Per più di 75 anni è stato rigorosamente a sinistra. Era così importante cucirlo sul cuore che in due occasioni – quando le divise non avevano né sponsor, né marchi, né nomi stampati – per non sloggiare lo stemma del club (anch’esso da inserire preferibilmente là dove si mette la mano sul cuore) si
trovarono soluzioni innovative: nel 1969 la Fiorentina, fresca del suo secondo titolo, cucì accanto al tricolore un giglio viola a mo’ di fiocco; il Torino, nel 1976, campione per la settima volta, il toro rampante granata ce lo volle impresso sopra come un tatuaggio. Fu la Lazio, dopo il secondo titolo vinto nel 2000, a spostarlo a destra, imitata l’anno dopo dai cugini della Roma (ma nelle stracittadine, si sa, è meglio non abusare dei titoli di parentela) l’anno seguente dopo il terzo trionfo. Sarà la Juventus (36 titoli), a metà anni 2000, a spostarlo a centro casacca. Ed è lì che lo si è visto più spesso negli ultimi 15-20 anni sulle maglie bianconere e su quelle nerazzurre dell’inter (19). Vedremo dove sceglierà di cucirlo l’anno prossimo il Milan, fresco campione d’italia per la diciannovesima volta nella sua storia. Ma dovunque sarà, il simbolo del cuore è sempre quello: lo scudetto
La storia del distintivo tricolore – un unicum europeo, fatta eccezione per il Portogallo – che la squadra
vincitrice del campionato di Serie A ha il diritto di cucirsi sulle maglie per il campionato successivo, ce la racconta oggi lo storico Marco Impiglia nel volume ampiamente illustrato e autoprodotto Il mio nome è scudetto (256 pagine in quadricromia, 150 copie numerate, lo si può richiedere scrivendo a marco.impiglia@gmail.com). L’origine dello scudetto è eminentemente politica. Fu infatti Gabriele D’annunzio a inventarlo nel 1920, durante l’occupazione di Fiume. Sulle maglie della squadra cittadina che in un’amichevole sfidò i militari, il “vate” fece cucire (e il volume presenta una preziosa documentazione fotografica) un distintivo tricolore verde-bianco-rosso, mondato dagli stemmi di casa Savoia, poiché quella di Fiume era un’autoproclamata Repubblica.Il passaggio al campionato italiano di calcio è breve. Nel 1924 la Figc concesse al vincitore del titolo nazionale il diritto di cucirsi lo “scudetto” sulle maglie. L’onore toccò per primo al club allora più titolato d’italia, il Genoa.
Il Grifone, quell’anno campione per la nona volta, il 3 settembre 1924 (dopo un primo esordio in un match amichevole contro l’alessandria) scese in campo a Marassi contro la Cremonese col tricolore cucito sulle casacche rossoblù. Finì 3-0 per i padroni di casa, primo gol del mitico Renzo De Vecchi detto “il figlio di dio”. L’inizio di una storia che dura ancora oggi.
TUTTE LE SQUADRE scudettate sono belle, soprattutto quelle a cui capita o è capitato di rado: il Bologna di Bulgarelli, la Fiorentina di De Sisti e Chiarugi, la Lazio di Chinaglia, il Cagliari di Gigi Riva, il Torino di Pulici e Graziani, il Verona di Bagnoli, la Roma di Falcao e Di Bartolomei, il Napoli di Maradona, la Sampdoria di Vialli e Mancini e ancora la Lazio e la Roma di inizio anni 2000. Ma lo stesso, ovviamente, vale per i tre club più blasonati (Juventus, Inter e Milan) che in oltre 120 anni di storia si sono divisi 74 titoli in tre. Un solo club, pur avendo vinto sette campionati, non ha mai cucito lo scudetto sulle maglie: la gloriosa Pro Vercelli. Ai tempi di Fiume e di D’annunzio le bianche casacche dei pionieri piemontesi avevano infatti già vinto tutto. Un’altra, invece, ha diritto di esibire, sempre, una piccola coccarda che non è uno scudetto ma è tricolore: lo Spezia, vincitore del campionato di guerra Alta Italia del 1944, torneo mai riconosciuto dalla Figc, vinto dai Vigili del Fuoco di La Spezia, che – nonostante la leggenda – non era una squadra di dilettanti ma semplicemente di atleti (molti erano ex del Livorno che nel 1943 sfiorò lo scudetto) inquadrati nei Vigili del Fuoco per esentarli dal servizio militare nella Rsi, così come il Torino era “Torino-fiat” e la Juventus “Juventus-cisitalia”.
Ma c’è una squadra il cui binomio con il tricolore è indissolubile: il Grande Torino.
Nel 1924 la Figc Concesse al vincitore del titolo nazionale il diritto di cucirsi il “triangolo” sulle maglie: sempre a sinistra, Lazio e Roma lo spostano a destra
Gli “Invincibili” di Valentino Mazzola vinsero cinque scudetti consecutivi, dal 1943 al 1949, e morirono tutti insieme sulla collina di Superga il 4 maggio 1949. Dalle macerie del bimotore schiantatosi sul terrapieno della Basilica tanto cara ai torinesi, spuntarono subito le maglie granata scudettate, quelle che i ragazzi di Ferruccio Novo indossavano in ogni fotografia.E non è un caso che lo scudetto che ancora oggi si sfoggia sulle maglie dei campioni sia lo “scudetto Grande Torino”, che la Figc volle sulle maglie dei granata campioni nel 1942-43, dopo la forzata sosta bellica, già nel campionato 1945-46, ancora prima della proclamazione della Repubblica, così come lo conosciamo oggi, mondato (proprio come aveva voluto D’annunzio un quarto di secolo prima) da ogni simbolo sabaudo e, ovviamente, fascista, che negli anni 30 e primi anni 40 avevano sostituito lo scudetto tricolore sulle maglie dei campioni d’italia.
Il volume Io sono scudetto, non a caso, verrà presentato venerdì al museo del Grande Torino di Grugliasco. E non è un caso – per tornare al simbolo del cuore – se il Torino nel 1976 optò per uno scudetto “tatuato” con il toro rampante: forse fu per non confonderlo con quello degli “Invincibili”. Un dilemma – per sfortuna dei tifosi granata – che non si è più riproposto.
Oggi
Di FIAMMA TINELLI — foto di STEFANO PAVESI
Nella cava, quando si spengono le macchine, sembra di essere dentro una cattedrale
Nel posto in cui lavora Annalena, la luce del sole non arriva mai. Per terra c’è un mare di fango pallido, d’inverno la temperatura scende sottozero e l’unico suono che rimbomba tra le pareti infinite è il fracasso dei macchinari. Ogni mattina alle 6.30 lei e i suoi 16 colleghi (tutti uomini) salgono a bordo del minivan che si arrampica fino a 1.526 metri d’altitudine, nel Parco nazionale dello Stelvio. Annalena comincia il turno che è ancora buio e ne esce 10 ore dopo, con la faccia bianca come una statua, senza sapere se fuori troverà bel tempo o due metri di neve. Annalena Tappeiner, 25 anni e un corpo da bambina infilato nella felpa doppia, fa la cavatrice nella cava di marmo di Lasa-Weißwasserbruch, in Alto Adige. Per quanto ne sa, è l’unica donna in Italia a fare questo mestiere. Ed è felice. «Qui dentro per me il tempo vola», dice, mentre regola il taglio di un blocco grande quanto un monolocale. «In mezzo a tutto questo bianco è un po’ come stare sulla Luna».
Che il suo futuro non sarebbe stato in ufficio o all’università, Annalena l’ha capito presto, alle medie. «Le ore inchiodata al banco per me erano una tortura. Per imparare io devo fare, non ascoltare». Per qualche anno ha lavorato come commessa in un panificio. Poi ha deciso che ne aveva abbastanza, di segale e di Alto Adige.
La sveglia all’alba. Il freddo. I blocchi di pietra da tagliare, grandi come case. I colleghi maschi dicevano che avrebbe retto tremesi. Ma lei è felice. «È come lavorare sulla Luna»
Del suo stipendio mette via tutto quello che può per comprarsi un container. «Vorrei sistemarlo inmezzo a un prato e vivere lì. Nel silenzio, tra le stelle»
Voleva andare lontano, «in un posto con almeno un oceano nel mezzo». Dall’Australia, dove ha fatto la ragazza alla pari, è tornata indietro con qualche tatuaggio e due certezze: primo, è inutile avere paura dei ragni, anche di quelli più grossi, «basta spostarli con un pezzo di carta». Secondo, per stare bene ha bisogno delle montagne. Le sue montagne. Rientrata a Lasa, ha frequentato per un paio d’anni la scuola professionale per scalpellini. «È una scuola famosa, per frequentarla arrivano anche dall’Englandia», spiega, nel suo italiano ruvido e sorridente. Nel frattempo, continuava a cercare un lavoro che non la chiudesse in una stanza. Un giorno si è offerta in una vetreria, ma l’hannomandata via in malo modo: mica è un lavoro da femmine, questo. Finché sua mamma non le ha mostrato un annuncio del Vinschger, il quotidiano locale. La Lasa marmo, che produce uno dei marmi più puri del mondo, il preferito dell’architetto Calatrava, cercava personale. «Al telefono mi hanno chiesto: lei è interessata al posto in amministrazione, giusto? Quando ho risposto che volevo andare in cava quasi non ci credevano». Al suo primo giorno di lavoro, gli altri operai hanno scommesso che non avrebbe retto tremesi. Un anno e mezzo dopo Annalena è ancora in galleria, col cappuccio della felpa infilato sotto il casco e gli occhi incollati alla pietra, ché qui se ti distrai rischi la pelle. I suoi colleghi ogni tanto la chiamano mädel, “ragazzina”, «ma mi aiutano e mi hanno insegnato tutto quello che so. È come avere 16 papà». Quando alle 5 del pomeriggio scende giù dalla montagna, per lei comincia un’altra giornata. Va ad arrampicare sul Martello, oppure si siede al pianoforte e suona «le canzoni tristi», quelle che la rilassano. E quando non c’è nessuno che l’ascolta, canta. «Anche nella cava, quando si spengono le macchine. Sembra di essere in una cattedrale». Di tutte le belle cose che fanno i suoi coetanei in città non le importa nulla: Annalena non beve alcol, usa i social controvoglia e la discoteca le fa venire il mal di testa. «Amo stare da sola e lavorare all’uncinetto, così posso pensare. Oppure chiacchierare davanti al camino con Romina, la mia coinquilina, mentre beviamo una tisana».
Dalla Val Venosta, spiega, i giovani scappano appena possono. La Svizzera è vicina e si guadagna il doppio, e a Vienna c’è una specie di colonia altoatesina. «Questa è una terra dura, c’è chi ti guarda storto se parli italiano, se sei gay. A me non pesa, perché penso che a essere chiusa è solo la testa di certa gente, mica la mia. Ad altri sì». Dello stipendio da cavatrice, che sfiora i 2 mila euro, mette da parte tutto quello che riesce. Il suo sogno è quello di comprarsi una casa. Anzi, un container. «Vorrei metterlo in mezzo a un prato e vivere lì». Il container può essere anche grigio, assicura, tanto lo riempirà di fiori. L’importante è che intorno ci sia silenzio, così può suonare quanto le pare. E che alzando lo sguardo, la sera, si vedano solo le stelle. «Per me, questa è la libertà».
Ottavo mese di gravidanza da un paio di giorni. Scelgo di prendere la 92 (è un autobus, per chi non fosse di Milano) per andare a fare una visita medica invece della macchina.
Nonostante tutto (ovvero:
* affollamento nelle ore di punta
* poche volte trovo posto seduta e aspetta e spera che la gente si alzi
* gli anziani che se sono seduta - ho una pancia relativamente piccola, lasciamogli il beneficio del dubbio - mi guardano male
* la gente viaggia senza mascherina anche se obbligatoria (ieri un tizio mi ha starnutito e tossito in faccia)
* gli autobus vetusti quanto l’asfalto della circonvalla che qui lo dico qui lo nego se non partorisci tra una frenata e una buca dissestata puoi ritenerti fortunata
* il biglietto del bus costa 2 euro anche per poche fermate, anche per una; il parcheggio - col benessere di arrivarci con l’aria condizionata - costa 2 euro. La spesa è uguale, ma l’ambiente ringrazia. E io all’ambiente ci tengo
Nonostante tutto, dicevo, in città scelgo di muovermi con i mezzi pubblici e questo farò finché potrò.
Arrivo a piedi alla fermata (zero pensiline, picchia il sole delle 14, fa caldo) e mi accorgo di essere senza contanti, ho solo il bancomat. E per fare un biglietto dal tabaccaio servono i contanti. È il 2022, w la tecnologia ma ok. Tra l’altro è l’unico rivenditore nell’arco di un chilometro circa. Impossibile raggiungerlo tra afa e panza, sono sveglia dalle 7.30 e ho appena controllato la pressione: è bassa.
Decido di fare il biglietto online, inviando un messaggio con scritto ATM al 48444. Due minuti dopo il bus passa, io salgo. Sale anche il controllore.
- biglietto prego
- ecco qua, le faccio vedere l’sms
- signorina vedo solo il suo invio al 48444 ma qui non c’è alcun biglietto di risposta. Doveva prima aspettare a terra che le arrivasse la conferma di aver ricevuto il biglietto, e solo dopo salire sul bus
- guardi, non so se nota: sono all’ottavo mese, ho un appuntamento medico, non c’era nemmeno una pensilina per ripararsi dal sole. Ho inviato l’sms come scritto sul sito di ATM e sono salita
- mi spiace ma finché non le arriva il biglietto in risposta al suo sms deve stare a terra e se non le arriva comprare il cartaceo, ecco una stazione dei treni, scenda e troverà le macchinette
E così è andata. Sono dovuta scendere, io e otto mesi di panza. Il caldo e l’afa. Il biglietto online non è mai arrivato (e già qui..). Sono entrata in stazione (due rampe di scale a piedi perché l’ascensore era rotto) e fare il biglietto cartaceo. Ovviamente non essendo una saetta ho perso la corsa successiva, e ho dovuto attendere al sole quella dopo.
Tutto bene, ho rispettato le regole e non chiedo sconti. Però mi domando per quale motivo in mezza Europa puoi fare agilmente i biglietti online (a Milano se non ho possibilità di scaricare app mi attacco) o a bordo del pullman (contactless, bancomat, contanti come già nelle metro), comprese altre città italiane, e nella modernissima civilissima avantisisma Milano no.
Ah, mentre vi scrivo davanti a me sul bus una donna mangia un gelato
È la prima volta che viene rilasciato un permesso per una discussione di laurea In carcere da 30 anni, Giuseppe si laurea nelle aule della Facoltà: la tesi dal titolo “Gli abissi della pena”
Giuseppe Perrone da trent’anni in carcere, proprio nel giorno della strage di Capaci ottiene il permesso per discutere la sua tesi di laurea magistrale nel nostro Ateneo in Scienze della informazione, della comunicazione della editoria. È il momento della riconciliazione attraverso lo studio e la cultura. Questa è la parola chiave del lavoro di tesi.”. Così Fabio Pierangeli, associato di Letteratura italiana e Letteratura di viaggio contemporanea della Facoltà di Lettere a “Tor Vergata” ha raccontato la straordinaria storia di riscatto di un detenuto di Rebibbia che finalmente corona un sogno: la laurea. Giuseppe si laurea il 24 maggio alle ore 15 con una tesi di laurea magistrale in Editoria dal titolo “Gli abissi della pena. A partire da Primo Levi”. Ha studiato sodo mentre era in cella grazie al progetto di “Tor Vergata” “Università in carcere”. L’attività formativa predisposta dall’Ateneo di Roma “Tor Vergata” all’interno della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso, da oltre un decennio, va oltre la sola presenza all’interno del carcere: rende accessibile alle persone recluse un’offerta formativa universitaria e necessariamente apre un dibattito su questioni di ordine sociale, che vanno oltre la didattica. Interrogativi sul diritto allo studio, e di conseguenza sul diritto al lavoro.
La sua seduta di laurea avverrà nella sede dell’ateneo romano. Giuseppe infatti ha eccezionalmente ottenuto il permesso di discutere la tesi alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata”. È un evento importante per l’ateneo, da momento che è la prima volta che viene rilasciato un permesso per una discussione di laurea presso l’università.
da repubblica
Roma, "Gli abissi di una pena": così il detenuto Giuseppe si è laureato a Tor Vergata
Si è laureato con 110 e lode presentando la tesi intitolata "Gli abissi di una pena a partire da Primo Levi". Giuseppe Perrone però non era uno studente come gli altri del corso di laurea magistrale in Editoria, Informazione e Comunicazione dell'Università Tor Vergata di Roma. Giuseppe infatti è attualmente detenuto al carcere di Rebibbia ma ha ottenuto un permesso speciale per discutere la tesi in facoltà in presenza. "E' una grande emozione perché è la prima volta che viene concesso un permesso del genere", ha commentato il relatore della tesi del laureando, il professore di Letteratura Italiana Fabio Pierangeli.
Presenti alla discussione di laurea anche la moglie e il figlio di Perrone. "E' la prima volta che lo rivedo di persona da due anni e mezzo, a causa del covid. Sono emozionatissima. Per lui è la coronazione di un sogno", ha spiegato la moglie Sonia Reale. "La cultura come forma di riscatto? Certamente - ha aggiunto -. Ma fin da subito, dall'arresto, ho visto un'altra persona. La sofferenza ti porta a capire la lontananza degli affetti e mancando tutto sei portato a scegliere il lato migliore delle cose".
A Repubblica denuncia: "Nel 2017 non è stato invitato, ma poi sono arrivate le scuse". E attacca: "La Fondazione Falcone gli ha mancato di rispetto"
24 MAGGIO 2022 ALLE 11:52
"Che il primo 23 maggio senza Alfonso Giordano non venga neanche ricordato, io non lo posso perdonare a nessuno”. C’è amarezza, se non rabbia nelle parole di Stefano Giordano, il figlio del giudice Alfonso, negli anni Ottanta l’unico magistrato ad accettare di presiedere la Corte d’assise del Maxiprocesso. Di fatto, l’uomo che ha messo la firma sulla condanna della Cupola di Cosa Nostra. Se n’è andato nel luglio scorso, a 91 anni “e io non riesco a capire come sia possibile che nessuno lo abbia ricordato né a me, né alla mia famiglia interessa a partecipare a fiere e passerelle, ma il lavoro di mio padre doveva essere ricordato” dice il figlio a Repubblica. Anche lui veste la toga, ma da avvocato che fra i suoi clienti annovera anche l’ex numero due del Sisde, Bruno Contrada.
“Caro Papà, oggi nella fiera delle passerelle nessuno ti ha ricordato, né ha fatto il tuo nome. Nessuno della tua famiglia è stato invitato, come se il maxiprocesso si fosse fatto da solo" aveva scritto l’avvocato Giordano su facebook, condividendo la sua delusione sui social. Ma a Repubblica specifica “non è la prima volta che ci si dimentica di mio padre. Mi dispiace dirlo, ma per l’ennesima volta la Fondazione Falcone gli ha mancato di rispetto. Nel 2017 non era stato invitato alla manifestazione, ma al termine della giornata arrivò un comunicato di scuse che derubricava tutto a mero errore. Adesso sono obbligato a pensare che non sia così”. Del resto, spiega, “quell’anno, anche l’allora presidente del Senato, Pietro Grasso, quell’anno è a lungo intervenuto sul Maxi, senza mai citare mio padre nonostante davanti a lui scorressero le immagini dell’epoca”. E poi, aggiunge che anche i silenzi pesano. “Qualche mese fa, il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Palermo aveva proposto al presidente della Corte d’Appello, Matteo Frasca, di intitolare l’aula bunker a mio padre. Ma nessuno ci ha mai risposto. Eppure il ruolo avuto da mio padre viene riconosciuto da tutti”
Ma come di solito tu sei molto puntuale , mi direte , ed in certi casi anticipi ma stavolta arrivi tardi . Vero , ma poiché , Gli anniversari soprattutto quelli come questi sono materia friabile e
delicata. Essenziali nella costruzione e disciplina della memoria, eppure, e insieme, permeabili al rischio di trasformare la ritualità del ricordo in un simulacro. A maggior ragione quello del cratere di Capaci e sulla devastazione di via D'Amelio, acme della stagione stragista di Cosa nostra e punto di svolta della nostra storia repubblicana. Infatti
da il fatto quotidiano del 22\5\2022
A essere sinceri fino alla brutalità, dobbiamo ammettere che le commemorazioni per le stragi del 1992-’93 sono un rito stanco, ripetitivo, vuoto, noioso, inconcludente. Perché allora dedicare quattro pagine speciali del Fatto al 30° anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro? Perché forse, in questa Povera Patria, esiste ancora qualcuno che non lo trova inutile. Ma dev’essere un ben strano soggetto. Guardiamoci intorno. La Sicilia e Palermo stanno per tornare nelle grinfie di Dell’utri e Cuffaro. FI, fondata e guidata da un signore tuttora indagato come mandante delle stragi, è al governo senza che nessuno ricordi quell’agghiacciante indagine, neppure quando l’indagato è candidato dal centrodestra al Quirinale. I pochi pm rimasti a scavare nei rapporti fra mafia e politica, come Gratteri, vengono sistematicamente sabotati e scavalcati, mentre fanno carriera i normalizzatori. La Consulta smantella, con la complicità di governo e Parlamento, il 41-bis e l’ergastolo ostativo: le due armi che, insieme ai pentiti, ci hanno consentito di sapere quel poco che sappiamo sulle stragi. Da otto mesi si attende la motivazione della sentenza d’appello che assolve i colletti bianchi per la trattativa Stato-mafia. Tra un mese si voterà su un referendum per riportare i condannati nelle istituzioni; e si terranno Amministrative al buio, senza che l’antimafia indichi per tempo i candidati impresentabili. Eppure restiamo fra i pochi temerari a pensare che la memoria sia utile. Non per i piani alti del Potere, dediti alla più lurida restaurazione. Ma per quelli bassi: i cittadini che, non avendo nulla da chiedere, da guadagnare e da perdere dai poteri criminali, possono permettersi il lusso di conoscere e cercare la verità. La verità sulle stragi in parte la sappiamo e in parte la intuiamo da quello che non sappiamo. È una verità tridimensionale che si estende in profondità a uomini e apparati politico-istituzionali, anche se troppe sentenze e ricostruzioni la appiattiscono a storia di bassa macelleria criminale.
Io non avrei saputo dirlo meglio sia perchè ero , anche se ricordo benissimo il fatto di Capaci / come quello di Via d'Amelio ) e cosa stavo facendo quando appresi la notizia e vidi quelli immagini agghiaccianti , avevo 16 anni , della figura fi Giovanni Falcone ho solo ricordi non miei ma mediati da : giornali , tv , familiari . E poi come dimostra il link sopra è un caso ancora aperto
Riporto , dall'amico Augusto Ditel un bellissimo spaccato di vita “locale” che tratteggiano benissimo i protagonisti con un po' di nostalgia dei tempi che furono . Infatti siamo nel magico campo delle bugie a sfondo marinaro, con apoteosi in mitologiche battute di pesca che Stefano Benni definiva “Ittiomachia”
Arriva di buon mattino, parcheggia l’auto al fresco, aggrotta le sopracciglia, inforca gli occhiali da sole, specchiati con lenti blu notte. Accanto allo zaino, ecco spuntare uno shopper mezzo sdrucito, di quelli del supermercato, che contiene un retino nero a maglie fitte. Piomba sulla spiaggia, si rifugia in un cantuccio, a venti centimetri dalla battigia (non stima quelli che la chiamano, sbagliando, bagnasciuga). Estrae il retino, all’interno del quale i tre chili di cozze sembrano riconoscerlo per fargli festa, incuranti del loro destino che le vedrà perire, dopo l’incontro ravvicinato con l’apposito coltellino da “isbucciuladore”, come si ama dire in olbiese doc. Estrae un masso di tre-quattro chili dalla spiaggetta dove i bimbi costruiscono castelli medievali e scolpiscono improbabili montagne. Immerge il retino con i mitili in un piccolo anfratto disseminato di patelle (attenzione: non si possono prendere), copre tutto con il sasso largo e piatto. L’operazione “spurgo in mare” dura un’ora al massimo. Poi, l’assalto garbato. Una, due, tre, quattro,cinque, cinquanta cozze transitano dal guscio allo stomaco in un battibaleno. Passano i turisti, quasi sempre del nord. Lo scrutano, lo osservano senza farsi notare, tra il sospettoso e il divertito. Sono quasi sempre del nord, i vacanzieri curiosi, spesso veneti. Molti rifiutano l’invito a gustare una simile prelibatezza, altri accettano. E gradiscono,rinunciando persino al limone. “Le ha pescate qui?”, domanda la signora, che ignora le tecniche di allevamento e soprattutto il fatto che la parola cozza faccia rima con Olbia, almeno in Sardegna. “Sì, certo - mente lui, indicando uno scoglietto, impervio e lontano una decina di metri. “Dài, tesoro - sussurra la signora al marito incredulo, con gambe e torace bianco latte- domani ci proviamo, poi lo racconteremo ai nostri figli. E diremo loro che la Sardegna è magica anche per questo”.
Lui se la ride sotto i baffi (che non ha) e si ricorda di un vecchio adagio gallurese: “Faula ch’habbisogna, no’ è piccatu, né valgogna”…(una bugia detta per bisogno, non è peccato né vergogna”) Evviva le cozze.
(Ogni riferimento a fatti o a cose reali NON è puramente casuale)
Una ludoteca, anzi un Centro per la cultura ludica, dove anziani e bambini giocano insieme. A Finale Ligure un progetto per prevenire il disagio sociale. Divertendosi
Da zero a 99 anni: il paese dei giochi senza età Una ludoteca, anzi un Centro per la cultura ludica, dove anziani e bambini giocano insieme. A Finale Ligure un progetto per prevenire il disagio sociale. Divertendosi
di Giulia Destefanis
C'era una volta "sali e tabacchi" Una storia d'Italia raccontata attraverso l'evoluzione della tabaccheria: a Roma apre un museo che spazia tra chinino e brillantina, schedine e monopolio di Stato
Camilla Romana Bruno
Tra monti, pecore e pastori: storia di un filo di lana
Da risorsa a scarto: il prodotto della tosatura è ormai considerato un rifiuto speciale. Ma in Val Camonica la filiera della fibra naturale si trasforma in arte
Vasco Rossi, al concerto di Trento anche i genitori di Alba Chiara, vittima di femminicidio
La ragazza fu uccisa 5 anni fa dal fidanzato. Oggi avrebbe compiuto 27 anni. Massimo e Loredana Baroni: "Non crediamo nelle coincidenze ma è un bellissimo evento che ci coinvolge molto"
Si chiamava Alba Chiara Baroni e oggi sarebbe stato il suo 27esimo compleanno. Aveva appena 22 di anni quando venne uccisa dal fidanzato Mattia Stanga che poi si tolse la vita. Quel nome, Alba Chiara, i genitori Massimo e Loredana, grandi fan di Vasco Rossi, glielo avevano dato proprio in onore del rocker e della sua canzone. Ieri c'erano anche loro alla Trentino Music Arena per partecipare al soundcheck del concerto di Vasco, dove la coppia è stata invitata a partecipare dall'assessore provinciale al Turismo Roberto Failoni in ricordo della figlia. E stasera si preparano a fare il bis."Speriamo di fargli conoscere la nostra Alba Chiara - dice Loredana, casalinga e mamma della ragazza e di Aurora, l'altra figlia di 23 anni - per questo ho portato con me il catalogo della mostra allestita a Trento con i dipinti di Alba Chiara e il libro di poesie a lei dedicate".
Femminicidio Tenno, sindaco dimissionario: "Non sopportavo più ipocrisia e indifferenza"
Da quando la figlia non c'è più, la coppia porta avanti una campagna costante contro il femminicidio. Quello cui è rimasta vittima la figlia quel 31 luglio del 2017 quando fu uccisa con quattro colpi di pistola dal ragazzo Mattia Stanga che poi si è tolto la vita. Da quel giorno prosegue il loro percorso di testimonianza contro la violenza nelle relazioni. "Portiamo ovunque il pensiero che l'amore non è possesso ma rispetto", un concetto che Massimo e Loredana vorrebbero "che passasse anche attraverso le parole che vengono espresse nel mondo della musica, nelle canzoni: è un messaggio che anche i cantanti dovrebbero trasmettere", sottolineano.Entrambi indossano una maglietta con stampato il volto sorridente della figlia. Stasera nell'arena canteranno con altre 120mila persone la loro canzone preferita, Albachiara. "Il nome l'ho scelto io - ammette Massimo - ancora prima di conoscere Loredana, non so quale nome avrei messo se avessimo avuto un figlio maschio". E ad aprire il concerto di Vasco ci sarà anche un compagno di classe delle medie di Alba Chiara, Tommaso Straffelini, che suona il basso e aprirà oggi il live con il suo gruppo, i Toolbar."Abbiamo colto la proposta di alcuni cittadini, che hanno evidenziato la passione dei genitori di Alba Chiara per Vasco e così li abbiamo invitati al soundcheck - spiega l'assessore Failoni - si tratta di un importante segnale di vicinanza e di attenzione di fronte a vicende drammatiche che hanno coinvolto alcuni nostri concittadini".E stasera saranno di nuovo a godersi il "loro" Vasco. "Nostra figlia Aurora (nome scelto dalla fiabaLa Bella addormentata ndr) ci ha fatto la sorpresa di regalarci due biglietti per il concerto che Vasco fa a Trento proprio nel giorno del compleanno di Alba Chiara", dice Loredana. "Non credo nelle coincidenze - aggiunge - ma è un bellissimo evento che ci coinvolge molto, anche se non sarà facile ricordare il compleanno, come ogni 20 maggio negli ultimi cinque anni. Sappiamo però che Alba Chiara ci è vicina".
"L'uomo non smette di giocare perchè invecchia, ma invecchia perchè smette di giocare" G. Bernard Shaw
Cercando materiale per ribattere ai miei genitori che mi rimproverano ( a volte a ragione perchè anziché lavorare mi distraggo troppo ) perchè gioco al cellulare ho trovato un articolo di come << [...] Grazie alla passione per il gioco da tavolo e al connubio fra archeologia e artigianato nasce il progetto “LUDUS IN TABULA!” con lo scopo di far conoscere i tanti giochi da tavolo dell’area del Mediterraneo antico che si perdono nelle maglie del tempo. È un modo diverso per viaggiare nel passato e per poter continuare a diffondere la conoscenza di questi giochi che fanno parte della nostra tradizione e che non devono essere dimenticati.
Il progetto ci ha portato a recuperare e ricostruire ben ventidue giochi da tavolo antichi, sviluppati in numerose varianti di forme e materiali, come vere e proprie riproduzioni archeologiche. Si tratta di una lunga ricerca sulle regole e le abitudini del mondo ludico antico, scovando fra gli scaffali di biblioteche e librerie, sbirciando con occhio vigile tanto nelle vetrine di grandi musei europei quanto nei piccoli musei locali o visionando reperti connessi col gioco nei magazzini archeologici, facendo ricognizioni nei siti archeologici vicini .[...] >> ( segue https://www.historygames.it/chi-siamo/ )
Tale iniziativa si deve all'Archeologa Monica Silvestri e all'artigiano ( foto a sinistra ) Gualtiero Tumolo .
I giochi sono realizzati dall’artigiano Gualtiero Tumolo che si occupa di tecniche artigiane sin dal 1998 come ragazzo di bottega in un laboratorio di restauro in Carnia su strumenti antichi a percussione su corda (pianoforti, armonium, clavicembali). Dal 2005 al 2010 studia all’istituto d’Arte A. Bertoni di Saluzzo e si diploma in restauro del legno e policromi. Finiti gli studi si applica per conseguire un secondo diploma in oreficeria presso lo stesso istituto d’arte. Nel tempo ha lavorato in vari laboratori come collaboratore e come titolare mantenendo sempre passione e competenze in svariati campi artistici e artigianali acquisendo così tecniche specifiche. Al momento ha un suo laboratorio attrezzato dove realizza opere artigianali e artistiche sia proprie che su commissione.Come artigiano realizza e dà corpo alle idee di Ludus in Tabula con sapiente manualità, sia per le lavorazioni in cuoio che per quelle in legno dei tavolieri, nella realizzazione delle pedine e dei dadi, per creare oggetti unici e che rispecchino la lunga storia che gli ha dato vita, senza dimenticare una vena più artistica che sa seguire la bellezza e la cura dei materiali più disparati. Invece Monica ha quarantatré anni, proveniente da Genzano (RM), probabilmente si è chiesta le stesse cose. Laureata in conservazione dei Beni Culturali con indirizzo archeologico, ha dato vita ad un progetto fantasioso, dai contorni fiabeschi e mitologici: History Games.
Si chiama così il progetto loro che, seguendo diverse tecniche dell'artigianato e dell'archeologia sperimentale, ha riportato in vita gli antichi giochi da tavola che utilizzavano i romani, i greci, i sumeri, gli etruschi e anche diverse civiltà in epoca medioevale.
Ma nulla è nato per caso. Infatti essa insieme a dallo studio di reperti e documenti, visitando e studiando nei musei siti archeologici nazionali e internazionali, Monica ha ricreato venticinque diversi giochi da tavola ricostruendo a mano la stessa di tipologia di oggetti che venivano utilizzati in quell’epoca: dadi, pedine, lancia dadi.
La cosa particolare, che rende unica la sua idea, è che ogni oggetto è ricostruito cercando di utilizzare gli stessi materiali di quelle antiche civiltà: il legno, la terracotta, il cuoio, la pasta di vetro, la pietra.
Il risultato è una sequenza di giochi da tavola handmade, archeologicamente certificati da studi e ricerche, riprodotti fedelmente. Una sapienza artigianale che Monica ha ereditato dal padre e che le ha permesso di unire un sapere pratico e teorico.
«Durante gli anni degli studi universitari ha avuto modo di conoscere due giochi da tavolo di epoca romana che si utilizzavano come intrattenimento nei campi scuola di archeologia sperimentale. Da
Monica silvestri frame dal secondo video citato di youtube
allora ha cominciato a cercare informazioni sui giochi da tavolo antichi e non si è più fermata. »
Recita così la sua biografia, sul suo sito.
Oggi espongono e vende i suoi giochi partecipando a fiere nazionali di settore, e utilizzando anche la pagina social. Qui, sul sito ufficiale, potete trovare l’elenco dei giochi che hanno realizzato.
In un’intervista al Corriere della Sera Monica ha dichiarato qual è l'obbiettivo:
«I giochi antichi oltre a sviluppare numerosi aspetti positivi, quali la logica e la riflessione – conclude l’archeologa – potrebbero insegnare ai piccoli le regole della condivisione, lo spirito di squadra ed il piacere della socializzazione».
Quelli di Monica[ e Gualtiero aggiunta mia ] non sono solo giochi,-- come dice l'articolo sopracitato a cura di Andrea Minciaroni \ redazione@roma-artigiana.it -- ma narrazioni, piccole storie di vita che emergono da epoche lontane, da antiche civiltà che possiamo solamente immaginare. Ma che oggi, forse, in piccola parte, possiamo anche provare a rivivere.
Grazie alla passione per il gioco da tavolo e al connubio fra archeologia e artigianato nasce il progetto “LUDUS IN TABULA!” con lo scopo di far conoscere i tanti giochi da tavolo dell’area del Mediterraneo antico che si perdono nelle maglie del tempo. È un modo diverso per viaggiare nel passato e per poter continuare a diffondere la conoscenza di questi giochi che fanno parte della nostra tradizione e che non devono essere dimenticati.
Il progetto ci ha portato a recuperare e ricostruire ben ventidue giochi da tavolo antichi, sviluppati in numerose varianti di forme e materiali, come vere e proprie riproduzioni archeologiche.
Si tratta di una lunga ricerca sulle regole e le abitudini del mondo ludico antico, scovando fra gli scaffali di biblioteche e librerie, sbirciando con occhio vigile tanto nelle vetrine di grandi musei europei quanto nei piccoli musei locali o visionando reperti connessi col gioco nei magazzini archeologici, facendo ricognizioni nei siti archeologici vicini e lontani… tutto per uno scopo preciso: giocare e far giocare come si faceva nel mondo antico!
Nel progetto di ricerca è confluita anche una serie di giochi di abilità praticati nelle varie epoche sia dagli adulti che dai bambini, constatando come l’uomo non abbia mai smesso di giocare. E oggi? Ci piacerebbe che si tornasse a giocare anche con i giochi antichi perché possono sviluppare numerosi aspetti positivi, quali la riflessione e la logica, ma soprattutto la socializzazione.
Il gioco è stato e sarà sempre un forte collante sociale e, se analizzato con approccio scientifico, può contribuire a fare luce su tanti aspetti della vita quotidiana, al pari di altri settori di ricerca. Seguendo la strada aperta da altri studiosi e appassionati che si sono occupati del gioco nell’antichità, è stata intrapresa questa ricerca topografica che s’intende proseguire con ulteriori studi, applicando tale tipo di approccio su altri siti archeologici, per poter fare dei riscontri e delle comparazioni fra le diverse aree.
E' vero che ogni tanto , retaggio del mio passato e della mia educazione , da cui non mi sono liberato ancora completamente visto che ogni tanto mi scappano battute e battutacce (poi mi scuso o chiarisco meglio il mio pensiero e non rifaccio , facendo il possibile , tali battute) ma da li a fare quello che trovate racconto sotto ce ne passa .
Francesco (nome di fantasia) era uscito con le sue amiche legando un fazzoletto arcobaleno sullo zaino, a Cosenza. A 16 anni era il suo modo, coraggioso, per dire al mondo chi è, per raccontare la sua libertà di amare.
Solo che, lungo il tragitto, è stato fermato dallo zio, su “mandato” del padre. "Non vogliamo ricchioni nella nostra famiglia" esordisce. Prima ancora che il nipote possa rispondere, arriva il primo schiaffo. Che diventa un pugno. Che diventa un calcio. Che diventa una serie di calci, violentissimi. Poi, nel caso non bastasse, chiama tre uomini ad aiutarlo, che gli frantumano quattro costole e il setto nasale, oltre a una serie di lesioni. Infine lo carica in auto e arriva quella frase. Quella frase inenarrabile. "Ora muori in casa".
<<[...] Il ragazzo arriva in ospedale, partono le denunce alle forze dell'ordine. "Sta meglio, si riprenderà. Moralmente e psicolgicamente non oso immaginare come stia, non lo voglio immaginare", racconta Silvio Cilento, presidente di Arci Cosenza, che ha riportato la storia di omofobia familiare su Facebook. Una storia in cui, tra le quattro mura di casa, si consumerebbe altra violenza, perché il post su Facebook di Cilento inizia cosi: "Non voglio andare via da casa perché con mamma sto bene, è solo papà il violento. Mamma mi dice sempre: fatti forza e sii coraggioso".Non chiedetemi altro - aggiunge Cilento - per questioni di tutela è necessario assumere un atteggiamento di chiusura e di riservatezza. Ma condivido questo episodio solo per ricordarvi quanto è necessario e importante parlare di violenza di genere, di questioni Lgbt, di identità di genere e di orientamenti sessuali.>> ( da https://www.repubblica.it/cronaca/ del 19\5\2022 )
Ma chi parla di “famiglia tradizionale” ( ideologia \ tesi discutibile visti i mutamenti sociali avvenuti negli ultimi 60 \70 anni ) e lausa per discriminare gli altri tiupi di famiglia o estremizza usando espressioni del genere come “famiglia di sangue” (sì, il suo), chi in Senato gli ha tolto anche la più elementare tutela cavillando e trovando ogni strattagemma sul filo del rasoio tra legalità ed illegalità . anzichè rendersi le proprie responsabilità nel votare contro e poi si è applaudito da solo, beh, mi fa schifo quanto coloro che hanno commesso tale barbaro gesto .
In chiusura di questo post ricevo fra le notifiche di facebook questa di Lorenzo Tosa
Emma Ruzzon ha 22 anni [ foto sotto a destra ] , è rappresentante degli studenti dell’Università di Padova.
Oggi, in occasione degli 800 anni dell’Università, si è presentata davanti al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e, soprattutto, alla Presidente del Senato Casellati, e ha fatto un discorso davvero memorabile su diritti e libertà.
Nel suo passaggio più significativo, ha lanciato un atto d’accusa potente nei confronti di larga parte
di classe politica e, in particolare, di una destra indegna.
<<Mi domando come possa considerarsi libero un Paese in cui la libertà è garantita nella sua totalità per alcuni e centellinata per altri.
Un Paese in cui i senatori della Repubblica possono permettersi di applaudire pubblicamente l'affossamento di un disegno di legge che, pur in minima parte, mirava a tutelare la libertà di esistere di persone, cittadini, di uno Stato che continua a chiudere gli occhi davanti alla sue evidente transfobia, mentre conta il più alto tasso di omicidi di persone trans in Europa. Ci viene insegnato che studiamo per lavorare e non per accrescere la nostra cultura, per poi ritrovarci in un mondo del lavoro che ci chiede di ringraziare per l’opportunità di essere sfruttati, perché “è così che si fa esperienza”, e in cui dobbiamo augurarci di non essere una delle tre morti sul lavoro al giorno.
"Mi domando come possa considerarsi libero un Paese in cui la libertà è garantita nella sua totalità per alcuni e centellinata per altri >>. Così Emma Ruzzon, rappresentante degli studenti dell'Università di Padova, durante la cerimonia per gli 800 anni dalla fondazione dell'Ateneo, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e della presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Un Paese, ha aggiunto Ruzzon, <<in cui i senatori della Repubblica possono permettersi di applaudire pubblicamente l'affossamento di un disegno di legge che, pur in minima parte, mirava a tutelare la libertà di esistere di persone, cittadini, di uno Stato che continua a chiudere gli occhi davanti alla sue evidente transfobia, mentre conta il più alto tasso di omicidi di persone trans in Europa". La rappresentante degli studenti si è poi rivolta alle istituzioni. "Non chiedete a noi di avere coraggio, abbiate voi il coraggio di guardare davvero al futuro, di chiederci come stiamo. Abbiate il coraggio di ascoltarci>>, ha concluso.
Ci viene insegnato che studiamo per lavorare e non per accrescere la nostra cultura, per poi ritrovarci in un mondo del lavoro che ci chiede di ringraziare per l’opportunità di essere sfruttati, perché “è così che si fa esperienza”, e in cui dobbiamo augurarci di non essere una delle tre morti sul lavoro al giorno.
Non c’è libertà per qualcuno se non c’è libertà per tutte e per tutti. Oggi più che mai per il popolo ucraino, ma anche per quello yemenita, quello palestinese, quello siriano e per tutti i popoli oppressi e subalterni”.
Capisco , anche se non concordo , l'essere contro il decreto Zan ed contro ( scettico sulle giornate celebrative , il non voler celebrare nelle scuole la giornata contro l'omotransfobia . Ma la malafede ed la disinformazione , nonochè l'uso strumentale per giustificare \ cercare appiglio contro il decreto o contro la circolare del ministro dell'istruzione cheha istituito nelle scuole anche se con ritardo quasi decennale tale giornata, ma non mi sta bene la disinformazione . Infatti l'istituzione dellla giornata del 17 maggio è antecedente a tale decreto.La Giornata internazionale cioè il 17maggio , contro l'omofobia, la bifobia, la transfobia (o IDAHOBIT, acronimo di International Day Against Homophobia, Biphobia, Transphobia) è una ricorrenza promossa dal Comitato Internazionale per la Giornata contro l'Omofobia e la Transfobia è riconosciuta dall'Unione europea e dalle Nazioni Unite che si celebra dal 2004 il 17 maggio di ogni anno.
L'obiettivo della giornata è quello di promuovere e coordinare eventi internazionali di sensibilizzazione e prevenzione per contrastare il fenomeno dell'omofobia, della bifobia e della transfobia. Ideata da Louis-Georges Tin, curatore del Dictionnaire de l'homophobie (Presses Universitaires de France, 2003), la prima Giornata internazionale contro l'omofobia ha avuto luogo il 17 maggio 2004, a 14 anni dalla decisione (17 maggio 1990)di rimuovere l'omosessualità dalla lista delle malattie mentali nella classificazione internazionale delle malattie pubblicata dall'Organizzazione mondiale della sanità.Nel 2007, in seguito ad alcune dichiarazioni di autorità polacche contro la comunità LGBT, l'Unione europea ha istituito ufficialmente la giornata contro l'omofobia sul suo territorio. Alcuni estratti del testo approvato:
«Il Parlamento europeo [...] ribadisce il suo invito a tutti gli Stati membri a proporre leggi che superino le discriminazioni subite da coppie dello stesso sesso e chiede alla Commissione di presentare proposte per garantire che il principio del riconoscimento reciproco sia applicato anche in questo settore al fine di garantire la libertà di circolazione per tutte le persone nell'Unione europea senza discriminazioni;»
(art 8)
«[...] condanna i commenti discriminatori formulati da dirigenti politici e religiosi nei confronti degli omosessuali, in quanto alimentano l'odio e la violenza, anche se ritirati in un secondo tempo, e chiede alle gerarchie delle rispettive organizzazioni di condannarli»
(art 10)
Nel 2009 la campagna IDAHO viene incentrata sulla transfobia, ed in particolare sugli atti di violenza contro le persone transgender. Il nome ufficiale diventa pertanto "Giornata Internazionale contro l'omofobia e la transfobia" (International Day Against Homophobia and Transphobia).
Nel 2015 viene aggiunta anche la bifobia negli obiettivi della campagna.L'Italia aderisce all'LGBTI Core Group dell'ONU, alla piattaforma Equal Rights Coalition e all'organizzazione intergovernativa Global Equality Fund.
Jake ha 17 anni ed è l'unico giocatore omosessuale dichiarato in attività nel Regno Unito. Ha scelto di dichiararsi alla vigilia della giornata contro l'omofobia: “Voglio essere me stesso. Per tanto tempo ho nascosto la verità per arrivare fra i professionisti. Ma non potevo andare avanti così”
LONDRA Si chiama Jake Daniels, ha 17 anni e ha già fatto la storia del calcio inglese. Perché oggi, dopo il suo coming out, ha rotto un lunghissimo tabù ed è diventato l’unico calciatore professionista maschile in attività nel Regno Unito a essere dichiaratamente omosessuale. Daniels, attaccante del Blackpool (nord dell’Inghilterra), ha commentato oggi il suo raro e straordinario annuncio: “Voglio essere solo me stesso. Non ne potevo più di dire continuamente bugie ed essere falso, come lo sono stato per anni”, ha detto a Sky News britannica. L’attaccante sinora non aveva mai dichiarato la sua sessualità e pensava di rivelare tutto a carriera finita, per la paura di essere oggetto di offese, insulti e discriminazioni dentro e fuori dal campo: “Per tanto tempo ho pensato di nascondermi e celare la verità, perché volevo diventare un calciatore professionista e nessuno sinora era dichiaratamente gay. Ma non potevo andare avanti così”, dice adesso, “e soprattutto sentivo di non avere ciò che davvero volevo. Adesso provo un sollievo enorme”. E per lui è arrivato anche il messaggio di ammirazione del premier Boris Johnson: "Grazie per il tuo coraggio".
Daniels è una giovane promessa del calcio inglese. Il Blackpool, che milita nella Championship (la “Serie B” dell’Inghilterra) lo ha messo sotto contratto professionistico lo scorso febbraio dopo le sue ottime performance nella squadra under 19, dove ha realizzato ben 30 gol questa stagione, tra cui quello allo Stamford Bridge nella Fa Cup giovanile contro il Chelsea. L’annuncio di Daniels è storico ed estremamente coraggioso perché da oggi è il secondo giocatore calciatore apertamente omosessuale del calcio inglese dopo Justin Fashanu. Il cui coming out purtroppo finì in tragedia. Fashanu, primo giocatore di sempre a dichiararsi gay in Occidente, si uccise a Londra nel 1998 a 37 anni dopo i tanti problemi che gli causò il suo annuncio, incluse accuse di molestie sessuali da un 17enne che lui ha sempre definito come “rapporto consensuale”, anche nella lettera di addio lasciata dopo il suicidio nel suo garage della capitale britannica. Ma Daniels non teme un simile e tragico destino: “Dopo questo mio coming out pubblico, tutto lo stress mentale andrà via. Sono fiducioso. Familiari, amici e compagni di squadra mi hanno dimostrato tutto il loro affetto e sostegno. Non sono mai stato preoccupato. Anzi, molti calciatori del Blackpool mi hanno chiesto: “Perché non ce lo hai detto prima?””.
Cari amici e colleghi, cari lettori fissi o occasionali da quando nel lontano 2004 ( se si considera anche il vecchio splinder ) mi capita e mi è capitato di pubblicare tesi per me non condivisbili sostenute da svariate nostre firme. Ma ne sono felice e anche un po’ fiero, perché non ho mai inteso il nostro blog come una fureria e il mio ruolo di "direttore" come quello di gendarme della verità o dell’accettabilità. Quindi, messa in salvo l’oggettività dei fatti, che varia da persona a persona continuerò a pubblicare ed a lasciar pubblicare post articoli da coloro che vi scrivono direttamente o che trovo sui social o altri siti ed blog ed dopo moderazione ( onde evitare che si faccia flamewar ) i giudizi dei nostri commentatori, anche di quelli più urticanti, stimolanti e provocatori senza alcuna censura se non la mancanza di rispetto . Riservando a me e a chi vorrà l’eventuale diritto di replicare. Ma sempre sul piano dello scambio delle
Come ben sapete , sia che mi seguite qui o sull'appendice facebookiana , il blog è libero e plurale in cui c’è, e deve rimanere, spazio per tutti i collaboratori o semplici commentari nessuno escluso. Ed ogni volta che che qualcuno\a si cancella perchè non sopporta le critiche \ osservazioni com'è avvenuto nell'ultima discussione ( la trovate qui con i relativi commenti ) m'intristisco perchè il blog cosi come la sua appendice social è fatta da utenti \ compagnidistrada che si confrontano civilmente e si scambiano idee e non degli insulti ( specialmente gratuiti e personali perchè anche se a volte succedeun Vaff può capitare ed essere accettato\ tollerato ) , delle scomuniche e degli ostracismi.
Una discussione quotidiana, ancor più necessaria in un momento storico così difficile, che rende tale spazio già di per se caotico vivo e mai appiattito su una singola tesi. Allo stesso tempo, pluralità non vuol dire sempre condivisione. Una cosa sono le opinioni, come quelle sulle responsabilità e le cause della guerra, un’altra le tesi , alcuni di noi inaccettabili ma per sempre da rispettare seppur nel contrastarle Possiamo assicurare a ***** e ***** che hanno partecipato alla discussione ed hanno abbandonato per un semplice rimprovero sui toni usati che se vogliono possono rientrare quando vogliono e replicare i nostri post o i commenti degli altri utenti o gente di passaggio (in quanto i commenti sia qui che sull'appendice social sono aperti anche agli anonimi ) purché seguano le regole di buon senso . Infatti Il dibattito tra noi utenti ed anche con gli esterni testimonia, ancora una volta, che la varietà di opinioni ed punti di vista sono valore da difendere. Ai lettori assicuriamo che il lavoro delle sue redattrici e dei suoi redattori ed pure i commenti anche duri saranno sempre a garanzia della libertà di questo Blog .
Maria V. Longhitano "Io, prima donna vescovo contro i pregiudizi"di Giada Lo Porto
La sua Chiesa è quella episcopale, ramo della famiglia anglicana con lo sguardo rivolto al cattolicesimo ma che non obbliga al celibato 13 MAGGIO 2021
"Avevo dieci anni quando, nella mia Enna, il parroco mi disse che non sarei mai potuta diventare prete". Maria Vittoria Longhitano, 46 anni, non si è arresa. È la prima donna vescovo in Italia, sarà ordinata a Catania il 29 maggio. Fa parte della "Inclusive anglican episcopal church", chiesa della tradizione anglicana, che non obbliga al celibato. Maria Vittoria è sposata, è madre di una bimba di 5 anni e vanta molteplici primati: è stata la prima donna sacerdote ordinata in Italia, nel 2010, la prima a celebrare nozze religiose gay e la prima vicaria episcopale per le comunità di lingua italiana. Per tanti anni alla guida del "Gesù Buon Pastore" di Milano, è tornata in Sicilia nella parrocchia Madonna del Carmelo a Catania.
Quattro risposte a quella frase del parroco. "Penso a quello che dice il Signore: "gli ultimi saranno i primi". Così mi sento. Io che da bambina ho sempre immaginato la mia vita esclusa dall'altare e dai sacramenti. "Gesù non vuole chierichetti o preti femmine", mi diceva il parroco. Sono nata nella chiesa di Roma dove questo è normale: ci pensa che, nel 2021, non esistono neppure donne diacone? E poi c'è l'idea che si associa il vescovo al potere, ai soldi, all'impudenza politica, c'è l'idea che uno faccia il vescovo per mestiere. Io non la vedo così, continuerò a insegnare filosofia al liceo artistico Emilio Greco di Catania, continuerò a guadagnarmi il pane col mio lavoro, allo stesso tempo celebrerò la messa e assolverò a tutti i doveri che questo nuovo titolo comporta. Ho fatto questa scelta sin da quando mi hanno comunicato che sarei diventata vescovo per l'Italia, qualche giorno fa, della "Inclusive anglican episcopal church" (non giuridicamnete legata a Canterbury ndr.). Il lavoro sarà il triplo, ma non mi spaventa". Ricorda il momento esatto in cui ha deciso che sarebbe diventata prete? "L'ho sempre saputo. Da bambina giocavo a dire messa, usavo le patatine come ostie, le sciarpe diventavano stole, ero così piccola che non arrivavo neanche al lavello e battezzavo le bambole nel bidè. Anche lì sono stata pioniera, ho fatto i primi matrimoni gay, ho sposato le Barbie tra loro". Poi però li ha celebrati davvero e per questo è stata minacciata. "Sì, nel 2010. Ho officiato pubblicamente le nozze tra due omosessuali a Cormano, nell'hinterland milanese. Sono arrivate diverse minacce e sono stata per un periodo sotto scorta, erano neonazisti, gente che si firmava con la svastica. Neppure questo mi ha fermata". È stato difficile abbandonare definitivamente la chiesa di Roma, immagino. "All'inizio non volevo e ho cercato la cosa che era più vicina, ossia le suore di clausura. Sono entrata in monastero ma il caso ha voluto che venisse chiuso per le pressioni della Curia perché tra le monache circolavano idee ritenute troppo progressiste. Così mi sono avvicinata alla comunione anglicana". Un anno fa il Papa ha nominato la prima donna con diritto di voto al Sinodo dei vescovi. Uno spiraglio? "Il problema è che purtroppo nella chiesa di Roma l'autorità reale è legata all'ordine sacro, è inutile che nominano sottosegretarie. Una prima vera svolta sarebbe dare l'autorizzazione alla donne diacone. E poi pian piano arrivare al sacerdozio, fino all'episcopato e alla possibilità del pontificato anche per le donne. Come in tutte le altre chiese del mondo. Per fortuna che per me è intervenuta Santa Rita". Cosa c'entra Santa Rita? "Quando ero piccola mia nonna mi diceva sempre che se volevo qualcosa di difficile da realizzare dovevo chiedere a lei. Mi diceva: "Santa Rita è la santa delle cose impossibili". Nel mio paesino, Nissoria, durante la processione le chiesi di aiutarmi. Me ne dimenticai, ma quando il mio vescovo stava guardando la data di ordinazione sull'agenda, l'unico giorno libero dell'anno era il 22 maggio, giorno della festa di Santa Rita. Come faccio a non credere alla comunione dei santi?". Anche Santa Rita discriminata come donna, tra l'altro... "Esatto. Prima perché era vedova e aveva perso la verginità fuori del matrimonio, poi perché aveva sposato un disgraziato. Ma alla fine chi tiene duro vince". Un po' come lei? "Racconto un aneddoto. La mia bimba l'altro giorno alla ludoteca rivolgendosi agli altri compagni ha detto di aver celebrato la messa con la mamma: i bimbi invece di stupirsi hanno iniziato a dire "anche io". La teologia dei bambini ha prevalso sulla discriminazione" La purezza dei bambini. "Quella che ognuno di noi dovrebbe ritrovare".