Il filosofo commenta la sentenza che ha condannato il suo convivente. di Emiliano Morrone

Il filosofo commenta la sentenza che ha condannato il suo convivente. «Contro di noi un accanimento senza prove, ho visto una discriminazione invalidante. Vorrei tanto tornare in Calabria>>

da  https://www.corrieredellacalabria.it/ 
Pubblicato il: 11/02/2023 – 12:06



                                      di Emiliano Morrone




«Il professor Vattimo, che è stato il più grande filosofo italiano del Novecento, non può permettersi di avere i problemi comuni legati all’età». È un passaggio della requisitoria del pubblico ministero di Torino Dionigi Tibone, che per il trentottenne Simone Caminada, assistente e compagno di vita di Gianni Vattimo, aveva chiesto quattro anni di carcere ritenendolo colpevole di circonvenzione di incapace. Il tribunale ha poi condannato l’imputato a due anni, addebitandogli d’aver condizionato la psiche del padre del “pensiero debole”, che lo scorso 4 gennaio aveva spento 87 candeline, in modo da diventarne erede unico. Vedremo se l’accusa reggerà in Appello.
Nella sua casa nel centro di Torino, ubicata alle spalle della Mole Antonelliana, Vattimo vive da tempo insieme a Caminada, che l’ha sempre seguito sin dal secondo mandato del filosofo quale membro del Parlamento europeo, svolto dal 2009 al 2014. Cittadino italiano da quasi 38 anni, Caminada ha il diploma in Arte ed è un creativo, uno che sa ragionare alla pari con politici ed intellettuali. Non fa il ballerino nei night club, come spesso di legge in giro. È una persona che si è presa cura del professore, accompagnandolo nelle sue conferenze in Italia e all’estero, dandogli aiuto, sostegno e conforto nei momenti più difficili della vecchiaia. Non è facile fare i conti con la senescenza, soprattutto per uno come Vattimo: allievo di mostri sacri del pensiero come Luigi Pareyson, Karl Löwit e Hans-Georg Gadamer; caposcuola del “pensiero debole” e noto in tutto il mondo per le sue opere; parlamentare europeo per due legislature; già celebrato ospite di Fidel Castro e Hugo Chavez e maestro, tra gli altri, di due figure di primo piano della cultura italiana, cioè Maurizio Ferraris e Alessandro Baricco.
In questa intervista che Vattimo ha rilasciato al Corriere della Calabria, abbiamo discusso del suo rapporto con Caminada, dei possibili limiti della giustizia, dell’attesa beatificazione di Gioacchino da Fiore, dei progetti del filosofo per il futuro e del proprio legame con la Calabria, di cui egli è originario e in cui era ritornato con l’obiettivo di diventare sindaco di San Giovanni in Fiore, provando, recita la sua biografia, a «sconfiggere la degenerazione intellettuale che affliggeva» quel Comune.
Conosco Vattimo dal 2004. Ci lega una profonda amicizia filosofica e personale, perciò ho scelto di dargli del Tu, anzitutto per correttezza verso i lettori del Corriere della Calabria, che il prossimo lunedì 13 febbraio uscirà con un’intervista a Simone Caminada per fornire un’informazione completa sul caso della “strana” coppia, intenzionata, nonostante la vicenda giudiziaria in corso, a contrarre matrimonio.

Gianni, tu ha sempre difeso Simone Caminada, che conosci bene da tanti anni. Che cosa pensi di lui? Credi che il procedimento penale a carico del tuo assistente sia sintomatico di una patologia della giustizia italiana? Fino a che punto la magistratura può spingersi dentro la vita privata delle persone?
«Tutto il bene possibile e sto benissimo con lui. Mi sta vicino e, se non ha cambiato idea quando miei finti amici l’hanno accusato, spero che continui il nostro rapporto come è sempre stato. 
In questo caso Vattimo-Caminada, ma purtroppo storicamente non solo in questo, vedi la cattura a casa propria del latitante Messina Denaro, il sistema della giustizia italiana non fa una bella figura.
Certo, la magistratura può e deve entrare nella vita privata delle persone, se fatti concreti ne determinano il bisogno. Se no, quando? Ovviamente ci sono o ci dovrebbero essere dei limiti. Per esempio, davanti al fine vita, che da anni difendo, e in tanti altri casi, si potrebbe dire, di pietas e umanità».

Giustizia e libertà sono idee, concetti, ambiti spesso contrastanti. La vicenda del tuo legame con Caminada, giudicata in primo grado dal Tribunale di Torino, può servire a riaprire il dibattito, anche a livello politico, su una più ampia riforma della giustizia?
«Certo. Molti problemi della giustizia di oggi fanno parte di annosi dibattiti che ancora non hanno trovato soluzioni e stancamente si trascinano. Per esempio, secondo te è giusto smanicarsi per il così detto “politicamente corretto”, scrivere leggi, fare propaganda politica eccetera, quando poi cittadini italiani di diversa nazionalità d’origine, come Simone, vengono indicati dai giornali come “brasiliano”, “zingaro” ed altro ancora, dando implicitamente adito al più inconscio e becero razzismo? Più che pensare ad una riforma della giustizia o parlare il politicamente corretto, bisognerebbe ritornare al precetto cristiano dell’amare il prossimo come se stessi».

Ritieni che la dialettica politica sulla giustizia sia oggi dominata dallo schema giustizialisti contro garantisti e viceversa? Tu ha un’altra visione in proposito?
«Diciamo che non so bene da che parte schierarmi e in fondo puoi comprendermi, visto che sai perfettamente che cosa penso delle verità assolute. Non so nemmeno se ho un’opinione che venga da miei pensamenti più o meno liberi, dal mondo che mi circonda, da ciò che sono, leggo, faccio, vedo e dico. Chi di noi si può dire del tutto libero di pensare?». 

Professore, come stai? Ti senti vittima di circonvenzione?
«Sto abbastanza bene, a parte qualche piccolo acciacco passeggero. Tutto sommato, ora che ho anche dei medici fidati, non avverto più tanti problemi che lamentavo diversi anni fa. Tengo a precisare che il 99 per cento dei medici cui mi affidavo non era costituito da gente che voleva i miei soldi o da loro amici.
Ora mi sono reso conto che avevo dei pessimi amici. Mi riferisco ai testimoni dell’accusa, e non solo a loro. Quindi mi dovrei sentire una vittima, una loro vittima loro e non certo di Simone. Anzi, se penso che Simone, o uno come lui, poteva non esserci nella mia vita, inorridisco immaginando come sarei finito male in preda ai loro sorrisi costosi».

Sei arrabbiato perché la stampa nazionale ha raccontato a fondo il tuo rapporto con Caminada e si è occupata molto meno delle tue opere, del tuo grande contributo alla filosofia?
«Non ne faccio colpa ad alcuno. Era quasi ovvio che se ne sarebbe parlato, dati i presupposti da romanzetto a puntate. Certamente avrei preferito leggere, come prima, dei contenuti; pure di filosofia e di ciò che mi ha sempre riguardato. Vedere l’accanimento su di noi senza prove, e con una certa perfidia, non è stato piacevole. Né è stato bello sentirmi in difetto perché alla mia età ho usato qualche volta la carrozzina per degli spostamenti. Ho visto una discriminazione invalidante, non tanto per me, quanto per il giornalismo italiano». 

Di che cosa ti stai occupando in ambito filosofico?
«Emiliano, purtroppo in questi anni ho dovuto badare più a queste sciocchezze che a ciò che mi interessa davvero. Devo ammettere, però, che la produzione di libri, convegni e dibattiti negli ultimi anni è andata via via riducendosi, anche per colpa delle chiusure delle Regioni, dei lockdown causa Covid. Ora che la situazione sembra normalizzarsi, mi piacerebbe provare a pensare, filosoficamente parlando, a quanto l’esperienza della pandemia, del tutto straordinaria, abbia colpito i giovani e le fasce più deboli».

Ti senti incompreso, fuori del tempo, un pesce fuor d’acqua, un povero cristiano perseguitato, un pensatore fuori moda? Credi che il sistema pubblico ti stia facendo pagare il tuo desiderio di libertà?
«Mi aspettavo, anche se tanto ovvio pare non essere, maggiore rispetto per le mie condizioni di anziano. Non mi riferisco al rispetto in quanto giornalista, professore universitario ed ex parlamentare europeo. Mi bastava solo quello alla persona, ai suoi diritti e alle sue lecite debolezze umane, nonché a quelle fisiologiche dovute dall’età.
La battaglia che con Simone stiamo portando avanti è molto attuale. È l’ennesimo caso in cui si scoperchia il vaso di Pandora del classismo e del razzismo che alberga in chi si crede migliore di qualcun altro per censo o per nascita. Nel caso di Simone, ma non solo nel suo, il razzismo è dipeso dal colore della pelle. Però, vedi, c’è anche tutto il discorso, da difendere, di chi come me ha una pensione un po’ più ricca della media e qualche soldino da parte. 
Pensa che oggi molti settantenni e ottantenni sono ex professionisti che vivono non più solo dei frutti dell’orto ma anche di pensioni di un certo livello. Ecco, queste persone domani dovranno temere che un parente, ma non è assolutamente il mio caso, o qualche medico possa certificare di trovarsi di fronte a un “malato di vita” e quindi dare luogo a sciocchezze, pure senza portar prove».

Tu sei originario della Calabria. Che ricordo ne conservi?
«Io sono di Cetraro e ne ho un ottimo ricordo. Poi, venuto a Torino, ero bollato come “terrone”. Ma questo è durato relativamente poco e va bene così, insomma. 
Ora come sarà Cetraro? Prima del Covid, Simone e io avevamo compiuto diversi viaggi di lavoro in Calabria. Mi piacerebbe tantissimo tornare in quei luoghi, come San Giovanni in Fiore o Soverato. E mi piacerebbe visitare le università calabresi, piene di studenti, ragazze e ragazzi, umanamente belli. Tutte queste città, compresa la mia Cetraro, sono nel mio cuore. Magari riuscirò un giorno a rivederle».

Nel 2005 ti candidasti per diventare sindaco di San Giovanni in Fiore, affascinato dalla figura dell’abate Gioacchino. A 18 anni da quell’esperienza, che cosa ti senti di dire a quei giovani, ormai adulti, che ti sostennero con l’idea di cambiare la politica dal basso?
«Ragazzi resistete, siate “deboli” e non accettate mai le verità che vogliono opprimere le bellezze che sono dentro di voi. Non accettate chi inneggia alle differenze, chi vuol spingervi alla ricerca del denaro come fonte di felicità e successo. Beh, certo, tanto infelici a volte il denaro non fa! Ribellatevi sempre e comunque a chi mercanteggia sulla vostra pelle e su quella dei vostri cari. Insomma, non siate indifferenti: parteggiate, siate partigiani. Non ve lo dico io, ve lo dice Gramsci e certamente Gioacchino da Fiore».

Nel 2021 proponesti un accostamento tra la figura di Papa Francesco e quella di Gioacchino da Fiore. Nutri qualche speranza sulla beatificazione di Gioacchino da parte del Pontefice?
«Assolutamente sì, nutro una forte speranza. Il momento è buono e Papa Francesco è un rivoluzionario come lo era Gioacchino».

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