22.2.16

Un cuore e una capanna sul Tevere: i murales di Laura Galletti pittrice clochard e le libertà roitrovate

Ci sono persone che mettono in pratica concetti filosofici da cattedra sulla propria pelle e con semplicità'  ed  è questa  la prima   storia  o storia  portante  del post  d'oggi 

Laura Galletti, 70 anni, vive in una capanna di fronte al Gazometro, a Roma, sul Lungotevere. Prima di ritrovarsi in strada ha lavorato per 30 anni come grafica pubblicitaria "ma avevo una sola certezza, non volevo certezze", racconta. Alla morte della madre e del suo compagno ha deciso di lasciare i "beni materiali e dedicarsi a Dio". Da oltre un anno sta dipingendo un murales di 20 metri: foglie, fiori e animali, che colorano il grigio argine del fiume



Strartisti di Arianna Di Cori
riprese di Sonny Anzellotti e Leonardo Meuti
montaggio di Mariagrazia Morrone





2 giorni fa
a61
questa donna e' fantastica, secondo me il sindaco di Roma dovrebbe chiederle aiuto su come abbellire la citta', ma penso che lei potrebbe aiutare ad abbellire tutte le nostre citta' ed anche all'estero, ha una forza spirituale che ispira calma. Se in questo nostro mondo tutte le persone fossero come lei in questo pianeta vivremmo molto meglio.

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2 giorni fa
Nicola Piscitelli
Persona gradevole, educata, disponibile, altruista e intelligente da ammirare per la enorme capacità di amore verso ciò che è bello.

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2 giorni fa
gr23gr23
Dove si osserva lo strame che il "mondo civile", fondato sull'individualismo e sull'adorazione del dio denaro, fa delle persone meritevoli.


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2 giorni fa
Vincenzo Di Martino
che bella persona. Che bella anima. Davvero tanto di cappello

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2 giorni fa
kundalini1956
Queste persone dovrebbero essere considerate quasi dei mostri sacri di creatività, invece in un mondo all'incontrario come il nostro, sono gettati ai margini della società. Feccia come Gasparri e i suoi amici di merende impazzano e distruggono tutto ciò che toccano.

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3 giorni fa
tantatanta
in fondo bastan poche briciole,
lo stretto indispensabile
e puoi sorridere e puoi dimenticar.
Ti serve solo il minimo
e poi trovarlo è facile,
lo stretto indispensabile
quel poco che ti basta per campar.
Grazie di avermi fatto sorridere, Laura Galletti

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3 giorni fa
barabeke
Grazie carissima Laura per insegnarci quanto si può essere felici senza avere niente, oltretutto portando bellezza e umanità nel degrado urbano. Il prossimo sindaco si dovrebbe dare da fare per costruirgli una capanna decente in quel luogo dato il servizio che rende alla comunità e al paesaggio urbano con la sua presenza. Una santa moderna.







Sempre  su  tale forma d'arte   riporto anche  quest'altra  storia , lo so che  è di  3  anni fa  , ma  chi  se  ne frega  ,  presa  da  http://www.ilquotidiano.it/articoli/2013/08/2/118138/liberta-ritrovate






Libertà ritrovate

San Benedetto del Tronto | Per ricominciare a sperare a volte basta un po’ di colore.
di Martina Oddi



Coloriamo il carcere




Il comando automatico apre il cancello e passando oltre le sbarre l'ansia comincia a salire. Nel ricordo le immagini delle strutture super affollate dove si consumano abusi e violenze. Ma il carcere di Marino non ha nulla a che fare con i frame scioccanti della tv, e già varcando la soglia del cortile l'ansia lascia il posto a una sorpresa inaspettata.
Entrando nella zona interna, quella che dà accesso alle aule di uso comune, tipo la lavanderia e la biblioteca, ci sono Simuno, al secoloSimone Galiè, Manu Invisible, alias Emanuele Massessi, eGiorgio Lambiase, in arte Je, i writers vincitori del concorso "coloriamo il carcere" indetto lo scorso anno dalla Provincia. Sono concentrati nelle loro evoluzioni acrobatiche con cui dominano tutta la parete, e riescono solo a dire che questa è "un'esperienza interessante mai fatta prima".
Un cantiere di colori e forme ispirate alla libertà, anche per il progetto di Marta Alvear Calderon, Annalisa Accicca e LauraGaletti, le tre studentesse del Liceo artistico di Porto San Giorgio neodiplomate che partecipano all'iniziativa, supervisionata daLaura Cennini, architetto in prestito dal club Unesco.
I muri spruzzati di vernice sono incisi da visi e libri, "simboli della cultura che libera le menti e nutre lo spirito, tanto da impedirti di fare errori, o di ripeterli" sottolinea Teresa Valiani, direttrice del periodico Io e caino, scritto di primo pugno dai detenuti. Nelle lingue gialle, blu, verdi e rosse che corrono lungo la parete verranno incisi messaggi dedicati al tema della libertà nei principali idiomi parlati dai detenuti: arabo, spagnolo, rumeno e albanese.
I murales che prendono vita sotto le mani esperte dei writers, l'atmosfera partecipativa e serena che si respira durante i lavori, tra la curiosità dei presenti coinvolti in prima persona nella realizzazione dei disegni - come Gaston, che quando disegna " si sente libero" - sono merito della lungimiranza di Lucia DiFeliceantonio, la direttrice illuminata che ha reso la casa circondariale un'isola felice nonostante il sovraffollamento. E i calibri da 90 del 41 bis, i super reclusi della struttura che non possono entrare in contatto con nessuno e che nessuno dei detenuti o del personale, se non gli addetti alla sicurezza, possono vedere in faccia.

L'idea che la libertà sia nella testa e si alimenti di cultura si coniuga con le direttive governative orientate a rendere il carcere, nonostante la condensazione umana, un ambiente il più possibile vivibile. Per facilitare la riabilitazione e il recupero sociale dei detenuti, la cultura è lo strumento "per non smettere mai di sognare" capace di dare nuovi stimoli e far germogliare i migliori propositi. "Per uscire con la testa fuori, con i colori, e non vedere tutto in due dimensioni solo in grigio e bianco" spiega Vittorio"Perché - conclude Salvatore - camminare tra queste immagini è come immergersi in una doccia tiepida". La sorgente delle buone intenzioni.

21.2.16

in una terra di desamistade Il grande esempio: Eva Cannas perdonò chi uccise i suoi fratelli




Daniel Lumera  alias  Andrea  Pinna  scrittore sassarese  autore del libro





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La cura del perdono
Una nuova via per la felicità
di Daniel Lumera.
€ 14,02
€ 16,50 -15%
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Descrizione
«La cura del perdono nasce da una sofferta crisi personale che nel 2005 mi ha investito sconvolgendo salute, relazioni, lavoro, amicizie e ideali. Effimero e inefficace ogni tentativo di uscirne. Poi, quasi all'improvviso, ho scoperto il perdono. In genere questa parola fa pensare alla religione o alla psicoterapia. Nel libro che avete tra le mani, invece, si parla del perdono come di un valore universale dell'umanità, svincolato da qualsiasi appartenenza che non sia alla vita stessa. Il perdono fa parte di una nuova educazione alla consapevolezza e alla felicità; una strategia evolutiva che ha effetti positivi sulla salute, il benessere e la qualità della vita. Questo libro è un viaggio dentro il significato più autentico del perdono, attraverso le storie di chi la propria vita l'ha cambiata davvero, di chi ha guarito la sofferenza più profonda, ha imparato ad amare, ha ottenuto successo, ha riscoperto gli affetti. Gli approfondimenti scientifici, la formazione, la pratica possono costituire una premessa per la ricerca di una nuova via alla felicità, un invito a scoprire il senso perduto del perdono, una chiave che può aprire le porte del cuore e far ritrovare equilibri e armonie, fino a guarire relazioni, pensieri, emozioni, corpo e anima.»



ed Eva Cannas [foto a  destra  ]  non si sono mai conosciuti, ma parlano lo stesso linguaggio.
 Lei, donna di Barbagia dal nome inconsueto, ne ha elaborato i codici dopo essere sprofondata nell'esperienza umana del dolore, dell'impotenza e della rabbia. Era da poco iscritta all'Università
quando i suoi fratelli, prima Graziano e poi Antonio Serafino, entrambi di 31 anni, vennero uccisi nelle campagne di Mamoiada, già bagnate dal sangue di inestinguibili faide. Le date sono scolpite nella memoria, oltre che sulle lapidi del cimitero: 24 novembre 1971 e 13 agosto 1973.
Le sono serviti anni, il tempo necessario alla giustizia terrena per formulare la sua condanna, perché la scelta del perdono nei confronti di chi aveva vestito di lutto la sua famiglia diventasse pubblica. Annunciata in maniera laica nel corso di un convegno indetto in paese per porre fine alla lunga catena di omicidi (venti in 7 anni), la sentenza assolutoria ebbe effetto dirompente quando venne pronunciata al cospetto di papa Wojtyla, gigante di fede e di pace in visita nel capoluogo barbaricino. Era il 19 ottobre del 1985. Eva Cannas, professoressa di italiano e latino in pensione, ripercorre le emozioni di quel giorno nella sua casa di Nuoro «che è periferia di Mamoiada», sottolinea per chiarire che non è fuggita dal suo passato.
Lui [foto a sinistra ]  Ha radicato parte delle sue ricerche nel cuore della Sardegna dove la legge della vendetta, fondata su codici non scritti, ha resistito al sentimento di devozione cristiana

che ne avrebbe dovuto cancellare le fonti. Egli deve  alle donne di Oliena lo pseudonimo di Daniel Lumera con cui diffonde, da docente in corsi universitari e formatore internazionale, la cura del perdono. «Abbaida sa lumera», disse una delle intervistate per indicare la luce che si accendeva negli occhi del giovane nell'ascoltare il racconto di riti, credenze e magie di Barbagia. Non c'è riferimento a quell'esperienza nel libro che lo scrittore ha pubblicato con Mondadori. Ne "La cura del perdono. Una nuova via alla felicità" si racconta però la storia di Eva Cannas, la donna di Mamoiada che nel 1985, davanti a papa Giovanni Paolo II in visita a Nuoro, perdonò gli assassini dei suoi due fratelli. La vicenda rientra nella rassegna di storie esemplari a cui l'autore fa ricorso. Laureato in Scienze naturali, specializzato in sociologia della comunicazione e dei processi culturali tra Italia e Spagna, direttore della Fondazione My Life Design, presidente dell'International school of Forgiveness, sebbene apprezzi la forza con cui papa Francesco richiama i cristiani al giubileo della misericordia, non fa del Vangelo il testo-simbolo della sua conversione. Fondamentale, dopo una crisi personale vissuta nel 2005, l'incontro ad Assisi con Anthony Elenjimittan, uno degli ultimi discepoli diretti di Gandhi.

"La traviata" intonata sulla linea rossa della metropolitana milanese. quando l'arte viene spontanea e fuori dai circuiti ufficiali




Pubblicato da Milano Città su Giovedì 18 febbraio 2016


Un grande applauso ai ragazzi dell’Associazione Voce AllOpera !  concordo  con  quanto dice Rosana Badio Dovrebbero farle più spesso queste iniziative... ce tanta indifferenza intorno a noi e in questo modo si potrebbe coinvolgere la gente anche se per un tempo breve a dimenticare i problemi.... bravissimi i cantanti!!!!  su https://www.facebook.com/MilanoAmoreMio/

Che meraviglia! L'opera lirica dovrebbe tornare ad essere ad uso e consumo di tutti, e non mero appannaggio di una casta che può permettersi gli alti biglietti dei grandi teatri; deve tornare ad essere quello che era, una grande arte popolare. Peccato che  in italia  siamo    troppo  timidi  o indifferenti   annebbiati da   tv, calcio, reality show e gossip: siamo come un maglione impigliato in un chiodo di ignoranti e perdi-giorno  salvo eccezioni   se  una  cosa  fosse  successa  in spagna   tutti  avrebbero cantato o  quanto meno partecipato ed   applaudito come   è successo    anche  se  la tecnica  del  flash mobe  è  stata  ujsata  per  un post   di  una banca

20.2.16

"Sarò criminologa perché mio padre uccise mia madre". La nuova vita di Vanessa Cardia ora Mele da Nuoro a Liverpool Laurea e volontariato nei centri antiviolenza «So che cos’è il dolore ma si può andare avanti»




dopo riportata vedere articolo sotto questa ulteriore vicenda capisco il rifiuto della protagonista verso il proprio padre e ho rimosso il mio proposito di contattarla per  intervistarla ai  sui  contatti  (  cellular e , facebook  , email   su  internet      se   sai cercare  trovi  tutto  )   . Infatti  non  mi  è sembrato il caso  dopo aver   riletto   gli articoli precedenti , vedi sopra gli url , che avevo riporto qui sul blog e  quanto da  lei dichiarato   sul corriere  della  sera  18\2\2016


[....]  «Preferirei non parlare di quel giorno» dice lei che adesso sta seguendo un master in criminologia. Il futuro? «Quello che mi piacerebbe fare è lavorare nel settore criminal justice , cercare di aiutare persone che sono state nella mia situazione a capire che si può andare avanti». È la sua parola chiave, «avanti». È stata la parola chiave di quella bambina, diciassette anni fa. Dopo il delitto suo padre la prese per mano, la portò dai nonni e chiamò il 112: «Venite a prendermi, ho ammazzato mia moglie». Vanessa andò a vivere con gli zii materni e imparò in fretta a guardare avanti, appunto. «Devo dire che sono stata una bambina felice» racconta la sua voce allegra. «A parte quel fatto, della mia infanzia conservo soltanto ricordi belli, è come se quelli brutti li avessi cancellati. Non mi è mai mancato nulla e la mia famiglia è stata quella che mi ha cresciuto. Io chiamo mamma e babbo i miei zii, è giusto così». [....] 


M a soprattutto   non dev'essere piacevole  parlare  di questa  vicenda   ancora  non   conclusa   , come potete leggere    dall'articolo qua  sotto , per   quello    che gli   sta  facendo il padre . Non gli bastava   tentativo   fallito    dopo  una  dura battaglia giudiziaria , vinta   dalla figlia   con il  cambiamento della  legge  ,  di  pretendere la pensione  di reversibilità della  moglie   da  lui barbaramente  uccisa .




"Sarò criminologa perché mio padre uccise mia madre". La storia di Vanessa Mele

VANESSA MELE



Vanessa Mele ha vissuto due vite. La prima si è conclusa quando aveva sei anni, si chiamava ancora Vanessa Cardia: il padre Pier Paolo uccise la madre Anna Maria con un colpo di pistola.
Da quel giorno, riporta il Corriere della Sera in un lungo articolo, la bambina ha vissuto con gli zii e ora si è trasferita in Gran Bretagna per diventare criminologa.
"Quello che mi piacerebbe fare è lavorare nel settore criminal justice, cercare di aiutare le persone che sono state nella mia situazione e capire che si può andare avanti", dice al quotidiano.
Vanessa ha 23 anni e ora porta il cognome della madre. Sta frequentando un master in criminologia a Liverpool. I rapporti con il padre si sono interrotti nel giorno dell'omicidio.
"Aveva provato a contattarmi, anni fa, con una email che nel suo linguaggio voleva essere un messaggio di pace. Mi scriveva di aver saputo che ero fuori dall'Italia, che ne era contento e che voleva conoscermi. Gli ho risposto che non ero interessata e che non volevo avevo niente a che fare con lui".
Pier Paolo Cardia era una guardia forestale. Uccise la moglie il 3 dicembre del 1998. E' già uscito dal carcere dopo aver scontato solo 10 dei 14 anni comminati. Ma la sua presenza ingombrante non ha smesso di far soffrire Vanessa. Recentemente, riporta sempre il Corsera, sta ingaggiando una battaglia per ottenere la casa dove la famiglia viveva prima del femminicidio. E poco dopo il fatto aveva chiesto la pensione di reversibilità della moglie che lui stesso aveva eliminato.Gli ho risposto che non ero interessata e che non volevo avere niente a che fare con lui». Il senso era: per me non esisti, lasciami in pace. 
Pier Paolo Cardia ha passato in cella pochissimi anni. Rito abbreviato, indulto, sconti, lo hanno «premiato» con la libertà dopo nemmeno dieci anni dei 14 e otto mesi ai quali era stato condannato. «Appena ho compiuto 18 anni mi sono liberata del suo cognome e ho preso quello di mia madre - racconta Vanessa -. Ricordo che in quel periodo ero scioccata da quell’altra cosa che ha fatto...». Era successo che, appena tornato in libertà, Cardia aveva chiesto e ottenuto la pensione di reversibilità della moglie uccisa. «Sono rimasta sconvolta, ancora adesso non mi spiego perché l’ha fatto. Io non gli ho mai fatto nulla, quella era l’unica mia fonte di reddito...».
Vanessa era all’estero per un anno di studio. Le regole delle associazioni che avevano permesso quell’esperienza erano: nessun rientro a casa e nessuna visita dall’Italia. «Mi chiamò il babbo e Annamaria Busia, la mia avvocatessa. Mi dissero: devi tornare, non possiamo dargliela vinta. Ho mobilitato mezza Europa, ho convinto le associazioni a darmi quattro giorni per tornare e denunciare quello scandalo. Alla fine ce l’abbiamo fatta. Partendo dal mio caso hanno modificato la legge, la regola è cambiata, il diritto alla reversibilità è caduto».
Il capitolo «padre» per Vanessa sarebbe chiuso se non fosse ancora aperta la causa civile per la proprietà della casa, quella del delitto, vuota dal 3 dicembre del 1998. Lui la vorrebbe, insiste. Lei non ha intenzione di cedere. E, per un’assurdità che solo la burocrazia può produrre, l’altro giorno ha ricevuto una cartella esattoriale da Equitalia: vogliono da lei i soldi per le tasse su quella casa non pagate negli anni. Ma Vanessa non è tipo da arrendersi davanti a una cartella. Guarda avanti, ancora una volta. Se ci sarà da cambiare un’altra regola, si farà. 

18.2.16

Olbia, bimbo autistico fa cadere la maestra: genitori a processo L’accusa: il bambino è maleducato. Ma il piccolo alunno protagonista della vicenda giudiziaria soffre di autismo

 da  la nuova  sardegna ed   Gallura   del  18 febbraio 2016
Olbia, bimbo autistico fa cadere la maestra: genitori a processo
L’accusa: il bambino è maleducato. Ma il piccolo alunno protagonista della vicenda giudiziaria soffre di autismo
                               di Tiziana Simula

Bambini e autismo (foto simbolo)

OLBIA. Matteo corre per l’aula, la maestra cerca di bloccarlo, lui le dà un calcio e la spinge. E lei cade. Matteo (nome di fantasia), ha solo otto anni e frequenta una scuola elementare di Olbia. Per quella caduta provocata all’insegnante, avvenuta nel 2014, i suoi genitori sono ora finiti a processo davanti al giudice di pace di Tempio con l’accusa di lesioni colpose. Nel capo d’imputazione viene in sostanza contestato a mamma e papà di «non aver impartito al figlio la dovuta educazione al fine di contenere i comportamenti aggressivi verso se stesso e verso gli altri alunni e insegnanti».
Ma Matteo non è maleducato: è autistico. E il suo comportamento è effetto del disturbo di cui soffre. Per questo, l’altro ieri, in udienza, il difensore dei genitori, l’avvocato Giampaolo Murrighile, ha presentato al giudice un’eccezione preliminare chiedendo il proscioglimento per i suoi assistiti. In mano, la certificazione medica che attesta che il bambino è affetto da “disturbo dello spettro autistico”. Condizione che nel 2014 era in fase di accertamento.
«Ma oggi c’è la certificazione», precisa l’avvocato. Sorpreso e amareggiato per una vicenda giudiziaria singolare, che aggiunge dolore al dolore di una famiglia. «Mi ritrovo a difendere dei genitori che hanno l’unica colpa di avere un figlio autistico».
All’apertura del processo, la maestra (alla quale i medici, a suo tempo, avevano assegnato 15 giorni di cure), si è costituita parte civile. La vicenda giudiziaria, quindi, procede. Ora ad accertare che Matteo sia effettivamente autistico, sarà un consulente nominato dal giudice di pace. L’incarico al psichiatra infantile verrà conferito nella prossima udienza, fissata a marzo. «La vicenda giudiziaria nella sua semplicità è addirittura banale – dice l’avvocato –. Di più grave c’è il fatto che si intenda proseguire nell’offensiva penale contro i genitori pur sapendo ora, se non dal principio, che il bambino è affetto da questa grave disabilità».
La famiglia di Matteo fa parte dell’Associazione autistici “Sensibilmente”. «È un caso emblematico, in cui si evidenzia l’incapacità da
parte dell’insegnante di capire e aiutare il suo alunno – dice la presidente Veronica Asara – All’epoca dei fatti, il bambino era in fase di diagnosi, ma davanti a comportamenti che evidenziano gravi difficoltà, è davvero necessario un certificato o basterebbe un po’ di umana comprensione? ».


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Dolore [ perchè pubblico anche i necrologi sui social e sul blog ]

Chi conosce il dolore, non deve fare differenza tra una ed un’altra morte. Ogni perdita è sempre una mancanza, un dolore e una privazione per qualcuno che resta. Nessuno si erga a giudice e nessuno provi mai a dissetarsi col sangue di un cadavere.

Tempio Pausania, “Una dì ci tocca a tutti”, mi disse. Il giorno è arrivato. Ciao Zio Mario!

da http://www.galluranews.org/?p=13128

Tempio Pausania, “Una dì ci tocca a tutti”, mi disse. Il giorno è arrivato. Ciao Zio Mario!






Tempio Pausania, 18 feb. 2016-
E cosa vuole! Mi ha lasciato sino a quasi 98, i miei anni li ho vissuti”, mi ha detto quel 27 dicembre 2015, quando, ultimo e orgoglioso testimone, ho presentato ai pochi che non lo conoscevano, Mario Aisoni (Pirredda). Lo stavo “braccando” da tempo e mai ero stato fortunato nel trovarlo nel suo appezzamento, appena fuori Tempio, sulla strada Aggius-Sassari, in località Rinaggeddu. Fu l’amicoSergio Todesco ad indicarmelo perché ne aveva testato nel tempo la saggezza e la conoscenza fuori dal normale di tanti segreti della campagna, ad iniziare proprio da quella “devozione” che sentiva per il suo mondo semplice, frugale, privo del tutto di fronzoli ed apparati inutili.


La casa dove ha vissuto mezza vita Mario Aisoni

Era domenica dopo Natale, e quello lo ritengo uno dei giorni più belli della mia vita. L’intervista ad un personaggio singolare, con un bagaglio di conoscenza straordinaria su ciò che riguarda piante e frutti. Una vita da nomade consapevole, per libera scelta, che ho cercato di svelare attraverso quella sua sapienza, mica tanto antica, che  faceva di lui un uomo moderno e al corrente di quello che stava accadendo nel mondo. Oggi se n’è andato, nel silenzio con cui ha voluto vivere da mezza vita. Quella campagna, era la sua vita e in essa ha buttato ogni residua energia sino a lavorarla ancora, non con la stessa forza ma certo con lo stesso immutato amore.
Ciao Zio Mario Aisoni, persona difficile da scordare. Impossibile da non voler bene. Le condoglianze del blog a Giuseppe, suo figlio, con Isabel, alla sorella e ai parenti tutti.
Vi lascio in sua memoria questa intervista che conservo tra i miei ricordi più importanti ed emozionanti.

17.2.16

Terra dei Fuochi, «quello che non ho potuto dire da Vespa» di Anna Spena vita il 16 febbraio 2016 e ECCO CHI ERA ROBERTO MANCINI, IL POLIZIOTTO EROE CHE SCOPRÌ LA TERRA DEI FUOCHI

da http://www.vita.it/it/article 16\2\2016



Ieri [ in realtà era avantieri ] a Porta a Porta








ospiti in studio due mamme che vivono in Campania e hanno perso i loro figli per colpa di un tumore. Eppure il conduttore durante la trasmissione non ha mai usato la parola cancro. Marzia Caccioppoli: «In trasmissione per esempio non sono riuscita a parlare del problema dell'evasione fiscale o del fatto che in Campania non esiste la terapia del dolore. In queste terre la camorra esegue quello che lo Stato colluso le comanda». L'intervista


Marzia Caccioppoli con suo figlio Antonio morto a nove anni e mezzo


Ieri in seconda serata è andata in onda una puntata di Porta a Porta dove si è parlato di Terra dei fuochi. Tra gli ospiti in studio Beppe Fiorello, protagonista della prima puntata della fiction andata in onda in prima serata, sempre su Rai1, “Io non mi arrendo” che nella mini-serie interpreta il ruolo di Roberto Mancini, il poliziotto che per primo indagò sulla questione dei rifiuti tossici in Campania, Loredana Musmeci dell’Istituto Superiore della Sanità e la moglie di Roberto Mancini Monika Dobrowolska. Poi due “mamme delle terra dei fuochi” che fanno parte dell’associazione “Noi genitori di Tutti”, Anna Magri e Marzia Caccioppoli; i loro figli sono morti a 22 mesi e nove anni e mezzo per colpa di un tumore.
Ma alle due mamme è stata davvero data la possibilità di denunciare tutto?
Vita.it intervista Marzia Caccioppoli che racconta quello che avrebbe voluto aggiungere…



Dopo la puntata di Porta a Porta si sono sollevate alcune polemiche. Prima tra tutte, il conduttore Bruno Vespa non ha mai utilizzato, neanche una volta, la parola cancro o tumore. Ha sempre parlato di malattia grave e ha sottolineato più volte che la percentuale della terra inquinata “è solo una piccolissima parte della Campania”…
Quando io e Anna Magri abbiamo accettato l’invito eravamo consapevoli che non avremmo avuto modo di ribattere molto o di raccontare la gravità dei fatti. Queste sono le regole di quel format televisivo.

Allora perché avete accettato lo stesso l’invito?
Per due ragioni. La prima è che se non fossimo andate noi avrebbero potuto invitare qualcuno dei medici negazionisti che non fa altro che peggiorare la nostra situazione. La seconda è che il nostro obiettivo è mantenere alta l’attenzione mediatica sulla tragedia che si consuma ogni giorno nella nostra terra. Saremmo volute andare in trasmissione con qualcuno dei dottori che collabora con l’associazione. Ma questo non è stato possibile.

Cosa avrebbe voluto aggiungere ieri sera?
Che quel 3% di cui tanto si parla e che si tende a banalizzare come una percentuale piccolissima non è poi così insignificante se si considera che è tutta concentrata tra i comuni a Nord tra Napoli e Caserta.
Che quello per cui ci stiamo battendo non è solo il numero di morti per tumore ma soprattutto il numero dei bambini morti per tumore. Sono due cose differenti. Ieri è stato ripetuto da Loredana Musmeci, dirigente di ricerca all’Istituto Superiore di Sanità, che ci sono altre zone d’Italia come Brescia, Gela, Taranto, nella stessa situazione della terra dei fuochi…Il problema è anche questo: la Campania non è una regione industrializzata. Qui si vive ancora di agricoltura. Com’è possibile che ci si ammali allo stesso modo? I rifiuti tossici sono stati sversati per 30 anni tutti i giorni in queste terre. La camorra ha eseguito ed esegue quello che lo Stato colluso le comanda.

Quale altra questione doveva essere approfondita?
Quella dei roghi. Che invece di diminuire aumentano. Avevano parlato di 800 militari da mandare nelle Terra dei Fuochi. Io non ne ho visto nemmeno uno. Però quello che penso io è che le forze dell’ordine devono essere rafforzate sul posto. E che quei soldi invece potrebbero essere investiti nella prevenzione della salute dei bambini.




Anche ieri sera, durate la trasmissione, si è sottolineato più volte che non è scientificamente provato un nesso di causalità tra l’inquinamento ambientale e le morti per tumore…
Tutti continuano a ripeterlo. Invece di parlare venissero a vedere questo nesso al dipartimento di oncologia del Pausilipon o del Santo Bono di Napoli. Negano l’evidenza. Se non c’è questo nesso allora perché nel corpo della maggior parte dei campani che abitano quei comuni c’è piombo, arsenico, diossina. Dicono che la Campania è la regione più giovane d’Italia. Ma se i vecchi muoiono perché sono vecchi e i giovani ce li continuano ad ammazzare, che saremo una regione deserta? Faranno quello che vogliono con questo territorio.

Che vuol dire?
Che hanno deciso di condannarci a morte. A questo punto almeno ci dessero un giorno stabilito. È peggio svegliarsi ogni mattina con la paura di avere un cancro. Qua è diventata una roulette russa.

Qual è la verità che si tiene sempre nascosta?
Il problema principale è l’evasione fiscale. Se tu prendi e arresti uno che sta sversando rifiuti tossici, non fai altro che toccare l’ultima ruota del carro. Magari un rom o un poveretto senza lavoro che si sta guadagnando la mazzetta. Ma a chi appartengo quelle gomme? E quei pellami? Ecco noi mettiamo i microchip ai cani e non riusciamo a tracciare un camion di rifiuto tossici?

Di cosa ha bisogno questa terra?
Di fondi per tutelare i bambini che la abitano. Di controlli più seri. Di qualcuno che ci venga incontro e capisca la necessità di proteggerli. Se a mio figlio Antonio avessi fatto un esame tossicologico forse avrei potuto prevenire la sua morte. Ma l’hanno ammazzato silenziosamente e omertosamente il mio bambino. Questa è una guerra silenziosa.

Tra chi?
Tra lo Stato e noi poverini che subiamo. Lo Stato li avrebbe dovuti proteggere questi bambini. Invece ha ammazzato i figli delle madri di queste terre. Qua se vai a prenotare una visita per un nodulo sospetto c’è una lista d’attesa di cinque mesi. In cinque mesi il cancro ti uccide. Se sei povero nella Terra dei fuochi muori due volte. Quando mio figlio si è ammalato, l’ho preso e l’ho portato fuori dalla Campania. Qui non fanno neanche una terapia del dolore adeguata.

Anche questo avrebbe voluto dire…
Li fanno morire nel dolore. Un’altra delle nostre bambine l’hanno fatta morire con gli arresti cardiaci. L’altro giorno è arrivata all’ospedale Pausilipon una ragazzina di 12 anni con forti dolori alla pancia. La mamma credeva fossero i dolori mestruali. Invece era un cancro metastatico in una delle tube. Abbiamo delle bombe in corpo.

da http://www.famigliacristiana.it  mercoledì 17 febbraio 2016


ECCO CHI ERA ROBERTO MANCINI, IL POLIZIOTTO EROE CHE SCOPRÌ LA TERRA DEI FUOCHI
15/02/2016 La Rai gli dedica una fiction con Beppe Fiorello, ma Roberto Mancini ha fatto fatica a veder riconosciuto il lavoro che gli è costato la vita.
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Elisa Chiari


Aveva un nome famosissimo Roberto Mancini, ma era la fama di un altro, colpa di un’omonimia che portava altrove alla zazzera al vento dell’allenatore dell’Inter e poi del Manchester City e poi di nuovo dell’Inter. La beffa di un destino sgarbato.
Il Roberto Mancini, di cui parliamo, invece, non lo conosceva nessuno e capelli non ne aveva più, portati via dalle cure per il linfoma non Hodgkin con cui aveva combattuto per anni, dopo averne combattuto la causa: i rifiuti tossici, che oggi tutti ricollegano alla Terra dei fuochi, e che Roberto Mancini, da poliziotto, aveva scoperto prima degli altri, rendendone conto in una informativa che risale al 1996.
Quelle carte però restarono in un limbo (che fece dire a un Mancini demoralizzato: “Se fosse stata presa in considerazione forse non avremmo avuto Gomorra”), finché il Pm Alessandro Milita della Dda di Napoli, anni dopo, non la trovò. Chiamò Roberto Mancini e chiese la trascrizione delle registrazioni contenute in quell’informativa vecchia di parecchi anni, servivano per portare a giudizio una trentina di imputati per reati che vanno dall’associazione mafiosa al disastro ambientale, processo tuttora in corso davanti alla Corte d’Assise di Napoli.
Roberto Mancini a quell’epoca è poliziotto da un pezzo, entrato all’inizio degli anni Ottanta, passando per vari uffici, tra cui la Criminalpol e la Catturandi, con indagini su camorra infiltrazioni dei clan nel Basso Lazio, tra il 1997 e il 2001 Mancini collabora con la Commissione rifiuti della Camera, fa tra missioni e sopralluoghi in Italia e all’estero, si espone ai rifiuti tossici e alle loro esalazioni, e nel 2002 si ammala di linfoma. Nel 2010 Comitato di verifica del Ministero delle Finanze mette nero su bianco che la sua malattia viene da una “causa di servizio”, l’indennizzo, 5.000 euro, è poca cosa.
La richiesta di risarcimento danni che Mancini avanza alla Camera per “malattia professionale” si scontra con la burocrazia: l'attività svolta non ha determinato un rapporto di lavoro con la Camera. La risposta che arriva nel luglio del 2013 non è quella sperata, gli si dice che nel periodo della Commissione Mancini, pur collaborando con la Camera, ha continuato a fare il poliziotto, inquadrato nell’Ispettorato di Polizia presso la Camera, e che sarebbe toccato alla Polizia informare Mancini dei rischi diversi da quelli “tipici e propri delle sue mansioni professionali” e cioè dalla pallottola o dall’esito nefasto di una colluttazione più prevedibili nella vita quotidiana di un agente di Polizia.
Mancini non si arrende e non si arrendono neppure i suoi amici: nel novembre 2013 Fiore Santimone, amico di lunga data di Roberto Mancini, lancia una petizione su Change.org, la raccolta di firme schizza, il 6 marzo del 2014 Roberta Lombardi, con un’interrogazione parlamentare, porta il caso all’attenzione del Ministero dell’Interno. E in aprile il caso diventa una manifestazione pubblica in piazza Montecitorio. Roberto Mancini muore il 30 aprile 2014, le firme raccolte intanto sono 75.000, i promotori della petizione le consegnano alla Camera, che poco dopo invia al Ministero dell'Interno tutta la documentazione relativa alle indagini di Roberto Mancini sui rifiuti tossici.
La Presidente della Camera dà mandato perché parta l’istruttoria sulla vicenda. Nel settembre 2014 a Roberto Mancini viene riconosciuto lo status di “vittima del dovere” che non solo certifica la connessione tra la malattia e il servizio prestato ma riconosce alla sua famiglia il diritto al sostegno previsto dalla legge. Roberto ha infatti lasciato una moglie Monika e una figlia, Alessia, che oggi ha 15 anni. Come ha scritto Monika nel messaggio di ringraziamento alle persone che hanno messo quelle 75.000 firme non ci sono medaglia d’oro al valor civile né risarcimento che possano restituire l’affetto perduto ma: “Il suo importantissimo lavoro sul traffico di rifiuti tossici è servito a molte cose e adesso questo è ufficialmente riconosciuto. E’ giusto che chi ha dato la propria vita per il bene di tutti, venga almeno omaggiato dalle Istituzioni”.

Una lampada portatile per illuminare la notte in Mali

http://www.studiomatteoferroni.com/2016/01/matteo-ferroni-it.html



da  http://www.repubblica.it/topics/news/matteo_ferroni-94855388/



Matteo Ferroni

Architetto, nato a Perugia nel 1973 e laureato all'Università della Svizzera Italiana, premiato dalla Città di Barcellona con una menzione d'onore al City to City Award. Nel 2004 viene chiamato da Luca Ronconi per trasformare un'azienda agricola abbandonata nel Centro Teatrale Santacristina e parallelamente entra nel mondo della video arte con un opera esposta al Museo di Valls (Catalogna) e con performance live con Ludovico Einaudi. Due progetti recenti in cui esplora gli aspetti antropologici della luce nel Mali rurale e Città del Messico gli valgono l'attenzione internazionale per il modo nuovo di concepire tecnologia e cultura.




Prima uno studio sulle comunità rurali del Mali e sull'importanza della notte nella loro vita quotidiana. Poi la prototipazione di una lampada a basso costo e facile da produrre. E così la luce collettiva torna a dare speranza (e posti di lavoro) ai villaggi. Al 'Next' l'architetto perugino Matteo Ferroni, papà del progetto 'Foroba Yelen'


di GIAMPAOLO COLLETTI
@gpcolletti
17 settembre 2014
C'è una comunità in Mali che è tornata a vedere di notte grazie anche all'intuizione di un brillante architetto italiano. Così Matteo Ferroni, nato a Perugia e premiato dalla Città di Barcellona con una menzione d'onore al 'City to City Award', ha ridato la luce agli abitanti rispettando il contesto geografico, risparmiando energia e mantenendo inalterato il senso del tempo e dello spazio.
'Foroba Yelen' significa 'luce collettivà ed è la soluzione che sta migliorando la vita degli abitanti dei villaggi rurali del Mali. Si tratta di una lampada da strada portatile che illumina le attività piuttosto che gli spazi. Perché in Mali a causa del caldo che raggiunge livelli molto alti la vita scorre soprattutto di sera e per terra.
Produzione in loco, grazie alla fusione di parti di vecchie biciclette e lattine che vengono plasmate per diventare la testa della lampada. La lampada utilizza l'energia solare e dispone di batterie che possono essere ricaricate nelle stazioni distribuite lungo il territorio. E poi è mobile, trasportabile con facilità anche dalle donne, in modo da dare a chiunque la possibilità di usufruire della luce artificiale.
Per Ferroni, papà del progetto 'Foroba Yelen', è possibile conciliare tecnologia e presenza umana. "Occorre però privilegiare i valori culturali. In questo progetto ho considerato la luce come un fenomeno culturale invece che una sfida tecnologica. Cioè il mio obiettivo non era di portare la tecnologia LED nei villaggi, ma di trasformare l'ombra dell'albero in luce. Le conseguenze sono potenzialmente enormi: invece di installare 40 lampioni in ognuno dei 20.000 villaggi del Mali, basterebbero 4 lampioncini mobili in ogni villaggio", racconta Ferroni, che da questa esperienza ha avviato una ricerca appassionante su etnografia e design.

Energia elettrica fai-da-te, ma non solo. Quali modelli emergenti sta vedendo prevalere nel mondo dell'architettura?

"Mi pare che i giovani architetti stiano cercando nuovi modi di interagire con la città. Riconoscono l'importanza della cittadinanza attiva ed intraprendono esperienze in cui l'architettura è frutto di un processo controllato invece che di un disegno libero. In un certo senso sta emergendo un nuovo modello di architetto più che un nuovo modello di architettura".
E lei personalmente a quali stili guarda con maggiore attenzione?

"Io credo che l'architetto debba cercare di elevare il proprio spirito e chiedersi a cosa serva l'architettura. Per questo guardo con ammirazione l'opera dei maestri del '900 che conoscevano il mestiere e la vita. Nell'Expo del 1937 Josep Luis Sert realizzò il padiglione della Repubblica Spagnola in piena guerra civile presentando la Guernica di Picasso proprio in faccia al padiglione nazista. Ecco, quell'architettura esprimeva degli ideali ed un pensiero sull'essere umano".
Formazione o genialità. Un buon architetto su cosa dovrebbe puntare?
"Decisamente sulla formazione, perché anche la creatività ha bisogno di essere coltivata".

Su invito di Luca Ronconi ha trasformato un'azienda agricola abbandonata nel Centro Teatrale Santa Cristina a Gubbio. Ci racconta l'esperienza?

"In Luca Ronconi ho trovato un maestro, un riferimento come artista e come persona. Avevo solo trent'anni e lavoravo a Berlino quando mi ha chiamato per chiedermi se potevo aiutarlo a trasformare un'azienda agricola delle campagne Umbre nel suo centro teatrale. All'inizio voleva una cosa molto semplice per ospitare attori e poter lavorare entro pochi mesi. Il cantiere è diventato un laboratorio di architettura, con una mia piccola raccolta di libri, modelli di studio e prototipi di mobili. Un progetto a quattro mani nato sul posto senza disegni, o meglio, tracciando linee sui muri, sulle assi di legno e sul cemento".
Dal Mali e dal resto del mondo alla sua Umbria. Che cosa rappresenta la sua terra d'origine?
"L'Umbria ha la dimensione di provincia ideale e non è un caso che venga scelta da tanti artisti internazionali proprio come luogo di lavoro e non come luogo di riposo. Qui il tempo e la prossimità alle persone permettono di sviluppare progetti meglio che altrove. Concentrarmi qui, nelle campagne umbre, è una formazione continua".
Lei ha girato il mondo. Un messaggio ai giovane 'nexter'?

"Direi di guardare l'Europa come la nostra casa e quindi di non considerarsi mai dei fuggiti all'estero".


http://milan.impacthub.net/2013/04/05/matteo-ferrone-pioniere-della-luce-in-mali/






STORIES
Matteo Ferroni, pioniere della luce in Mali
05 APRIL 2013 |



“In Africa ci sono finito per caso. Non ho mai lavorato per la cooperazione internazionale. Però ho lavorato nel teatro. Ogni tanto aiutavo la scenografa di Luca Ronconi. È stato proprio lui, il regista, il committente del mio primo lavoro”. Matteo Ferroni comincia così a raccontare la lunga strada che l’ha portato in Mali, nel cuore dell’Africa subsahariana, dove è stato pioniere di un’invenzione del tutto innovativa nella sua concezione e realizzazione: un lampione portatile a energia solare per far luce (solo quando serve) nei villaggi rurali dove non c’è elettricità.
Tra il teatro e le vie di un villaggio nato al limitare del deserto il collegamento sembra arduo. Eppure c’è, e c’entra anche la luce.
“Lavoravo all’allestimento dello spettacolo di Ronconi‘ Il bosco degli spiriti’, tratto da un racconto africano che corrisponde più o meno al mito di Orfeo. Sul set ho incontrato la cantante maliana Rokya Traoré. È stata lei a chiamarmi per andare a lavorare in Mali. Voleva costruire un teatro all’aperto a Bamako. Abbiamo cominciato, ma ora purtroppo il progetto è fermo a causa del conflitto che ha investito il Paese”.
Ferrone, architetto originario di Perugia, laureato in Svizzera, ha lavorato già in Germania e per tre anni a Barcellona. In Mali viene folgorato dai villaggi, dalla vita rurale: “Contrariamente a quello che mi aspettavo, più che povertà ho visto armonia. La vita è fragile, certo. È facile morire per una malattia. Ma non ho visto la fame. Come architetto mi interessava capire cosa rendeva possibile questo tenore di vita in una comunità con pochi mezzi in un ambiente naturale così difficile, dove il termometro arriva spesso a sfiorare i 50 gradi. Un altro aspetto che mi affascinato era la loro concezione di bene collettivo. I villaggi non sono isolati ma formano delle comunità. Un villaggio, da solo, non potrebbe mai permettersi un mulino per macinare la farina. Allora ci si mette insieme, in cinque, otto villaggi. Così avviene per la scuola e per i centri sanitari, ognuno dà il suo contributo”.
Il lavoro sulla luce è venuto dopo. Matteo comincia a frequentare sempre di più i villaggi e a viverci per periodi sempre più lunghi. Si accorge che i ritmi di sonno e veglia sono diversi da quelli occidentali: la vita sociale si svolge soprattutto di notte, quando il clima è più sopportabile. Per illuminare si usano torce elettriche, nel caso di cerimonie si affittano generatori, che però sono costosi. “Quando ho cominciato a ragionare sulla lucenon ero convinto che fosse indispensabile per la loro vita, mi chiedevo che diritto avessi di cambiare un modo di vivere che fino ad allora aveva funzionato”.
“Intanto continuavo a osservare le persone: mi accorgevo che quando parlavano fra di loro mantenevano sempre una certa distanza. Avevo già vissuto con persone africane a Barcellona e anche loro si parlavano nell’ambito del medesimo spazio relazionale. Vivendo con loro mi sono fatto l’idea che questo spazio relazionale corrisponde all’ombra dell’albero. Durante il giorno sono abituati a condividere questo spazio. Allora ha cominciato a farsi spazio in me l’idea di una luce che corrispondesse all’ombra dell’albero, per illuminare una scena, come avviene sul palcoscenico. Per illuminare la notte dei villaggi ho inziato a immaginare uno strumento che fosse però funzionale alle azioni e alla vita”. I lampioni fissi esistono in qualche piazza di villaggio del Mali, dono di qualche progetto di cooperazione internazionale. Ma Ferrone si accorge che la gente non li usa. Le cerimonie e le azioni sono itineranti e si svolgono in altri spazi. “Mi è venuta così l’idea di creare un utensile per illuminare le attività piuttosto che gli spazi. Concetti come piazza o strada nei villaggi africani non esistono, o perlomeno non hanno lo stesso significato”.
L’utensile deve essere facilmente trasportabile, alimentabile con poca spesa, costruito con materiale reperito in loco. Nasce il prototipo: un lampione posto su un’asta saldato a una ruota e a una batteria caricata a energia solare. “Come architetto e designer ho prestato attenzione all’estetica” afferma Ferrone. “Ho pensato a un utensile portatile, quindi con una ruota, e la bicicletta mi sembrava un oggetto che esprime bellezza ed equilibrio. Infatti mi ha permesso di realizzare un oggetto che arriva a 3 metri e 60 di altezza, porta una batteria ed è trasportabile da un bambino di otto anni”. Tutta la struttura è realizzata da artigiani locali con materiali che si trovano facilmente nei villaggi, fatta eccezione per il led importato dalla Cina.
“Ho cominciato a produrre un prototipo e il giorno dopo il villaggio vicino ne ha richiesto un altro esemplare. In meno di un mese 60 villaggi avevano chiesto al sindaco del villaggio in cui vivevo di poter avere altri lampioni portatili. Il sindaco mi ha fatto chiamare e mi ha chiesto se la mia invenzione si poteva trasformare in un progetto”.
Un aspetto interessante è la gestione collettiva della luce. Ogni villaggio che ne fa richiesta riceve quattro lampioni. A gestirli è un comitatocomposto di rappresentanti di diversi gruppi: ci sono sempre una donna, un anziano, un giovane e un tecnico. Il comitato dà la luce a noleggio eil ricavato alimenta una cassa comune, che poi viene utilizzata per finanziare altre microattività imprenditoriali. La luce unisce le persone, attorno ad attività o a una cerimonia. Facilita lavori che vengono compiuti di notte, dalla vaccinazione degli animali alla pesca sul fiume con le piroghe, alla ristrutturazione di una moschea. “I villaggi non pagano, ma hanno un anno di tempo per ridarci dieci telai di bicicletta che serviranno per costruire altri lampioni”, spiega Matteo. “Per loro è tanto. Un telaio potrebbero venderlo a 8 euro, dieci telai quindi valgono 80 euro”.
La luce portatile, “foroba yelen” in lingua locale, ha vinto il premio innovazione urbana della città di Barcellona. Per sostenere il progetto in Mali Matteo ha aperto la fondazione eLand, con il supporto di Haus der Kulturen der Welt, e ha iniziato un progetto analogo a Città del Messico in collaborazione con l’Università di Barcellona. Di recente è arrivata una richiesta singolare da Marsiglia: la comunità senegalese che vive nei sobborghi della città francese è interessata ai lampioni portatili. Matteo non sa ancora come finirà, ma ormai si è arreso all’evidenza: la luce nei villaggi del Mali serviva, e ha già facilitato la vita di migliaia di persone.

Di Emanuela Citterio – HUB Milano

“Aspettando i pionieri” è una serie di interviste che HUB Milano sta preparando in vista del 3 maggio, data in cui verranno premiati i vincitori del concorso “A caccia di pionieri” promosso da Progetto RENA in collaborazione con HUB Milano, ActionAid Italia, CNA Giovani Imprenditori e La Stampa. Ogni settimana racconteremo il caso di un “pioniere” italiano, una persona, un’associazione o un’impresa che hanno tracciato la via producendo qualcosa di innovativo ed eccellente. La prima puntata è dedicata a Matteo Ferroni, pioniere della luce in Mal

16.2.16

IL sale della terra [ the salt of the earth ] di Wim WEenders è ispirato dall'enciclica Laudato si di Papa Francesco o viceversa ?

  musica  consigliata


per  approfondire
il  sale  della terra   film  
testo integrale  di Laudatio si  di  Papa Francesco
critiche dai  cattolici intransigenti    I II

Dopo aver visto il bellissimo film che : <<< In mezzo a quella inutile e dannosa macchina da propaganda che è diventato il #cinema , è uno dei pochi #film che meritano di essere visti... >> ( commento al trailer ufficiale il sale della terra  di Mario Circello   ) il sale  della terra   . Un film di Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado. Titolo originale The Salt of the Earth. Documentario, durata 100 min. - Brasile, Italia, Francia 2014. 




Mi   sono  deciso  a  parlare  adesso  ( anche  se  in maniera   parziale  e non completa    )    della Laudato si'  la seconda enciclica di papa Francesco scritta nel suo terzo anno di pontificato. Benché porti la data del 24 maggio 2015, solennità di Pentecoste, il testo è stato reso pubblico solo il 18 giugno successivo.
  da  https://www.bookrepublic.it/book/
Di solito  quando sono argomenti molto contrastanti e dibattuti  , aspetto  che    cali il silenzio  e  poi onde evitare  di farmi influenzare  scelgo  di leggere o di vedere   quella determinata  opera  e  poi   ne parlo  in maniera  completa  e non parziale  . Ma il fil  di wenders , mi ha  fatto  cambiare  condotta  .
Dopo   aver    visto  il  film  ho iniziato a   leggere l'enciclica  in questione.  D'essa  mi   sembra  che  il Pontefice  francesco  abbia  visto il film  in questione  o  conosca  la biografia ed  i lavori di   di Sebastião Salgado . In  essa  non c'è  l'ambiente  ma anche  l'umanità  .
 Infatti : << L’enciclica vanta già un primato: è la prima a essere attaccata prima ancora dell’uscita.Gli ambienti della destra mondiale sono già in fermento, pronti a rinnovargli l’accusa di comunismo: dai conservatori ai lefebvriani, ai latifondisti. L'ex senatore repubblicano Usa Rick Santorum - cattolico di origine italiana e con sogni sulla Casa Bianca 2016 – è perentorio: «Bergoglio, lascia la scienza agli scienziati». È fin troppo facile rispondergli che il Papa non si camuffa da scienziato; è stato, è e resta un teologo e un pastore. I critici gli rimproverano le condanne contro il capitalismo assoluto e la dittatura del mercato. Ma sul «Washington Post» il commentatore Chris Mooney esulta perché «Francesco offre al movimento ecologista quello di cui ha bisogno: la fede» e un’anima. >> .  Inoltre  sempre    secondo http://www.lavocedeltempo.it << In sostanza il Papa pone alla base della discussione scientifico-politica un taglio  morale-religioso e le conseguenze della sua scelta saranno profondissime. La Pontificia Accademia delle Scienze afferma: «I cambiamenti climatici indotti dall'uomo sono una realtà scientifica e il loro controllo rapido è un imperativo morale e religioso per l'umanità». L’enciclica arriva cinque mesi prima della cruciale «Conferenza sul clima» di Parigi di fine novembre, che deve stabilire le misure per contenere il surriscaldamento sotto 2 gradi centigradi. Al contrario dei «Protocolli di Kyoto» - mai condivisi dall’America, dalla Cina e dall’India - Parigi 2015 persegue un accordo internazionale verso economie compatibili, a basso tasso di carbone, gas serra, sostanze inquinanti. Inoltre si spera di coinvolgere India e Cina per temperare gli effetti nefasti su oceani, atmosfera, condizioni meteo e limitare disastri, alluvioni, piogge torrenziali, siccità, migrazioni. >> Per la prima volta un’enciclica papale   è stata  presentata da una coralità di voci a significare l’impegno delle Chiese sul fronte ecologico. Interverranno il cardinale africano Peter Kodwo Appiah Turkson, presidente del Pontificio Consiglio giustizia e pace; il metropolita di Pergamo John Zizioulas in rappresentanza del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e della Chiesa ortodossa .
Una  lettura  facile  e scorrevole   a  tuttie non soltanto " agli adetti   ai lavori  "  e  ai  soli  fedeli  . Una  enciclica  che dovrà essere letta   non solo  privatamente  ma  anche  nelle scuole  e  nelle  università  visto la sua  importanza . Infatti  Giulietto  Chiesa   : << (....)  Ma questa enciclica farà il giro del mondo comunque. E’ un’arma potente. Nelle mani 
dei poveri e dei deboli. Sarà dunque bene studiarla ed usarla nei prossimi anni perché è nei prossimi anni che si deciderà il destino del mondo.>> ( da http://www.storiavicentina.it/ più precisamente qui )  Un enciclica che ha trovato d'accordo Gad Lerner giornalista \ opinionista opposto a Giulietto Chiesa Infatti dice : << ( ... ) La portata dirompente dell'enciclica è tale da avere indotto i più autorevoli teorici del nostro modello di sviluppo a relegarla nella categoria, dal loro punto di vista irrilevante, delle utopie. Non mi spiego altrimenti il fatto che - a parte qualche eccezione negli Stati Uniti - nessuno fra i pur loquaci cantori del neoliberismo si sia preso la briga di contestarla puntualmente ( ... ) da http://www.fondoambiente.it/ più precisamente qui
Concludo invitando i detrattori di andare  a rileggersela   se l'hanno letta  o d'andare  a leggerla   se  ancora non l'hanno fatto  . Da i primi capitoli   tale enciclica  è  una estensione \ ampliamento  del concilio vaticano  II . Da  laico credente   penso che Papa Francesco  con essa voglia innovare  e svecchiare  la  chiesa   ma  ancora  non riesce  (  paura  che innovando troppo  si distruggas  metta  in  discussione  milleni  di storia dell'istituzione   della  chiesa cattolica   ed  ha paura  dei  gruppi conservatori presenti all'internodele sue stesse istituzioni  ecclesiastiche  ) . Erano anni ,   dalla  rerum novarum   di leone Leone XIII  1891  che  non si faceva un enciclica  di tale portata  . 
Questa ovviamente  è  la prima impressione , cioè un giudizio   approssimativo e parziale  .  Adesso vado a leggermi l'enciclica  e  ne scriverò  un pensiero globale .  Per  i momento  rinvio all'ascolto della colonna  sonora  del post, ovvero la canzone omonima IL sale della terra  di Luciano  Ligabue    che  è un  sintesi dell'enciclica  laudato si  e  del film di Wim Wenders

15.2.16

Come festeggio San Valentino se sono innamorata ma single? di Sabrynex


Per saperne di più


Chi è Sabrynex
Guarda l'intervista a Sabrynex


da
 http://www.smemoranda.it/post/2023/Come-festeggio-San-Valentino-se-sono-innamorata-ma-single

Come festeggio San Valentino se sono innamorata ma single? di Sabrynex
sabato 13 febbraio 2016 | #pensierini | #CaroDiario | 0 commenti

Riflessioni e pensieri dal diario segreto di Sabrynex, 16 anni, studentessa e già scrittrice





                           Sabrynex

Voglio parlare di San Valentino, una delle celebrazioni più criticate dell’anno. In molti credono sia solo una buona occasione per far spendere al proprio partner qualche soldo in più. Ci si sofferma molto sui regali: cuscini a forma di cuore, scatole di cioccolatini, smartphone (siamo nell’era in cui ogni occasione è buona per regalarne uno!), peluche enormi, mazzi di rose acquistate dall’indiano alla stazione, e chi più ne ha più ne metta.
Cos’è realmente San Valentino? A parer mio è una festa che, col passare degli anni, è diventata più di uso commerciale che sentimentale. I peluche, i cioccolatini, i fiori.. Sono diventati dei cliché. È ormai di routine aspettarsi il solito regalo, la solita sciocchezza comprata il giorno prima che abbia un significato più o meno reale.
Probabilmente il miglior regalo di San Valentino è quello che non ti aspetti, quello che arriva il giorno prima o dopo la festività. Quello che non è un regalo ma una necessità, una dimostrazione vera e profonda.
Un regalo sentito è troppo grande per essere incartato e troppo piccolo per essere visto.
Noi ragazzi abbiamo bisogno di esprimerci con i gesti, le parole, i sorrisi e di scartare quella paura di non essere abbastanza che si gela dietro i propri volti.
C’è bisogno di un contatto fisico, di una dichiarazione sincera che un “ti amo” su WhatsApp non potrà mai sostituire (che spesso non viene nemmeno visualizzato).
C’è una particolarità che però tutti danno per scontata: San Valentino è la festa degli innamorati, non delle coppie.
Il problema è: come fai a festeggiarlo quando sei innamorato, ma single? Gli innamorati single sono ultimi nella catena alimentare dell’amore. Non sono ricambiati, soffrono in silenzio e quando questa festa si avvicina sono quelli che si ritrovano la sera con quintali di gelato e film strappalacrime.
Ci siamo passati tutti, bene o male.
Il vero amore va dimostrato con la presenza, con i gesti improvvisi ma mai scontati. I cliché sono la tomba dell’amore. Anche se la tua ragazza ti dirà «È un pensiero bellissimo!» mentre afferra il tuo regalo, molto probabilmente non sa come dirti che avrebbe preferito qualcosa di meno commerciale ma più sincero.
Per noi ragazzi toccarsi è fondamentale: baciarsi è il miglior modo per esprimere ogni singola emozione, ogni singola paura e ogni singolo istante vissuto in un semplice gesto.
Sfiorarsi le mani, ridere, sentirsi vivi, vivi davvero.
Come quando ti lanci dal ventesimo piano e fino all’ultimo speri di non ferirti. Si dovrebbe vivere con la convinzione che l’amore funzioni in questo modo, che fidarsi è alla base di tutto, anche quando sai che il rischio di farsi male, tanto male, è alto.
Un amore, per essere vero, necessità di essere vissuto fino in fondo. Non bastano le carezze, quelle non bastano mai. Le carezze sono come l’aria, arrivano e poi vanno via. Non ti rimane nemmeno la sensazione di averle ricevute.
Gli abbracci, subito dopo i baci, sono i migliori sigilli mai esistiti. Quando abbracci una persona, non sei mai lontana da lei. Abbracciatevi, fate sentire quanto uniti siete e non abbiate paura di dimostrarlo. Perché la paura, l’imbarazzo, ci ha resi prigionieri di noi stessi.
Abbracciate il vostro migliore amico, perché se San Valentino è la festa degli innamorati, innamoratevi. Non lasciate che questa festa vi rinchiuda in casa a deprimervi perché vi sentite soli, uscite ed innamoratevi di un paio d’occhi, di una risata, di un sorriso e di un abbraccio.

Un programma radiofonico può riaprire un caso d’omicidio?

da http://www.internazionale.it/notizie/ del 14 FEB 2016 11.23 Un programma radiofonico può riaprire un caso d’omicidio? The Economist, Regno Unito
  Adnan Syed a Baltimora, Stati Uniti, il 3 febbraio 2016. (Karl Merton Ferron, Zuma/Ansa)



Di solito i giornalisti raccontano le notizie, non le fanno. All’inizio di febbraio, però, il pluripremiato podcast Serial, un programma radiofonico condotto da Sarah Koenig, ha svolto un ruolo decisivo nel convocare una nuova udienza che potrebbe offrire a una persona condannata per omicidio l’opportunità di provare la sua innocenza.
Nel 2014 Koenig si era interessata al caso di Adnan Syed, un uomo di 35 anni condannato all’ergastolo per aver strangolato la sua ex fidanzata nel 1999. Alcuni dettagli del processo, celebrato nel 2000, avevano attirato l’attenzione della giornalista, che ha passato più di un anno a rintracciare testimoni, gironzolare per Baltimora, rileggere le trascrizioni del processo e parlare con lo stesso Syed per cercare di capire cosa fosse accaduto ad Hae Min Lee, una studentessa di 18 anni scomparsa e ritrovata morta un mese dopo in un parco alla periferia di Baltimora.
Serial è stato un enorme successo, ha avuto più di 70 milioni di download. Questo grazie al tenace lavoro d’inchiesta di Koenig che si è sviluppato in tempo reale, con il pubblico che ogni giovedì mattina aspettava di avere nuove rivelazioni e nuovi indizi. Nel corso dei 12 episodi, il podcast ha indagato sull’uomo dall’aria sospetta che ha scoperto il cadavere di Lee e ha messo in discussione il racconto del testimone dell’accusa che sosteneva di aver aiutato Syed a seppellire la sua ex ragazza.
Koenig ha cercato di verificare la ricostruzione temporale dell’accusa percorrendo in automobile la strada che Syed avrebbe fatto il giorno del delitto. Si è chiesta che ruolo abbiano potuto svolgere nel processo i pregiudizi contro i musulmani. Si è procurata le analisi del direttore di The innocence project, un’organizzazione che usa la prova del dna per scagionare persone condannate per errore. È entrata in contatto con Asia McClain, una compagna di classe di Syed alla Woodlawn high school, che ha raccontato di aver parlato con lui nella biblioteca della scuola proprio nel momento in cui, secondo l’accusa, stava uccidendo Lee.
Serial è in bilico sul confine scomodo tra notizie serie e intrattenimento
Nel novembre del 2014, il giudice Martin Welch di Baltimora ha annunciato la convocazione di un’udienza per decidere se concedere a Syed un nuovo processo. È “nell’interesse della giustizia per tutte le parti coinvolte”, ha dichiarato, che Syed, che continua a proclamarsi innocente, abbia l’opportunità di dimostrarlo in un altro processo. L’udienza si è aperta il 4 febbraio 2016 con due domande all’esame. Primo: i dati del cellulare su cui si è basata la causa contro Syed erano affidabili? L’esperto dell’accusa che ha testimoniato nel 2000 aveva basato la propria testimonianza sulla ricostruzione delle celle che avevano agganciato il cellulare dell’accusato, che però non sarebbe del tutto affidabile. Secondo: il giudice Welch ha ascoltato una nuova testimonianza di Asia McClain, la ragazza in grado di fornire un alibi che l’avvocato di Syed non aveva mai contattato.
Serial è in bilico sul confine scomodo tra notizie molto serie e intrattenimento. Concentrandosi soprattutto sulla ricerca della verità da parte di Koenig, pone quest’ultima un po’ troppo al centro della storia. Ma senza gli sforzi della giornalista e la diffusione della sua approfondita indagine sul caso, di certo Syed starebbe in carcere senza alcuna speranza di tornare in un tribunale. Quest’ultima udienza non gli garantisce un nuovo processo, il giudice potrebbe impiegarci giorni o settimane per decidere se concederlo e, anche se così fosse, non si può prevedere se una giuria valuterà che le nuove prove lo scagionano dal delitto. A differenza di innumerevoli detenuti che negli Stati Uniti vengono difesi in modo inadeguato ai processi o vengono condannati per errore, Syed ha però il privilegio di poter perorare di nuovo la sua causa.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

14.2.16

Sogna il principe azzurro ma sposa un delinquente Massa, solo dopo il sì la ragazza ha scoperto che il marito aveva una lunga fedina penale

in sottofondo una  canzone    d'amore    che  non è  solo   pucci   pucci   e  altre menate  stucchevoli degli innamorati

 

essa e qui in due versioni


http://www.antenna3.tv/  del 2\2\2016

Sogna il principe azzurro ma sposa un delinquente Massa, solo dopo il sì la ragazza ha scoperto che il marito aveva una lunga fedina penale

di  Redazione web
matrimonio
Si sono incontrati in Marocco, lei era in vacanza con alcune amiche e lui bazzicava i luoghi frequentati dalle turiste. È stato amore a prima vista, almeno per la ragazza. Del resto l’uomo è davvero affascinante: trentenne, capelli scuri, occhi castani e colore olivastro. Un colpo di fulmine che si è concluso con un matrimonio celebrato a Marrakesh, come da tradizione con una festa che è stata spalmata lungo tutta una settimana. La donna non ha detto nulla ai suoi familiari, forse perché voleva fare una sorpresa. Ma alla fine la sorpresa l’ha avuta lei perché da una telefonata che il trentenne stava facendo a un amico rimasto in Marocco ha scoperto che dietro quel principe azzurro in realtà si nascondeva un delinquente. E piuttosto rinomato dalle sue parti.
Così dopo aver superato la paura di affrontarlo gli ha chiesto conto di quello che aveva sentito. E lui ha confermato i sospetti: aveva passato parecchio tempo anche in carcere e siccome dalle sue parti ormai si era fatto terra bruciata aveva approfittato di quell’amore vacanziero per cambiare aria. La giovane – non ha ancora trent’anni – è scoppiata a piangere. Quella che credeva essere la realizzazione di un sogno era diventata un incubo. E la situazione con il passare dei giorni è andata peggiorando perché il marito ha iniziato a essere esigente, quando tornava a casa voleva trovare pronto da mangiare. E soltanto piatti della sua terra. Se lei non eseguiva gli ordini la prendeva a sberle.Dopo aver sopportato qualche mese la sposa ha deciso di dire basta. Anche se si è guardata bene dal rivelare a mamma e papà che quello che gli aveva presentato come il suo compagno in realtà era suo marito, si è fatta coraggio e ha chiesto aiuto alle forze dell’ordine. Si è presentata in questura e ha parlato con un agente che ha ascoltato tutta la storia. In pratica la donna vuole trovare il modo per potersi separare da quell’uomo, ma senza che lui sappia niente almeno fino al momento in cui dovrà per forza di cose presentarsi a firmare per mettere fine alla loro unione.
 Impossibile però per la polizia fare questo e lei di firmare una denuncia non ne vuole sapere perché vorrebbe tenere tutto nascosto ai genitori. Dalle verifiche fatte dalle forze dell’ordine la fedina penale del marocchino è risultata anche peggio di quello che pensava la sua dolce metà.

Cara ministra, la prego di non vantarsi dei miei risultati

Come al solito  In  nostri politicanti  hanno  <<  Il vizietto del governo Renzi (in questo caso della ministra Giannini)  di rivendicare risultati anche quando non riconducibili direttamente a loro. Ma stavolta sono capitati male e la ricercatrice italiana Roberta D’Alessandro scrive alla ministra. >>




“Ministra, la prego di non vantarsi dei miei risultati. La mia ERC (European Research Council) e quella del collega Francesco Berto sono olandesi, non italiane. L’Italia non ci ha voluto, preferendoci, nei vari concorsi, persone che nella lista degli assegnatari dei fondi ERC non compaiono, né compariranno mai.
E così, io, Francesco e l’altra collega, Arianna Betti (che ha appena ottenuto 2 milioni di euro anche lei, da un altro ente), in 2 mesi abbiamo ottenuto 6 milioni di euro di fondi, che useremo in Olanda. L’Italia ne può evidentemente fare a meno.
Prima del colloquio per le selezioni finali dell’ERC, ero in sala d’aspetto con altri 3 italiani. Nessuno di noi lavorava in Italia. Immagino che qualcuno di loro ce l’abbia fatta, e sia compreso nella sua “lettura personale” della statistica.
Abbia almeno il garbo di non unire, al danno, la beffa, e di non appropriarsi di risultati che italiani non sono. Proprio come noi.
Vada a chiedere alla vincitrice del concorso per linguistica informatica al Politecnico di Milano (con dottorato in estetica, mentre io lavoravo in Microsoft), quante grant ha ottenuto. Vada a chiedere alle due vincitrici del concorso in linguistica inglese, senza dottorato, alla Statale di Milano, quanti fondi hanno ottenuto. Vada a chiedere alla vincitrice del concorso di linguistica inglese, specializzata in tedesco, che vinceva il concorso all’Aquila (mentre io lo vincevo a Cambridge, la settimana dopo) quanti fondi ha ottenuto. 

Sono i fondi di queste persone che le permetto di contare, non i miei.”

mini


poi come al solito all'interno di questo post  reso da http://violapost.it/2016/02/13/cara-ministra-la-prego-di-non-vantarsi-dei-miei-risultati/ci  sono i  soliti cretini  populisti    che dimostrano    come  l'italia no  cambierà mai 

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Il vero amore non è “tossico“: "Mai giustificare la violenza" La psicologa Lucia Beltramini: "Una coppia su dieci ha atteggiamenti sbagliati"

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