati dagli imprenditori che rilasciano queste interviste ( vedi il leggi anche riportato ad inizio post ) Dieci ore al giorno, se va  bene, sei giorni su sette. Lo stipendio? Forfettario e pagato in parte con bonifico e in parte in contanti. Ovvero in nero. Questo è solo un esempio delle offerte di lavoro in cui si imbattono i lavoratori della ristorazione e del turismo in cerca di un impiego per la stagione. “Non riusciamo a trovare personale”. “Il reddito di cittadinanza ha rovinato il mercato”. “Cerco camerieri e non li trovo”. Da settimane sui quotidiani di tutta Italia è tornata a farla da padrone la sempreverde campagna contro i giovani che non hanno voglia di lavorare, edizione “mancano lavoratori per la stagione estiva”.In coda alla sequela di protesta di ristoratori e albergatori che si lamentano di non trovare dipendenti per le proprie attività, a mettere il carico da 90 sulla classica polemica di inizio primavera è stato uno degli chef televisivi più famosi d’Italia: Alessandro Borghese. In un’intervista concessa al Corriere della Sera, h
a dichiarato di essere alla perenne ricerca di collaboratori “ma fatico a trovare nuovi profili”. E poi, ancora: “Sarò impopolare, ma non ho alcun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati. Io prestavo servizio sulle navi da crociera con “soli” vitto e alloggio riconosciuti. Stop. Mi andava bene così: l’opportunità valeva lo stipendio. Oggi ci sono ragazzetti senza arte né parte che di investire su se stessi non hanno la benché minima intenzione”.  Sarà   vero   anche  se  genmeralizzato   che    c'è  gente  pigra  e poco incline  al  sacrificio  , ma   Borghese(e  chissà anche  gli altri    se    andiamo a farli le  pulci  )  omette dettagli della sua biografia che potrebbero aiutare a decifrare il contesto: è figlio dell’attrice Barbara Bouchet e dell’imprenditore Luigi Borghese, si è diplomato all’american Overseas School of Rome, una scuola privata che costa poco meno di 25mila euro l’anno. L’agiatezza familiare non è una colpa, sia mai, ma   dovrebbe  consigliare prudenza a chi parla di lavoro gratuito  ed  mancanza  di sacrifici   da parte  dei giovani  
ILfil rouge,  come  dice   il FQ che collega tutti gli articoli di quello che ormai è divenuto un vero e proprio genere letterario è uno: non vengono mai citate le condizioni contrattuali che vengono proposte ai lavoratori né si ritrovano mai in rete annunci di lavoro postati dagli imprenditori che si lamentano sui giornali. Molto spesso, le febbrili ricerche di cui raccontano si limitano alla pubblicazione di sintetici post su Facebook. Fine dello sforzo, che secondo loro dovrebbe essere ricompensato dall’arrivo di decine di curricula. Raramente i quotidiani che raccontano le vicissitudini degli imprenditori del settore della ristorazione e del turismo danno voce all’altra parte in causa, i lavoratori, chiedendo che tipo di proposte in media ricevano per coprire la stagione, estiva o invernale che sia.
COSA OFFRE IL MERCATO – “La maggior parte delle volte le offerte vengono esplicitate per telefono oppure dal vivo, senza lasciare prove. Capita però che alcuni datori di lavoro scrivano via mail nero su bianco condizioni che hanno ben poco di legale”. Daniele sta cercando lavoro per la stagione estiva e recentemente si è imbattuto in due offerte particolari arrivate da due hotel 4 Stelle. La prima struttura, sul Lago di Garda, cercava un pasticciere che lavorasse 10 ore al giorno per 6 giorni su 7. Sessanta ore di lavoro a settimana. “Non ho idea del compenso perché mi sono fermato quando ho letto che proponeva uno stipendio tutto incluso, dunque comprendente di tfr, ferie, 13sima, 14sima per aumentare il compenso mensile, da pagare tramite bonifico e una parte in contanti. Mi sono fermato a questa proposta, scritta nero su bianco come fosse una cosa normale”.
Il secondo hotel, sempre un 4 stelle, è una struttura di Bellaria piuttosto conosciuta. “Mi ha offerto 1900 euro al mese, sempre omnicomprensivi di tutto, per lavorare come capo partita sette giorni su sette, mattina, pranzo e cena, quindi almeno 12 ore al giorno – racconta Daniele – Alla mia richiesta di avere almeno un giorno libero a settimana, mi hanno risposto che il compenso si sarebbe abbassato a 1600 euro al mese. Sempre per 12 ore al giorno. Questo è quello che si trova in giro”.
“E POI MI DICONO CHE NON VOGLIO LAVORARE” – Un caso? Non esattamente. E date le esperienze passate e le offerte sempre peggiori che girano nell’ambiente, Daniele sta pensando di abbandonare il settore: “Onestamente, dopo anni di sacrifici, mi sono accorto che non vivo più, soprattutto facendo il paragone con amici che hanno lasciato la ristorazione. Loro hanno sabato e domenica liberi, ferie pagate, otto ore al giorno. Io mai avuti questi ‘privilegi’”, si sfoga. “Ho lavorato 13 ore per 20 euro a Ferragosto 2020, dopo il periodo della prima ondata Covid con la scusa che ‘la pandemia ha colpito tutti, ora questi sono i compensi’. Sto valutando di lasciare il settore perché non riesco a trovare nessuno che garantisca il minimo. Non ho mai percepito tredicesima, a volte nemmeno il TFR. Può un ragazzo rivolgersi sempre ad un avvocato per ricevere quello che gli spetta e poi essere etichettato come uno che non ha voglia di lavorare?”, conclude.









14.4.22

Oltre 215mila beni sequestrati alle mafie, ma l'arma della confisca è spuntata da burocrazie e risparmi

 da republica  online 

Le misure di prevenzione patrimoniale, introdotte dalla legge Rognoni-La Torre e oggi disciplinate dal codice antimafia (artt. 16 ss.) costituiscono uno strumento fondamentale nel contrasto alla criminalità organizzata, perché consentono di
acquisire i patrimoni accumulati con i proventi di attività illecite. Il sequestro (si tratta di oltre 215.000 beni dal 1997 al 2020, che non includono peraltro quelli sequestrati nei processi penali ordinari: soprattutto immobili, ma anche autovetture, aziende etc.) non solo colpisce la forza economica dei clan mafiosi ma ne indebolisce la capacità di infiltrazione nel tessuto economico e sociale ed il consenso fondato sulla distribuzione di posti di lavoro.

Le disposizioni del codice antimafia acquistano ancora più importanza se si considera che la perdita dei beni viene percepita dalle organizzazioni criminali, come risulta dalle intercettazioni telefoniche, in termini addirittura superiori alle stesse misure di custodia cautelare o di condanna penale, per la perdita di prestigio sociale e di potere di fronte agli associati. Un ulteriore salto di qualità è rappresentato dalle norme che prevedono la destinazione di beni simbolo del potere criminale per fini di utilità pubblica o sociale, offrendo così nuove opportunità di lavoro e di sviluppo sociale nei territori dove sono ubicati.

La procedura di confisca e destinazione dei beni

Il sequestro dei beni appartenenti ai boss mafiosi è disposto dalla sezione misure di prevenzione del tribunale: nel periodo 2010-2020 si registra una media annua di 500 nuovi procedimenti di prevenzione (che riguardano generalmente una pluralità di beni), con una crescita significativa, negli ultimi anni, delle misure di prevenzione adottate dagli uffici giudiziari dell’Italia settentrionale, a ulteriore conferma della forte presenza delle organizzazioni criminali in aree diverse da quelle di radicamento tradizionale. Molto rilevanti i dati sulle confische relative a beni ubicati nel Lazio (e soprattutto a Roma) e in Sicilia.

Con il sequestro il bene è sottratto alla disponibilità dei loro proprietari;  viene contestualmente nominato un amministratore giudiziario per la gestione provvisoria e la manutenzione ed il giudice competente a coordinare e verificarne l’attività. Si tratta di una fase molto importante perché occorre risolvere una serie di rilevanti problemi. Per i beni immobili si devono verificare i diritti dei terzi (ad esempio il bene può essere occupato dal nucleo familiare del soggetto cui il bene è stato confiscato o da un soggetto agli arresti domiciliari) e lo stato dei beni (sanatoria degli abusi esistenti, realizzazione delle opere di ristrutturazione e manutenzione, messa a norma degli impianti etc.). Per le aziende si tratta di riavviare in tempi brevi l’attività, procedendo anche alla liquidazione dei creditori, superando le difficoltà che emergono spesso per l’interruzione delle linee di credito e per il “costo” derivante dalla “emersione dalla illegalità”: le aziende confiscate sopravvivevano spesso in situazioni di palese illegalità (lavoro nero o comunque irregolare, con mancato versamento contributi; evasione fiscale; emissione di fatture false; inosservanza delle disposizioni sulla sicurezza dei luoghi di lavoro; riciclaggio proventi illeciti, assenza di scritture contabili), rappresentando perciò un ostacolo alla libera concorrenza, con danni rilevantissimi per le imprese che invece rispettano tutti gli adempimenti previsti dalle norme di legge.

Quando la confisca è definitiva  l’Agenzia nazionale per i beni confiscati può procedere alla destinazione dei beni agli enti locali o ad altre amministrazioni pubbliche a fini istituzionali o sociali, a seguito di un’attenta valutazione delle manifestazioni d’interesse e dei progetti di riutilizzo da parte dei soggetti interessati; i beni possono essere gestiti direttamente oppure affidati in concessione, tramite avviso pubblico, alle associazioni che ne fanno richiesta; gli immobili potranno essere anche locati a persone che versano in particolare condizione di disagio economico e sociale. La legge prevede inoltre possibilità di vendita al miglior offerente: le ipotesi più frequenti sono quelle delle aziende che non risultano in grado di sopravvivere in una condizione di piena legalità ovvero di immobili non riutilizzabili perché in pessime condizioni. Si ricorre inoltre alla vendita per soddisfare le richieste legittime dei creditori.

Aspetti problematici

Come affermato dal ministro della Giustizia in Commissione antimafia, Marta Cartabia, “l’Italia è considerata dagli altri Paesi un modello nella lotta alle mafie…. la legislazione riguardante la gestione dei beni tolti ai criminali è considerata da tutti un patrimonio e un pilastro fondamentale, sia per la sua capacità effettiva di generare ricchezza, sia anche per il suo valore simbolico. Un bene, un’azienda, un immobile sottratto alla criminalità organizzata e restituito alla collettività è un messaggio forte che lo Stato manda alle organizzazioni criminali e soprattutto ai cittadini”.

Peraltro, a fronte dell’enorme patrimonio dei beni sequestrati alle organizzazioni mafiose, e l’impegno della magistratura nell’esecuzione delle indagini patrimoniali realizzate nei procedimenti di prevenzione, sono emersi una serie di rilevanti problemi, che hanno ostacolato una compiuta attuazione della normativa. 

Un primo elemento negativo, ai fini di una esatta valutazione dei meccanismi di sequestro e riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie, è rappresentato dalla mancata integrazione dei diversi sistemi informativi, che ostacola anche la trasmissione in via telematica della documentazione tra le diverse amministrazioni; come affermato dalle stesse relazioni semestrali del ministero della giustizia (l’ultima relazione riporta i dati disponibili al 31 dicembre 2021), i dati della Banca centrale del ministero sono ancora largamente incompleti, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, e non consentono di avere un quadro effettivo ed aggiornato della situazione processuale dei singoli beni oggetto di sequestro e dei problemi emersi nel corso della gestione provvisoria né di conoscere puntualmente il loro valore. 

Un secondo aspetto riguarda i tempi estremamente lunghi che intercorrono tra il primo sequestro, la confisca e la destinazione finale del bene, che favoriscono in molti casi il degrado e l’occupazione abusiva dei beni (si registrano anche atti di vandalismo da parte dei soggetti a cui l’immobile è stato sequestrato) e quindi pregiudicano il loro successivo riutilizzo; la celerità delle procedure assume ancora più importanza con riferimento alle aziende sequestrate. In base ai dati dell’ultima relazione del ministero della giustizia il 41% dei sequestri è poi oggetto a confisca; e, rispetto al totale dei beni confiscati, la percentuale di quelli effettivamente destinati è inferiore al 10 per cento. 

Procedure farraginose

Ciò è dovuto, innanzitutto, alla complessità delle procedure (la recente relazione della Commissione antimafia formula una serie di proposte per coniugare efficienza e trasparenza delle procedure con la tutela dei soggetti che subiscono il sequestro) e alle carenze dei sistemi informatici; inoltre, solo a molti anni di distanza dalla sua istituzione (2010), si sta finalmente procedendo alla copertura integrale dei larghi vuoti di organico dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, ciò che ha avuto inevitabili riflessi negativi sull’attività istruttoria necessaria per una sollecita e corretta individuazione della migliore destinazione. Sarebbe inoltre molto utile un maggior ricorso all’assegnazione provvisoria dei beni immobili, al fine di evitare il loro degrado e l’accumulo di debiti dovuti al mancato pagamento delle rate condominiali.

Ed ulteriori rilevanti problemi emergono anche con riferimento ai beni che sono formalmente affidati alle Regioni, agli enti locali ed alle altre amministrazioni ma che non risultano però riutilizzati (una prima stima elaborata dall’Agenzia per i beni confiscati indica una percentuale di beni effettivamente riutilizzati del 50%). Ciò è dovuto all’insufficiente preparazione ed interesse delle amministrazioni locali, in particolare quelle di piccole dimensioni (le amministrazioni locali spesso non conoscono nemmeno i beni disponibili nel proprio territorio: a febbraio 2021 poco più di un terzo degli enti locali interessati aveva chiesto l’accesso alla banca dati dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati) e all’assenza di adeguati finanziamenti per i progetti di riutilizzo sociale: in mancanza di risorse economiche per le spese di ristrutturazione e gli oneri di gestione, le associazioni non partecipano alle gare ovvero restituiscono in tempi brevi il bene loro assegnato.

Le risorse da sbloccare

Da questo punto di vista, in aggiunta ai finanziamenti già previsti dal PNRR, dai fondi europei e dalle leggi ordinarie (tuttora utilizzati sono parzialmente), nonché alle risorse messe a disposizioni dalle Fondazioni, appare essenziale risolvere il problema dell’utilizzo delle risorse liquide confluite nel Fondo Unico Giustizia (denaro, valori e titoli sequestrati, somme derivanti dalla vendita degli immobili etc.), che ammontano ad una cifra complessiva di oltre 4 miliardi di euro, destinando una quota consistente di tali risorse al riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie nonché a soddisfare i creditori in buona fede. Andranno inoltre utilizzate le opportunità previste dalla legge di ricorrere a forme consortili tra i comuni o di “mettere a reddito” i beni immobili destinati, rispettando naturalmente il vincolo di destinazione a fini sociali della relativa rendita finanziaria. Ed è importante altresì che la manifestazione di interesse degli enti locali sia sempre preceduta (e non seguita) da una verifica della effettiva disponibilità dei soggetti privati interessati, in modo da fondare su basi concrete il progetto di riutilizzo del bene. Da questo punto di vista va vista con favore l’istituzione di momenti di confronto tra amministrazioni statali, regionali, locali e associazioni del terzo settore che faciliti la predisposizione di progetti di riutilizzo dei beni socialmente validi e realmente sostenibili: un esempio significativo è rappresentato dal Forum cittadino sulle politiche in materia dei beni confiscati alla criminalità organizzata di Roma capitale

Un’attenzione particolare merita sicuramente il tema della riconversione delle aziende confiscate. I dati sul campione di 2.796 aziende, già in gestione dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, evidenziano una fortissima presenza di imprese collegate alla criminalità organizzata nei settori dell’edilizia, del commercio e dei servizi di alloggio e ristorazione.

In questo ambito un impegno specifico merita il riutilizzo dei terreni agricoli confiscati alla criminalità organizzata, che assume una rilevanza ancor maggiore nell’attuale fase di crisi internazionale degli approvvigionamenti alimentari. Come già detto, si pone per molte di tali aziende un “costo della emersione dall’illegalità”: le difficoltà nel reperire le risorse necessarie per il riavvio dell’attività in un sistema concorrenziale conduce spesso alla liquidazione delle imprese, a partire da quelle a conduzione familiare e alle ditte individuali. Si tratta di un tema molto importante, che necessita l’adozione, da parte degli amministratori giudiziari, di misure tempestive di rilancio dell’’impresa, perché il sequestro determina inevitabilmente un rapido processo di deterioramento della situazione finanziaria ed economica, con conseguenti riflessi negativi dal punto di vista occupazionale.

Si corre cioè il rischio che l’intervento dello Stato, agli occhi dei lavoratori dell’azienda sequestrata, sia percepito come la causa della perdita del posto di lavoro e non costituisca invece l’occasione per ottenere finalmente condizioni di lavoro e di retribuzione regolari. Anche a tale proposito la relazione della Commissione antimafia illustra alcune misure utili a garantire il mantenimento delle linee di credito per le aziende confiscate che hanno avviato il percorso per un ritorno alla legalità. Storie di mafia assicurerà un costante lavoro di informazione sullo sforzo compiuto da tante amministrazioni pubbliche ed associazioni per assicurare nuovi servizi alla collettività tramite il riutilizzo dei beni confiscati.

 

13.4.22

I no vax che speculano sulla morte di Mariasofia Paparo, la nuotatrice stroncata da un infarto a 28 anni La giovane nuotatrice del Circolo Posillipo di Napoli Mariasofia Paparo è morta a 28 anni per un infarto, generando ondate di commenti antiscientifici da parte dei no vax



Mariasofia Paparo aveva quasi 28 anni, cresciuta a San Giorgio a Cremano (Napoli), si stava per laureare e poi sposare col suo Matteo, una carriera da nuotatrice professionista e una vita davanti.
Un infarto l’ha portata via all’improvviso. Un dolore indicibile. La fatalità ha sorpreso tutti, tranne i no vax, che sono immediatamente accorsi per collegare il decesso al fatto che la giovane fosse vaccinata.
I  quali   che ci crediate o meno, in questo esatto momento sui social orde di no-vax (che non sono spariti, purtroppo) stanno banchettando  come  potete  vedere    dagli screenshot cher riporto sotto su questa tragedia straparlando di “strane correlazioni”, “sieri sperimentali”, addirittura dando esplicitamente la colpa al ministro della Salute Speranza. Hanno avuto più , almeno fin ora , i pro- vax oltranzisti , visto che Secondo fonti vicine alla famiglia della giovane nuotatrice, deceduta per un infarto a 28 anni,  non era vaccinata per una non meglio spiegata patologia non correlata alla sua morte. Cadono sul nascere così le voci che si sono alimentate intorno alla possibile correlazione tra il farmaco e l’episodio cardiaco che ha causato la sua morte prematura.
Neanche di fronte a una ragazza di 28 anni morta di infarto si fermano.



 
Mi auguro solo che questi miserabili vengano denunciati, identificati e paghino tutto questo scempio, dal primo all’ultimo.
Alla famiglia la più totale vicinanza personale e umana.



I no vax che speculano sulla morte di Mariasofia Paparo, la nuotatrice stroncata da un infarto a 28 anni


Non contano i dati scientifici che non hanno evidenziato alcuna correlazione tra episodi cardiaci a lungo termine e vaccino anti-Covid, così come nessuno si è soffermato a capire se Paparo fosse effettivamente immunizzata contro il virus: l’importante per alcuni soggetti è ribadire le proprie idee antiscientifiche piegando i fatti per farli aderire alle proprie tesi. “Quante dosi del siero sperimentale?”, chiede qualcuno, mentre altri si lanciano in analisi statistiche da cameretta: “Non si contano più i giovani atleti con problemi cardiaci.

Il fenomeno è talmente macroscopico da non poter essere nascosto”. La peculiarità di queste persone è additare di essere propagatori di “fake news” le testate quando parlano di vaccini e Covid per poi basarsi su notizie diffuse dagli stessi giornali per propaganda personale. Sono in molti ad invocare un processo allargato a tutti i membri dell’esecutivo, mentre il più bersagliato è il ministro della Salute, Roberto Speranza.


Quindi  Cari - si fa per dire - No-vax, avete sciacallato per 24 ore sul nulla, avete banchettato su una tragedia immane, sulla pelle di una giovane donna e del dolore della sua famiglia per dimostrare una correlazione delirante e inesistente. Non ci sono parole in grado di rendere l’idea di tanta miseria. Vi auguro di provare vergogna, anche se ne ignorate il significato. Chiedete scusa se potete ed avete lo stesso coraggio che avete avuto nel speculare sulla sua morte alla famiglia, solo questo.E poi cali il silenzio.

12.4.22

Menù senza prezzi per le donne: galanteria o sessismo velato ?


La denuncia social di Abbie Chatfield, influencer australiana, ha riacceso il dibattito mai sopito del tutto sui menù senza prezzi  o blond menù per le donne presenti in alcuni ristoranti italiani. Approfondiamo la questione e proviamo a trarre qualche conclusione in merito.





Il suo intervento ha riaperto l’annosa e dibattuta questione dei blind menù, menù senza prezzi solitamente rifilati alle donne in alcuni dei ristoranti più prestigiosi e patinati della penisola. 
Per alcuni si tratta di un gesto di galanteria nei confronti di quello che, anacronisticamente parlando, è ancora considerato il “gentil  sesso”. Per altri, invece, proprio in ragione di ciò, è una pratica sessista che andrebbe estirpata. Mi sembra  assurdo   che nel  2022 che  una  donna   venga  considerata  non in grado   di poter scegliere  di  pagare  una  cena  o  un pranzo al proprio uomo .
Tra i sostenitori , oltre me    comune    mortale  ,di questa tesi,  c'è appunto  Abbie Chatfield, noto volto del web e della tv australiana, che qualche giorno fa ha “denunciato” via Instagram un rinomato ristorante veneziano per averle consegnato un menù senza prezzi. La denuncia social dell’influencer ha riacceso il dibattito sulla questione.
Infatti  «La denuncia a mezzo social ha raccolto » come dice quest articolo del sito alfemminile.com « parecchi consensi, ma anche qualche critica, soprattutto da parte di utenti italiani che hanno intimato all’influencer di “prendere lezioni di educazione”, considerando i blind menù una soluzione di cortesia. A costoro, Chatfield ha chiesto, invece, di ammettere una volta per tutte che si tratta di un gesto sessista, fondato sulla credenza sbagliata e ormai obsoleta che siano sempre gli uomini a pagare la cena alle donne e mai viceversa.»
Putroppo ’influencer australiana non è il primo personaggio pubblico a indignarsi sui social per il trattamento ricevuto tramite la consegna di un blind menù. Già a novembre, Augustina Gandolfo, modella argentina nonché moglie del calciatore dell’Inter Lautaro Martinez, lamentava di aver ricevuto un menù senza prezzi durante una cena in un elegante ristorante nel centro di Milano. Dopo l’episodio, Gandolfo aveva pubblicato uno sfogo su Instagram, scrivendo : 
“"Lo sapevate che in Italia in diversi ristoranti non mettono i prezzi sul menu che danno alle donne? E se volessi pagare io? Sono indignata. La cosa peggiore è che molti italiani giustificano questo fatto dicendo che succede solo nei ristoranti di un certo livello. E quindi le donne non possono pagare se si tratta di una cena più costosa?".

Ecco quindi che se, se per qualcuno potrebbe sembrare un gesto galante, per molte donne si tratta invece di un’umiliazione. Dietro al blind menù si celerebbe, appunto, l’assunto per cui le donne non sarebbero in grado di pagare una cena, specie se esclusiva e sontuosa, per sé e per i propri ospiti o, forse peggio, quello stereotipo che considera le donne al pari di “parassite”, “mantenute” e “gold digger”.
Allora Cosa non va nei blind menù? che questa pratica  viene  d'alcuni considerata  assimilabile alla rimozione dell’etichetta col prezzo quando si fa un regalo. La differenza? In quel caso, la persona che fa il regalo comunica apertamente le proprie intenzioni al commerciante che provvederà a togliere il cartellino. In realtà quando si parla di blind menù, invece, non vi è alcuna esplicita richiesta e, nella stragrande maggioranza dei casi (se non in tutti), la persona che riceve il menù completo di prezzi è sempre di sesso maschile, poiché il cameriere  generalmente  dà per scontato che sia lui a offrire la cena e mai la donna.

Dunque, dove sta il giusto? L’ideale sarebbe quello di garantire la massima trasparenza a tutti i commensali, senza dare per scontati dettagli o intenzioni mai esplicitati. Tuttavia, qualora si voglia mantenere questa usanza (  secondo  me  ormai anacronistica   se  viene applicata   in questo caso come è successo   solo  alle   donne  o solo  a  gli uomini )  in segno di galanteria, il consiglio che diamo al personale addetto alla sala è quello di chiedere a tutti i clienti, qualunque sia il loro genere, se hanno questo particolare desiderio già in fase di prenotazione o accoglienza nel locale e, solo in caso di risposta affermativa, procedere in tal senso.

Ho detto sì alla cresima a un trans. Tutti hanno posto nella casa di Dio" Parla Don Antonio Borio, parroco torinese delle Stimmate di San Francesco d’Assisi ..

repubblica  11\4\2022

Aveva avuto il battesimo come una bambina, ma chiede la cresima come uomo. La

Diocesi di Torino autorizza il sacramento al fedele che ha affrontato un percorso di transizione sessuale. E Don Antonio Borio,  parroco torinese delle Stimmate di San Francesco d’Assisi, racconta perchè e come è stato contattato dal ragazzo.

 

Quando il ragazzo l'ha chiamata per cresimarsi, cosa ha fatto?

"Non conoscevo questo ragazzo. Quando mi ha contattato, ho chiesto alla Curia come procedere a livello burocratico. Così mi hanno risposto con un link che fa riferimento a una dichiarazione della presidenza Cei del 2003".

 

Qual era il problema per cui ha avuto dubbi?

"È un fatto giuridico. Il problema è che il nome al momento del battesimo non si può cambiare, va registrato così come è scritto sul certificato, se maschio o se femmina. Parlo della registrazione".

 

Quindi nessun dubbio legato al sesso?

"La scelta di ricevere alcuni sacramenti, come Comunione, Confessione e Cresima non dipende dal sesso. L'importante è restare nelle regole, tra queste che quelle che poi richiedono di registrare con nome originale. Poi certo tutti i sacramenti prevedono fede, ma non possiamo misurarla se una persona viene da noi e sente di essere a posto con Dio. Di certo non ci sono discriminazioni davanti al Signore per il sesso che uno ha. Lo diceva San Paolo, "Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero, non c'è più uomo né donna"". 

 

Ha sentito di recente il ragazzo?

"No, sono diversi mesi che non lo vedo più. So che ricevere il sacramento faceva parte di un suo cammino di fede ma ancora non l'ho cresimato, prima dovrà fare un cammino di preparazione, lo aveva iniziato ma poi interrotto. Non si è più fatto vedere e non ci siamo più parlati". 

 

È la prima volta che riceve una richiesta così?

"Dal '74 sono prete, ho 75 anni, l'età in cui si va in pensione. In passato sono stato a lungo a Caramagna, una bella comunità, ora da tempo sono a Torino e non mi era mai successo ma credo che siano episodi che capiteranno sempre di più. Dovremmo guardare soprattutto le persone, il mio compito è accompagnarle ed essere in contatto con loro, tutti hanno posto nella casa di Dio. Giuridicamente ci atteniamo alle regole che sono altre questioni ma la misericordia di Dio è per tutti. Per il resto ci vuole discrezione e rispetto per le scelte personali".

 

Può essere l'occasione per riflettere?  

"Sì più che parlare di scandalo potrebbe essere davvero il momento per fare una riflessione. Ma intendo una riflessione a livello teologico e giuridico. Rispettando, ripeto, le persone. Bisognerebbe avere sensibilità". 

Anche le donne hanno un ruolo nella costruzione dello stereotipo intorno al quale si è costruita una certa idea di maschio. E allora emerge l'esigenza di sfumare i confini e parlare di persone e tossicità di genere



leggi anche   
Mascolinità tossica, cos'è e perché è importante parlarne di BENEDETTA PERILLI15 Gennaio 2020

  da  repubblica  11\4\2022




Indefinito ma potente ed evocativo. Il concetto di mascolinità tossica sembra davvero comodo per contestare le vecchie idee di virilità, quelle che rimandano a comportamenti aggressivi e distruttivi ma anche offensivi e banalizzanti nei confronti delle donne. C'è davvero ancora tanto da riflettere. Potremmo chiederci però se questa formula così popolare basti per rappresentare i significati complessi che promette, se effettivamente aiuti le nostre conversazioni, se non sia diventata una specie di etichetta
generica per spiegare qualunque problematica legata alla mascolinità andando così a semplificare la complessità del reale. E allora emerge l'esigenza di sfumare i confini e parlare di persone e tossicità di genere
L'idea stereotipata del maschio
Nel tentativo di promuovere interventi volti ad aiutare gli uomini a liberarsi del peso della gabbia di genere, nel 2018 l'American Psychological Association ha indicato una serie di tratti tossici legati alla mascolinità tradizionale: sopprimere le emozioni e mascherare la vulnerabilità, apparire autonomi, capaci, competitivi e dominanti, usare l'aggressività per dimostrare di essere maschi, sentirsi portati ad accedere al corpo delle donne come segno di virilità, essere ipersessuali, eterosessuali e tendenzialmente omofobi.
Anni di ricerca hanno suggerito che in effetti l'ideologia maschilista è psicologicamente dannosa, non solo per le donne. La tossicità è riferita a quei valori, quelle credenze, quelle aspettative che ruotano intorno allo stereotipo del maschio, che si infiltrano così bene nel modo in cui uomini e donne stanno in relazione, che silenziosamente fiancheggiano la disparità, negano, minimizzano e normalizzano la violenza.
Che le donne del resto possono essere banalizzate, svalutate, oggettivate, ridicolizzate, toccate, prese, aggredite, violentate sono pensieri che stanno dentro la cosiddetta vita normale.
Quando le donne sostengono la tossicità
La tossicità però non sta solo nei fatti di cronaca orribili. Esiste un serbatoio enorme di tossicità subdola ed endemica, intrinseca ai rapporti tra i generi, in ogni ambito. Anche noi donne ne siamo spesso complici senza rendendocene conto. Quando assumiamo atteggiamenti complementari a quelli tossici maschili oppure li imitiamo per sentirci libere. Quando diamo per scontato i loro privilegi perché così è sempre stato, quando ci appropriamo spavalde di qualche vantaggio e ci sentiamo per questo tanto emancipate. Quando bolliamo come poco di buono una donna e come farfallone, cacciatore, seduttore, don giovanni, latin lover, playboy un uomo che fa le stesse cose. Quando ridiamo di un amico poco prestante, quando pensiamo che un maschio gentile, sensibile ed empatico sia gay, quando crediamo di non essere niente di più del nostro corpo, quando commentiamo una donna per come è vestita e non per quello che dice. Quando ci concediamo al nostro compagno senza volerlo perché lui ha dei bisogni, quando pensiamo che se ci ha messo le mani addosso è perché è geloso e ci ama tanto. Quando usiamo la nostra condizione per ottenere agevolazioni. Quando ridiamo a battute da spogliatoio, quando ci alziamo da tavola per servirli, quando sorridiamo se un sconosciuto ci dice bellezza, cara, tesoro, quando ci guardiamo allo specchio con gli occhi degli uomini e ci valutiamo sulla capacità di attrarli sessualmente, quando accendiamo la tv e ci sembra normale vedere belle ragazze-cornice che sgambettano sorridendo. Quando diciamo a nostra figlia che è una principessa e a nostro figlio di non fare la femminuccia, quando aspettiamo un uomo che ci svolti la vita. Quando è ovvio che, tra me e lui, sia io a rimanere a casa e a rinunciare alla carriera. Sono solo degli esempi.
Cosa si rischia parlando solo di mascolinità tossica
Così, inutile forse farne un esclusivo marchio maschile. La tossicità sta nella nostra quotidianità, nei nostri pensieri, nella nostra cultura. Se da un lato quindi questo concetto permette di puntare l'attenzione su fenomeni inquietanti e per questo è importante, dall'altro potrebbe banalizzare il discorso sulla mascolinità, riproducendo oltretutto, invece di smantellare, stereotipi. Possiamo dire forse che parlare di mascolinità tossica, sotto certi aspetti, è fare un discorso sessista perché è come dire che un dato gruppo sociale pensa in un dato modo ed è portato a fare date cose per il fatto di avere un dato corpo. Che esiste quindi un destino biologico. Mentre la scienza ci spiega molto bene che maschi e femmine agiscono in modo diverso non a causa delle caratteristiche biologiche ma delle rigide norme sociali create attorno alla femminilità e alla mascolinità.
Inoltre, come solleva Manolo Farci, professore di sociologia della comunicazione e dei media digitali presso l'Università degli studi di Urbino Carlo Bo in un articolo online sul sito Il Tascabile, l'espressione mascolinità tossica rischia di diventare un "concetto bulldozer", una scorciatoia concettuale sfruttata per spiegare qualunque fenomeno che intercetta la mascolinità, impoverendo così il dibattito pubblico. Suonando come un'accusa, un rimprovero, una critica, tra l'altro, può portare a polarizzare ancora di più gli atteggiamenti che vorremmo cambiare. E di allontanare gli uomini dal problema, Io non sono violento, la cosa non mi riguarda. È una formula che rischia di far passare l'idea che le cose possono migliorare solo se gli uomini cambiano il loro comportamento sviando da una riflessione più ampia sui limiti strutturali imposti da secoli di cultura patriarcale, espressione vecchia e sorpassata ormai in disuso ma ancora tanto attuale.
Del resto potremmo chiederci se quando gli uomini esibiscono tacchi e unghie smaltate stanno davvero combattendo contro la disparità, se depotenziare il macho, rendendolo più morbido e sensibile, voglia dire farlo diventare più aperto alla parità. Certi atteggiamenti provocatori possono aiutare a scalzare idee stantie, senza dubbio. Ma parlare solo di mascolinità da risanare, di femminilità da potenziare, di quale sia, tra i due mondi, il migliore non aiuta a cambiare del tutto le cose perché non prescinde appunto dai mondi. Anzi consolida modelli di genere, perpetua l'idea che esistono giocattoli, abiti, libri, bevande, comportamenti, gusti, pulsioni, parole, preferenze, emozioni, pensieri per uomini e per donne. Forse dovremmo parlare di narrazione tossica dei generi, sfumare i confini più che ridefinirli, pensare che ci sono persone, e non maschi e femmine, a fare le cose. Rinunciare all'idea che genere, orientamento sessuale ed espressione di genere coincidono. La realtà è molto più sfumata dei nostri pensieri.

Vittoria 42-0 per vincere il campionato provinciale dei giovanissimi

   sembra  una  fake news    invece   come dimostra  la  schermata  sotto presa da https://www.tuttocampo.it/Sardegna la notizia  è  reale  ed  vera

 tale  risultato clamoroso nell'ultima partita del campionato provinciale di giovanissimi di Nuoro durante nella partita Fanum Orosei - La Caletta con la formazione di casa che vince 42 a 0. 

Ecco che A scuotere il calcio non sono solo i casi di razzismo, i bilanci taroccati dei club, le liti in campo tra giocatori, le risse verbali tra dirigenti o le proteste esagerate verso gli arbitri. Fanno notizia, eccome se la fanno, anche vittorie con punteggi che assumono proporzioni improbabili per il mondo del pallone. Ancora di più se questo succede a livello giovanile, dove lo sport dovrebbe essere vissuto come divertimento, senza l’assillo del risultato, ossessione di un mondo professionistico dove si deve fare business.
I fatti. Campionato provinciale giovanissimi del comitato Figc di Nuoro. La partita è Fanum Orosei-La Caletta. La formazione ospite schiera solo dieci giocatori, tutti della categoria esordienti (di due anni o più più piccoli degli avversari). Vince la squadra di casa 40-0. Agli oroseini sarebbero bastate 35 reti per conquistare il primo posto a spese della Lupi di Goceano Bono. Questo perchè le due squadre hanno finito la stagione a pari punti (33), con un successo per parte negli scontri diretti e con la stessa differenza reti negli scontri diretti. Così la differenza reti generale è diventata fondamentale per assegnate la vittoria. La settimana precedente erano stati i “Lupi” a dilagare con la Caletta: 22-0. E già questo “strano” risultato aveva scatenato le prime polemiche.
Richieste. Le due società in lizza – questa la loro versione –, avrebbero chiesto al comitato di competenza di giocare uno spareggio per decidere la vincente del campionato. Risposta: «Il regolamento non può essere cambiato in corsa». La Fanum dice anche di aver chiesto scusa in anticipo agli avversari, e il giorno precedente aveva pubblicato su Facebook un post nel quale invitava tutti al campo per incitare i ragazzi, “costretti” a segnare una valanga di gol.
La Figc regionale. Il referto della partita è arrivato ieri mattina sul tavolo di Gianni Cadoni. Il presidente non l’ha presa bene e pare intenzionato a coinvolgere la Procura federale perchè proceda ad avviare un’indagine e accertare come sono andate le cose. Questo significa che saranno convocati i presidenti delle società coinvolte, e gli educatori. Meglio chiamarli così a questi livelli, e non allenatori. Dovranno dare delle spiegazioni convincenti se vogliono evitare pesanti provvedimenti.
Parla Cadoni. Il numero 1 del calcio sardo ha trascorso una mattinata movimenta al telefono. Ha cercato di assumere più informazioni possibili su un episodio inusuale. «Quanto accaduto è gravissimo – le parole di Gianni Cadoni – perchè va contro la normalità del calcio. Lo sport a questo livello deve andare oltre il risultato, va vissuto in modo ludico. Rispetto, divertimento e cultura devono stare al primo posto. Già qualche settimana fa in un campionato femminile regionale c’è stato un 21-0. Anche in quel caso mi sono molto alterato. Su questa storia è necessario fare chiarezza».
La notizia ha fatto rumore e provocato le reazioni più disparate sui social. Chissà i bambini che in due partite hanno subito 60 gol, senza segnarne nemmeno uno, come reagiranno. Se ora scegliessero un altro sport sarebbero da capire.

E' vero  che  non è bello    e  che   come dice il  commento   sempre della  nuova  Sardegna    d'oggi 

[..]Ed è stata la sconfitta di un intero movimento, mentre dopo la nuova eliminazione dai Mondiali l’Italia del calcio si domanda cosa ci sia di sbagliato, a partire dai settori giovanili. E arriva la peggiore risposta possibile. È stato un tiro al bersaglio, neanche il videogame dei marzianetti era così crudele. E’ stata la giostra del pallottoliere, sia per il Bono che ne aveva segnati 20, sia per la Fanum che ha raddoppiato, per aggiudicarsi il titolo grazie alla migliore differenza reti complessiva.[... ]


Infatti  Sì, si sono scusati i vincitori ma ne sono usciti tutti sconfitti, a parte i bambini della Caletta che continueranno a tirare calci al pallone ricordando sempre quel giorno, domenica scorsa. Si sono appellati a un regolamento sbagliato, hanno detto di non aver potuto fare altrimenti e invece avrebbero eccome. Avrebbero potuto  se  solo  avessero avuto più  coraggio e    rispetto non giocare, rifiutarsi. Sport e sportività sono altra roba. Avrebbero potuto fare entrambe un passo indietro mettendo la Federcalcio davanti al fatto compiuto  costringendola  per  il  futuro  a  cambiare  il regolamento   e   non ipocritamente a  minacciare provvedimenti  per    colpe  che   legalmente    non hanno    


Il regolamento   è sbagliato? Non siamo in guerra, disobbedire si può e in questi casi si  sarebbe   potuto almeno moralmente  . Ancora, avrebbero potuto cucinare un “biscotto”, che nel calcio non piace   a  tutti    quando lo si  deve  fare o stato fatto in competizioni importanti mondiali ed  Europei ( vedere  collegamento citato righe  precedenti )  . Ma ai ragazzini sì, accordandosi per segnare ciascuna i (pochi) gol necessari per costruire una parità perfetta  senza umiliare  che  vince     e  chi perde   e che ci pensasse la Federazione, che a questo livello gli allenatori si chiamano educatori, che il calcio soprattutto   a quel età dev’essere gioco. E poi, a lui non ci pensa nessuno, a chi ha dovuto fare il contabile e non l’arbitro. Ma dove li segni in quel piccolo taccuino tutti quei gol.


«Il patriarcato è finito. Violenze in aumento per l’immigrazione illegale»: il discorso di Valditara alla Fondazione per Giulia Cecchettin. se stava zitto faceva più bella figura

«Occorre non far finta di vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e devianza, in qua...