«CIMERITEREMMO PIÙ ATTENZIONE, PER TUTTI I SACRIFICI CHE FACCIAMO», SPIEGA L’AZZURRA BEATRICE RIGONI. «VOGLIO DIVIDERE IL PREMIO CON LE MIE COMPAGNE. SE HO VINTO, IL MERITO È ANCHE LORO»
In principio, nello sport, l’importante era partecipare. Ben presto, tuttavia, prevalse l’idea che fosse molto meglio vincere. Ai giorni nostri si è imposta infine un’altra necessità. D’accordo battere gli avversari. Perfetto diventare il numero uno. Ma a cosa serve, se i media non ne parlano? Se l’è chiesto, teneramente, Anna Pedrina, madre della padovana Beatrice Rigoni, entrata nel Best XV di World Rugby 2021, la selezione delle 15 giocatrici più forti del pianeta, ruolo per ruolo. La signora, farmacista a tempo
perso e tifosa della figlia perdutamente, ci ha scritto una dolcissima mail, per lamentare il relativo silenzio stampa sull’impresa della sua ragazza. E noi siamo qui, pronti a rimediare. Beatrice, ti chiediamo scusa a nome di un Paese calciofilo e ancora un pizzico sessista. Quest’anno sei stata il miglior centro del mondo. Nessuna rugbista italiana ha mai ottenuto un trionfo simile, come sottolinea ad abundantiam la tua mamma. Quanto ti rode, da uno a quindici, che i giornali non ne abbiano parlato abbastanza? «Diciamo dodici, dai! È il mio numero di maglia, legato alla posizione che ho, in mezzo al campo», scherza Rigoni, con apprezzabile ironia. «La passione e le vittorie sono il nostro carburante. Siamo a posto così. Però un po’ di attenzione in più ce la meriteremmo. Se non altro per tutti i sacrifici che facciamo».
Sei una sorta di “dieci” calcistico, la cifra che appartiene ai grandi del pallone? «Niente confronti, grazie.
Tra l’altro, non amo particolarmente il football. Preferisco il basket della Nba. Piuttosto ci tengo a sottolineare che il premio va condiviso con mie compagne. La nostra Nazionale ha raggiunto traguardi notevoli. Siamo arrivate seconde al Torneo delle Sei Nazioni. E ci siamo guadagnate la qualificazione per la fase finale della Coppa del Mondo. L’anno prossimo vivremo una grande avventura in Nuova Zelanda, la patria del rugby. Sono emozionatissima».
Siete meglio degli uomini, verrebbe da dire... «E diciamolo pure», interrompe con un sorriso malizioso Beatrice. «È un dato di fatto. Intendiamoci, non c’è alcuna rivalità con i nostri colleghi azzurri. Anzi, siamo in ottimi rapporti. Nella mia concezione dello sport non esistono differenze di genere. Se vedo una partita, tifo Italia. Non guardo se in campo ci sono uomini o donne. Purtroppo c’è una mentalità da sconfiggere». In effetti, all’alba del 2022, c’è ancora qualcuno che distingue le discipline adatte ai maschietti da quelle consone alle femminucce. «Per fortuna mamma e papà non “ragionano” così. Sono i miei primi tifosi e assistono sempre alle partite, perfino se non gioco, magari per un infortunio. Ho iniziato a 6 anni. Seguivo le orme dei miei fratelli, che hanno smesso presto. Fino alla terza media sono
stata in team misti, assieme ai ragazzi. Poi l’approdo in una squadra femminile, il Petrarca Padova. E infine il Valsugana, il mio attuale club, dove mi trovo benissimo. Ho vinto tre scudetti e ho il campo a un quarto d’ora da casa!». Per le ragazze del calcio è imminente lo sbarco nel professionismo. Voi come siete messe? «Questa meta per noi è lontana. Per fortuna la federazione ha concesso 15 borse di studio e io sono tra le beneficiarie. Nel mio futuro c’è la farmacia di mamma. Sono iscritta alla facoltà di Ferrara. Mi manca qualche esame». Esiste addirittura una vita sentimentale o manca il tempo? «No comment! Ho due allenamenti quotidiani, le giornate sono molto piene tra campo e studio....». A tal proposito. Capisco che sei giovane, ma fino a quando pensi di giocare? «Ho un obiettivo: arrivare a cento presenze in Nazionale. Ne ho 49. Sono a metà strada».
Il programmatore Kovid Kapoor ha deciso di rivendicare la sua scomoda identità prendendo in giro sé stesso su Twitter. E spiegando che è una parola sanscrita che significa saggio. Ma altri Kovid, stanchi delle battute, preferiscono presentarsi con nomi fittizi per evitare problemi nei rapporti sociali
di Carlo Pizzati
CHENNAI
"Mi chiamo Kovid, ma non sono un virus". Nomen non è sempre omen. Questa storia inizia con un programmatore di Bangalore, la Silicon Valley indiana, che ha un buon sense of humour e ha trasformato il suo nome, troppo simile a quello di un virus, in un fenomeno virale. Si chiama Kovid Kapoor, è il co-fondatore della start-up Holidify, ed è riuscito a trasformare una brutta coincidenza in una buona dose di popolarità. Invece di prendersela per il fatto che il suo nome suona proprio come il Covid, Kovid Kapoor ha deciso di prendere in giro sé stesso su Twitter.
"Metà delle persone che incontro per la prima volta, ovviamente, commentano il fatto che ho un nome scomodo", dice Kapoor. "Io spiego che in realtà si pronuncia Koviddah, come se ci fosse una 'ah' alla fine. Poi dico che è una parola sanscrita importante, che viene recitata anche in un mantra rivolto al dio Hanuman. E che vuol dire 'saggio'. Doveva essere un complimento, un nome così. Invece è diventata una parola che fa tremare il mondo".
Così, dopo le prime difficoltà, Kovid Kapoor ha deciso che bisognava prenderla alla leggera. Anche quando il pasticciere al quale aveva ordinato la torta per il suo compleanno ha sbagliato la scritta: "Tanti auguri, #Covid-30!" questa la frase che Kapoor ha trovato vergata con la glassa bianca sul dolce di cioccolata. Quando un utente che lo segue su Twitter lo ha provocato scrivendo "Immaginatevi cosa succede se questo si beve una birra Corona", lui ha subito postato una foto mentre regge una birra Corona con un sorrisetto sornione. E ha twittato: "Sono Kovid positivo dal 1990", la sua data di nascita. Per gli incontri più seri e per non avere scocciature, Kapoor ha cominciato a farsi chiamare "Kabir," così da evitare le battute e passare subito al business.Prima di annunciare il nome del nuovo virus, nel febbraio di due anni fa, Tedros Adhamon Ghebreyesus, alla guida dell'Organizzazione mondiale della sanità, ha dovuto valutare molti aspetti con un comitato di esperti. "Dovevamo trovare un nome che non facesse riferimento a una località specifica, a un animale, a un gruppo di persone o a un individuo e che fosse facilmente pronunciabile", ha spiegato Ghebreyesus. Ma l'Oms non ha risparmiato però tutti quelli che si chiamano Kovid, nome che in India può essere sia maschile che femminile.
Kovid Jain si è sposata a Indore nel dicembre del 2020, quando il suo nome non aveva ancora le connotazioni nefaste che ha oggi in India, prima dell'ondata di morti che ha colpito il Paese nella primavera del 2021. "Le mie amiche ridevano dicendo 'Kovid che si sposa nell'era del Covid'. Sulle prime, era buffo. Ora non uso più il mio nome in pubblico, per evitare di farmi prendere in giro. Chiedo di chiamarmi KJ e quando ordino il cibo online uso il nomignolo che usa mio marito, Koko".
Anche Kovid Sonawane, di Nagpur nel Maharastra, pur comprendendo il lato buffo della coincidenza, si dichiara "piuttosto irritato dalla correlazione" tra il suo nome e la malattia. Soprattutto quando a ridere non sono amici, ma degli sconosciuti. Lo scrittore e regista indiano-americano Kovid Gupta, che vive a Houston, Texas, dice di essere un po' stanco di sentirsi dire "arriva Kovid, meglio stare alla larga" oppure "ho sentito dire che sei contagioso, di questi tempi". Ma è andata peggio a Kovid Bhayana, studente al terzo anno di medicina alla Howard University di Washington D.C. "Non è un nome molto facile da avere, per un medico", ammette, "sì, può essere utile per cominciare a chiacchierare con degli sconosciuti ridendoci sopra, ma non funziona per niente bene con i pazienti con problemi di udito". E a quanto pare, lo studente di medicina dice che, di questi tempi, il suo nome non funziona per niente bene sulle app di incontri. "Così, ho cominciato a presentarmi come Kevin".
Francesco Malgeri non ha alcuna intenzione di rinunciare a seguire la sua squadra. Lo fa da quando aveva 12 anni. Il suo nome è citato anche nei cori dagli spalti.Fra i tifosi foggiani nonno Ciccio è una vera leggenda, tanto che il suo nome è citato anche nei cori dagli spalti. A 92 anni non ha nessuna intenzione di rinunciare a seguire la squadra del cuore.Francesco Malgeri, alias Nonno Ciccio, è l’ultrà più emblematico di stereotipi al contrario sul complesso universo del tifo delle curve.
Nonostante abbia 92 anni non ha mai abbandonato lo stadio del suo Foggia, la squadra che segue da 80 anni, e di cui è diventato una sorta di simbolo da estendere, esportare. Nonno Ciccio è l’ultras più anziano d’Italia, suo malgrado. Un tifoso che ama aggregarsi e mescolarsi con gli altri, manifestando con costanza la sua filosofia del tifo.
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La pioniera dell'oro etico: "La bellezza è fragile"
Francesco Giovannetti
Mara Bragaglia ha 29 anni, un passato da studentessa di filosofia e un presente da artigiana. Dieci anni fa ha portato in Italia la certificazione solidale per i gioielli . Approfondendo taler storia ho trovato su https://maraismara.it/pages/etica
La bellezza dell'etica
Il mio motto è «La bellezza è fragile» e vuol dire che la bellezza non può essere separata da ciò che è giusto e da ciò che è vero, che l'estetica deve sempre riferirsi all'etica. Nel 2016 abbiamo introdotto Oro Fairtrade in Italia, facendo di Maraismara il primo primo laboratorio orafo certificato del Paese, e scelto di utilizzare e supportare solo materiali preziosi ad esso coerenti. Cominciai interrogandomi sul significato di “fatto a mano”, in particolare riflettendo su quanto fosse semplice sfruttare la narrativa evocata da questo concetto tacendo tutto il resto. “Fatto a mano”, nell’accezione comune, ha a che fare con la qualità e la genuinità, eppure un diamante di sangue può avere le stesse caratteristiche di uno estratto e tagliato responsabilmente, così come l’oro certificato Fairtrade è fisicamente identico a quello estratto dai bambini indonesiani che usano il mercurio a mani nude. Più muovevo passi in questo settore, desiderosa di padroneggiare le tecniche necessarie a costruire una linea diretta tra mente e mani, più viaggiavo e parlavo con i fornitori, più imparavo a porre domande.
Bisogna guardare in maniera sorvegliata all'espressione "gioielleria etica", soprattutto ora che c’è sempre più interesse, da parte delle persone e delle aziende, verso una maniera di fare le cose più buona. Parole come 'responsabile', 'etico', 'onesto', 'sostenibile', 'buono' ed 'equo', per nominarne alcune, si ammassano e confondono, creando una nebulosa di significati nella quale resta difficile orientarsi. Si tratta di una espressione fuorviante perché si agisce sempre secondo un’etica, anzi, è proprio perché agiamo che siamo guidati da un’etica. “Etica”, dunque, non è una parola qualificante: la mia etica, ad esempio, potrebbe contemplare le pratiche della pena di morte e del lavoro minorile, oppure potrebbe aborrirle. Il mondo della gioielleria, inoltre, è così complesso che alcuni concetti, pur se facilmente applicabili ai settori più disparati, vi fanno cortocircuito. Il riciclo, ad esempio, non può intendersi come una pratica virtuosa eccezionale, perché è solo un’abitudine millenaria di ragionevole buon senso che nasce già con i primi esperimenti di metallurgia e che nessuno ha mai abbandonato. L'oro, i diamanti e le gemme preziose non vengono mai sprecati, ma sempre raccolti, rifusi, ritagliati e riutilizzati (approfondisci). Un'azienda orafa può essere responsabile o anche sostenibile. Agire in maniera responsabile vuol dire fare le cose semplicemente in modo giusto: assicurarsi che le proprie pratiche rispettino dei requisiti, obbligatori o volontari, che hanno lo scopo di tutelare i diritti umani, la salute, la sicurezza e il compenso equo dei lavoratori, e la salvaguardia ambientale. In Italia alcuni requisiti obbligatori, anche se estremamente minimi, sono sanciti dallo European Union regulation on responsible sourcing of 'conflict minerals' (in vigore dal 2021). Tra i requisiti volontari, che però dovrebbero rappresentare l'impegno minimo di ogni azienda orafa, l'esempio più importante è costituito dall'OECD Due Diligence Guidance. Quando tutte le pratiche di responsabilità saranno state implementate con successo, allora si potrà considerare di migliorare cominciando a promuovere pratiche di approvvigionamento sostenibile. Operare in maniera sostenibile, infatti, significa fare di più, ovvero meglio e bene: generare un impatto anche positivo per le comunità e/o per l'ambiente. Le aziende sostenibili conoscono veramente le loro filiere, sanno dove potrebbero generare più effetti positivi e agiscono, anche collaborando con altri per ampliare la portata di questo impatto; sono trasparenti sui loro progressi e militano pubblicamente in favore dell'approccio sostenibile. Se con l'espressione «gioielleria etica» si vuole intendere degli artefatti capaci di generare un impatto positivo in virtù della loro stessa ideazione, realizzazione e commercializzazione, allora la sua strada dovrà essere, fin dove possibile, quella della sostenibilità. Scegliere di utilizzare e supportare solo materiali preziosi buoni non è stata - e non sarà mai - la scelta più semplice da fare, ma è l’unica che posso concepire. Bello e buono si sovrappongono e rivelano a vicenda, perciò credo che non sia possibile creare qualcosa di pregevole ignorando la storia dei materiali impiegati, mancando di cura verso ciò che ci circonda, anche quando questo approccio impedisce la messa in forma del gioiello stesso.
Infatti : << Se la società, se l'uomo progredisce, è perché genera. Non c'è progresso senza creazione, creatività, generazione di idee, cura di altri uomini, cura di nuove generazioni, di impresa, di avventura, di scoperta, di invenzione. >> ( Giuseppe Morici )
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la domanda elucubratoria che mi faccio vedendo il video che trovate sotto è : Amore o opportunismo dovuto al covid . Infatti Effetto Covid: nel canile 329 adozioni in un anno
Segrate è una delle strutture più grandi, in cui arrivano cani anche dalle regioni del Sud. Nel 2021, nove su dieci hanno trovato famiglia. Grazie anche ai volontari
E' accaduto durante la partita tra il Cura e l'Allumiere. Risolutivo l'intervento del tecnico della squadra ospite che era stato appena espulso repubblica 09 GENNAIO 2022
di Alessio Campana
Il portiere soccorso (foto di Giovanni Luziatelli)
Ventottesimo minuto della seconda frazione di gioco della partita di calcio tra Cura e Allumiere. Prima categoria laziale, il cuore del pallone dei dilettanti. Il parziale è di 1 a 1, sul campo Luigi Nagni di Vetralla, quando la paura s'impossessa degli uomini in campo e il calcio giocato, improvvisamente, smette di essere - per dirla alla Pasolini - la rappresentazione sacra del nostro tempo. Uno scontro di gioco scuote gli animi dei presenti: il portiere della squadra ospite, Tiziano Galimberti, si accascia a terra e perde i sensi. "Ha sbattuto il viso sulla coscia di un nostro giocatore", racconta a Repubblica un altro protagonista di questa storia, David De Paolis, tesserato con i locali del Cura. Galimberti non si rialza. Il capitano e il resto dei suoi compagni di squadra gli si avvicinano per
sincerarsi delle sue condizioni mentre i soccorsi raggiungono in fretta il terreno di gioco. Urla, mani nei capelli, sul volto, facce incredule e disperate. Si teme il peggio. A salvargli la vita sarà proprio l'allenatore avversario, De Paolis, che pochi minuti prima era stato espulso e per questo sedeva in tribuna. "Quando ho visto il portiere con i pugni chiusi ho capito subito. - dice -. al corso per allenatori Uefa B, che ho frequentato, due lezioni erano riservate proprio a queste situazioni e mio padre, accanto a me, ha gestito per anni una palestra". De Paolis non ci ha pensato due volte: "siamo entrati subito in campo. Il portiere aveva ingoiato la lingua e serrato la mascella. Al quel punto ho messo le dita dietro alla mascella stessa per farla aprire, mentre mio padre cercava di farsi strada tra i denti per aprire il più possibile la bocca. Una volta aperta al punto giusto, considerando che né io né mio padre avremmo potuto lasciare la presa, una terza persona,
Zimmaro, ha tirato fuori la lingua". Galimberti, in questo momento, si trova all'ospedale Belcolle di Viterbo: "risponde bene ai medici", dice ancora De Paolis, "credo che in campo nessuno sarebbe riuscito a fare qualcosa, abbiamo evitato il peggio".
Ieri dietro al banco salumi di un negozio di alimentari di Tempio un dottore tamponava tranquillo una dipendente del negozio proprio lì, a pochi passi dai miei due etti di prosciutto crudo.
Le colleghe della tamponata ridacchiavano tentando maldestramente di nascondere l'accaduto
mettendosi davanti alla scena surreale.Avuto l'esito negativo del tampone, la commessa è andata in lacrime alla cassa (lacrime post-tampone) e ha commentato dicendo "uai cantu m'è dulutu" (oddio quanto mi ha fatto male).Il mio prosciutto crudo, indignato per così poca igiene, si è trasformato nel maiale che fu, è andato dal dottore e gli ha detto: - ma no vi ni feti la algogna duttò? ( ma non vi vergognate dottò?) Il dottore, di fronte al resuscitato maiale, ha fatto mea culpa: - eh uai mí eti rasgioni, ci pudiami puni forà a fà lu tamponi, mancu li polci sò cussì zozzi !(eh, avete ragione, potevamo metterci fuori a fare il tampone, manco i maiali son così zozzi !) Il maiale si è molto risentito per la battuta e, offeso, è scappato via. Ho dovuto ripiegare su un panino pomodoro e mozzarella.
<<[...] C'è un'AltrItalia che vive e si diffonde\ Non la trovi sui giornali, la TV ce la nasconde \E' un'AltrItalia che ti tende la mano \Migliaia di volti di un paese in cammino [... ] >>
( qui il resto del testo ) ed è proprio questa la storia che l'amato - odiato Lorenzo Tosa che ci racconta e che qui riporto . LKo so che non sono storie mie o da me trovate sul campo , ma sono storie come questa e quelle citate nella canzone sopra riportata che ci fanno andare avanti ed resistere . Una storia piena di umanità, che scuote gli animi di chi non vede il dolore e la solitudine intorno a se e cieco continua a ignorare. Riposa in pace grande uomo
Esso era un Ristoratore sociale, sostenitore di “Libera”, nella sua pizzeria al quartiere Pilastro assumeva solo dipendenti delle categorie fragili, usava quasi esclusivamente prodotti che arrivavano dalle terre confiscate alle mafie. Per anni è stato il volto dell’antifascismo e dell’antimafia a Bologna, sempre vicino agli ultimi, ai fragili, agli emarginati. Come quando, in pieno lockdown, decise di aprire un giardino per chi in casa non ci poteva stare. “Dovevamo aggiustare l’altalena, tagliare l’erba e dirlo al mondo che non si doveva avere paura della solidarietà anche nei momenti più bui” ha raccontato commosso l’attuale sindaco Lepore, suo grande amico. Se n’è andato un uomo con la schiena dritta, uno di quelli che resiste, non si piega, che crede testardamente nella giustizia sociale anche dove apparentemente non ce n’è più traccia. E, dove non esiste, la porta, la crea, la inventa. L’Italia si regge su persone come Michele Ammendola. E oggi ha perso - abbiamo tutti perso - uno dei suoi figli migliori. Buon viaggio.
Una giovane tifosa di una squadra di hockey di Vancouver (Canada) ha salvato la vita a un tecnico.
Nadia Popovici, di 22 anni, lo scorso 23 ottobre era in tribuna per la partita dei Seattle Kraken contro i Vancouver Canucks, quando ha notato sul collo di Brian "Red" Hamilton, responsabile delle attrezzature della squadra avversaria, uno strano neo.E così ha fatto di tutto per attirare l'attenzione dell'uomo e fargli leggere un messaggio di avvertimento scritto sul proprio telefono.
L'uomo, disorientato dal messaggio, ha comunque seguito il consiglio e tornato a casa si è fatto controllare, scoprendo così di avere un melanoma che è riuscito a curare in tempo. Ha quindi lanciato un post sui social per ritrovare la sua sconosciuta salvatrice, che è riuscito a rintracciare e ad abbracciare. Le due squadre hanno donato alla giovane tifosa una borsa di studio da 10mila dollari.
Questo ragazzo si chiama Mehdi Ali, anni fa è emigrato in Australia dall’Iran per fuggire dalle discriminazioni alla sua etnia araba Ahwazi.
Ha appena compiuto 24 anni, di cui gli ultimi 9 trascorsi al Park Hotel di Melbourne: nove anni di attesa, botte e torture, aspettando un visto che non è mai arrivato. Lui sì, imprigionato davvero, senza poter né entrare in Australia né tornare in un Paese che lo perseguita per le sue origini. Quando ha visto arrivare Djokovic, quando ha assistito allo stuolo di telecamere fuori dall’albergo, quando ha sentito i genitori del tennista delirare che “loro figlio è imprigionato a Melbourne”, Alì ha risposto così, con una dignità incredibile: “Dicono che è in prigione perché passerà qui dentro nove ore o magari nove giorni, ma alcuni di noi sono qui da nove anni”. Quindi mi unisco ad Andrea Scanzi : << Abbiate la decenza di usare parole tragiche come “prigioniero” quando vanno usate, buffoni. Il soggetto novax che da giorni gioca a distruggersi la carriera ( e i genitori non sono da meno )
con comportamenti e frasi ignobili, se volesse, potrebbe tornare alle sue ville anche in questo momento. Viaggiando in prima classe, come del resto si è meritato grazie a un talento straordinario. Ma far passare un novax esaltato e viziato per prigioniero e martire, anche no.>>
Lo sappiamo che ne usciamo a pezzi, eppure tutti gli anni ci ricadiamo. Come possiamo schivare quest’anno la spirale succhia-energie del periodo natalizio? Il fattore scatenante è il desiderio di non deludere le persone che abbiamo intorno. Fra regali da fare, pranzi da preparare, case da sistemare, perché tutto sia perfetto, dimentichiamo di riposarci e prenderci cura di noi. E arriviamo già travolti, stanchi e svuotati. Qui ciò che va neutralizzato è la paura del giudizio degli altri. Quello che pensano gli altri è importante certo, ma in fondo in fondo che ce ne frega? Non è un invito , badate bene , a fregarcene di tutti \e , ma non farci condizxionare dal oro giudizio e critiche spesso ipocrite .Infatti generalmente Tanto chi è portato a giudicare male ci giudicherà lo stesso, perché il giudizio è nella maggior parte dei casi il contrario dell'amore, dell'accoglienza, della solidarietà familiare e dell'amicizia vera. Quindi Meglio fare un regalo più semplice - che tanto è il pensiero che conta -, preparare una portata in meno, oppure organizzare un tè anziché un pranzo, ma mantenere la nostra energia e serenità, per poter accogliere gli altri con gioia e partecipazione. Perché siamo noi il vero regalo. Ciò che è più prezioso per i nostri cari è la nostra stessa persona: doniamoci con gioia e carica interiore, altrimenti non ci percepiscono e quello che ne soffre è la relazione. Che sempre viene delusa senza la nostra serenità interiore e senza quella sana e naturale vitalità che produce la voglia di incontrarsi. Non possiamo permetterci di bruciarle nella bolgia dei centri commerciali, degli outlet e nella sbornia di calorie. Le relazioni autentiche, sincere, profonde sono le uniche che danno vera e più duratura felicità... Tutte le altre relazioni la tolgono! Le relazioni false, superficiali, interessate o per il quieto vivere andrebbero eliminate o ridotte al minimo, specialmente in questo periodo importante. Si chiude un anno, ne inizia un altro e quindi abbiamo una necessità fisiologica di rinnovamento e di rinascita. Perciò dovremmo innanzitutto riposarci per recuperare le nostre preziosissime energie, anziché disperderle con chi non ci merita e chi se ne frega di noi ed ci cerca solo per pulirsi la coscienza e per comodità . Ecco quindi che dovremo se non possiamo farlo fisicamente anche con il pensiero e con la mente
[...]
Hai mai visto l'alba in uno di quei giorni di festa? Alcune volte ero in mezzo alla natura e ho percepito un'energia immensa. Ecco, quello che ti auguro per queste feste è di immergerti nella potenza della natura per percepire l'immensità delle tue forze e della tua anima quando sono connesse con l'Universo-Dio-Amore. Un'esperienza di innamoramento che nessuno potrà deludere.
nel post precedente ( https://bit.ly/3Hu6D6I ) ho fatto preso dall'emozione e della nostalgia per il traguardo raggiunto ( 16 se si conmtano solo quelli di blogger ., 18 anni contando i post su spliner alcuni anche doppi perchè fra il 2006 ed il 31 gennaio 2012 causa problemi tecnici per mettere foto e video su splinder , scrivevo quando dovevo mettere video o foto l'intero post su blogger e poi , come faccio per promuovere i mie articoli \ post su facebook o twittewr , mettevo due \ tre righe e poi url dei post su splinder ) dal nostro blog un errore cronologico. Infatti l'apertura ufficiale del blog , diventato poi appendice della pagina Facebook Compagnidistrada , risale al 4 gennaio e non al 1 gennaio . Mi scuso , soprattutto con i vecchi utenti , per l'errore . Ora per rispondere alle vostre probabili domande immaginando che me ne farete ho deciso di farmi le domande e darmi le risposte come suggeriva con la sua frase ricorrente, ormai diventata un cult : «Si faccia una domanda e si dia una risposta» con cui è diventato celebre , un famoso giornalista della Rai
più che cambiamento . io parlerei d'integrazione fra quello di splinder e quello di blogger - pagina facebook
come mai dopo la chiusura del portale splinder e quindi il passaggio definitibvo a blogger hai cambiato il nome anzichè lasciare cdv o compagndiviaggio ?
inizialmente , nel 2006 a causa di problemi tecnici per mettere le post con immagini o foto avevo dovuto creare un secondo blog ( quello di blogger ) che integravo rimandando determinati post di splinder su d'esso . Poi dopo la chiusura dellapiattaforma splinder ho riunito tutto quello che sono riuscito a salvare siu blogger .E li ho cambiato nome . Fin dalla creazione di blogger ovvero dal febbraio 2006 volevo chiamarlo compagnidiviaggio , ma il nome era già registrato ed quindi chiamandomi in rete ulisse o redbeppe\ redpeppe ulisse lo chiamai cosi Poi conil passaggio definitivo per poter essere rintracciato dai miei utenti splinder e da quelli che pur non scrivendoci lo conoscevano come cdv.splinder \ compagnidiviaggio e decisi d'aggiungere a compagnidistrada la dictura ex compagnidiviaggio cdv.splinder . Il nome strada anzichè viaggio non cambia niente , almeno per me , perchè il viaggio è fatto di strade dritte , curve , parallele .
come mai prima con splinder ( o avevi anche configurato in modo che i tuoi post apparissero in automatico su fb ) , poi con blogger ( non in automatico infatti pubblichi i tuoi post in modo tradizinale cioè due \tre righe cono senza hastag e scrivi continua sul blog mettendo l'url dove continua ) ?
perchè : 1) fb ha cambiato le opzioni e non sono più ne riuscitoa modificare il sisema con cui vi avevo configurato il vecchio blog ., 2) oltre ad arrivare anche a coloro che usano solo social voglio mantenere ed raggiungere chi non li usa o li usa solo o per giocare o per leggere account \ pagine social . E poi molti ( almeno credo ) utenti del vecchio splinder o della mia veccha newsletters artiginale da cui poi è nato il blog gli ho ritrovati su fb
come mai a differenza di splinder non più multi autore e ci scrivono solo uno ?
di solito le sue castronerie, infatti è per quello che l'ho rimosso ( uno dei rarissimi casi generalmente lascio che siano loro a rimiuoversi o bloccarmi ) mi lasciano indifferente ed evito di dare troppa pubblicità alle sue ... . Infatti e concordo : << Adinolfi, in fondo, è buono giusto come bussola: ogni volta che lui dice qualcosa, la realtà e la dignità sono esattamente dalla parte opposta. >> ( Lorenzo Tosa ) . Ma stavolta esse sono pericolose .
Egli ci informa che non si vaccinerà perché - udite - “il controllo del corpo dei cittadini non può essere dello Stato”. E spiega: “Non mi batterei per evitarne la soppressione con suicidio assistito, aborto e eutanasia se ritenessi accettabile l’intervento di terzi sulla vita umana”. Qualcuno spieghi gentilmente a quest’uomo in confusione che:
a) il vaccino non è “controllo del corpo” ma un atto di responsabilità individuale e collettivo. E, in alcuni casi, un dovere civico soprattutto in tempi di pandemia .b) Suicidio assistito, aborto ed eutanasia sono esattamente il contrario dell’intervento di terzi sulla vita umana. Sono queste si manifestazione di una libera scelta intima e personale proprio contro le imposizioni della società, dell’oltranzismo cattolico che lui (in)degnamente rappresenta e, a volte, proprio dello Stato. c) L’enorme differenza è che scegliere di abortire o porre fine alle proprie sofferenze riguarda solo una persona, mentre decidere di vaccinarsi o meno ci riguarda tutti, come società e come comunità.
Insomma, il “nostro” crede nella libera scelta, ma solo quando il corpo è il suo (e quando non esiste).
quest articolo ha centrato effettivamente il problema . Ma va esteso anche ai fumetti e nella musica purtroppo .
Il Fatto Quotidiano
» Maurizio Di Fazio
“Rifamolo strano”: l’orrore dei sequel
FENOMENI (BRUTTI) Dal 9° “Fast and Forious” all’ennesima resurrezione di “Matrix” fino a “Sex and the city” over 50: cinema e tv sono ingolfati di remake noiosi e scontati
Questione di marketing, emorragia di idee, tentennante coraggio. Pensiero debole, sceneggiatori e produttori dal respiro corto. Concorrenza delle piattaforme e incertezza dell’orizzonte. Contro il logorio del tempo moderno, l’ancoraggio più solido nel pianeta audiovisivo vecchio e nuovo resta la nostalgia. Una ritirata di massa nel porto delle emozioni, facce, battute e ambientazioni tranquillizzanti perché
arcinote. La tendenza pare irreversibile, nonché accentuata da due anni di pandemia. Al cinema e nelle serie tv proliferano così i remake ,i reboot ,i sequel,i franchising. Le formule vincenti del passato, magari tali una sola volta, vengono spremute come limoni. Sezionate, rimpastate, centrifugate. Che il cast e lo sviluppo dell’intreccio siano poi i medesimi dell’alchemico prototipo, la sostanza non cambia.Questione di marketing, emorragia di idee, tentennante coraggio. Pensiero debole, sceneggiatori e produttori dal respiro corto. Concorrenza delle piattaforme e incertezza dell’orizzonte. Contro il logorio del tempo moderno, l’ancoraggio più solido nel pianeta audiovisivo vecchio e nuovo resta la nostalgia. Una ritirata di massa nel porto delle emozioni, facce, battute e ambientazioni tranquillizzanti perché arcinote.
La tendenza pare irreversibile, nonché accentuata da due anni di pandemia. Al cinema e nelle serie tv proliferano così i remake ,i reboot ,i sequel ,i franchising. Le formule vincenti del passato, magari tali una sola volta, vengono spremute come limoni esausti. Sezionate, rimpastate, centrifugate. Che il cast e lo sviluppo dell’intreccio siano poi i medesimi dell’alchemico prototipo, la sostanza non cambia. Basta un poco, di pubblico, e il revivalismo va su.
La retromania è un ansiolitico e semina un po’ di profitti. Gli esempi sono sterminati. Partiamo dagli ultimi arrivati sul grande schermo. C’era davvero bisogno del nono Fa s t and Furious, del bis di Ghostbusters (Legacy, regia di Jason Reitman) 37 anni dopo il capostipite, del ritorno di un blockbuster anni 90 come Mamma ho perso l’aereo, versione 2021, titolo stavolta Ho m e sweet home alone? Intanto si annunciano con squilli convenzionali di tromba le riedizioni di Scream (il 13 gennaio), quinto capitolo del feuilleton horror sempre anni 90, e del post-fantascientifico Matrix – Resurrections, il quarto in assoluto. Diretto, segno spendibile di continuità, da Lana Wachowski, rivedremo Keanu Reeves e Carrie-anne Moss.
E quest’anno riaffioreranno anche Mission: Impossible, il longseller spionistico con Tom Cruise, e molto probabilmente quella Musa dei box-office di Avatar (2). Non solo: dovrebbero seguire a stretto giro un Avatar 3 nel 2023, un Avatar 4 nel 2024 e un Avatar 5 nel 2025. “Sarà un’impresa epica”, ha sentenziato il regista James Cameron. A meno che non vada a finire come con gli infiniti Batman, Rocky e Rambo con Sylvester Stallone (il terminale Rambo, last blood del 2019 ha fatto incetta di pollici verso), i cinque Die Hard con Bruce Willis, i tre Ritorno al futuro , i cinque Jurassic Park, la saga di Star Wars, formata da nove film (in tre trilogie) e sei spin-off. Oppure i dieci Fantozzi (l’ultimo fu il resistibile Fantozzi 2000, la clonazione) e i rifacimenti de L’allenatore nel pallone ed Eccezzziunale veramente vent’anni e rotti dopo.
A lungo andare la minestra riscaldata stufa, e non c’è Paolo Villaggio, Lino Banfi o Diego Abatantuono che tenga. L’implosione del gradimento e dei tagliandi d’ingresso, la parabola calante è dietro l’angolo. Ed è meglio non scherzare col fuoco del mito. Poco prima dell’inizio del terzo millennio, è uscito Blues Brothers 2000: senza John Belushi e con un plot stiracchiato, il paragone con l’originale è stato impietoso. Si è salvata giusto la colonna sonora. Stesso amaro destino andato in sorte a Trainspotting 2, anno di relativa (dis)grazia il 2017; al terzo Blair Witch (Project) nel 2016 e al disneyano Il ritorno di Mary Poppins nel 2018. Ben poco supercalifragilistichespiralidoso. E che dire di Swept Away di Guy Ritchie, che nel 2002 ha osato ricalcare un totem come Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto di Lina Wertmüller? Madonna al posto di Mariangela Melato e il pur bravo Adriano Giannini invece del padre Giancarlo: può bastare. Volete un altro pugno nello stomaco della memoria? Gus van Sant, un cineasta generalmente talentuoso e avveduto, nel 1998 si è coperto di hybris firmando un suo personale ed esecrabile Psycho: Alfred Hitchcock deve essersi acceso un sigaro di imperturbabile stizza nella tomba. Doppia nomination alla rovescia per Nicolas Cage: per City of Angels (La città degli angeli), remake improvvido del 1998 di un capolavoro del rango de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, e soprattutto per avere interpretato nel 2006 Il prescelto, da un buon thriller del 1973. La pellicola è ascesa nell’olimpo delle più rovinose e informi di ogni epoca, alimentando fiumi di parodie.
L’avvenire della settima arte, predica la vulgata, è nelle serie televisive. Ma allora perché anche qui ci si guarda ossessivamente alle spalle? Da pochi giorni ha colonizzato le tv il sequel del culto di 20 anni orsono Sex and the city .Amatissimo da un pubblico non esclusivamente femminile, Mr. Big si è appesantito, ma tranne Samantha (Kim Cattrall) le nostre altre amiche newyorkesi ci (ri)sono in blocco, in testa Carrie-sarah Jessica Parker. Con un sovrappiù di inclusione e diversità. E poi il reboot di Gossip Girl e la serializzazione senza soluzione di continuità de La casa di carta .E gli eterni anni 80: quelli soap di Dinasty (ricominciato nel 2017), spy di Macgyver (si è appena conclusa la quinta e ultima stagione), polizieschi di Magnum P.I. (rentrée nel 2018, senza Tom Selleck). “Coraggio, il meglio è passato”, diceva Ennio Flaiano.
e putroppo ne sono dipendente anch'io perchè incuriosito , come rielaborano \ riadattano l'originale e fanno continuare il precedente . Infatti mi sono quasi divorato su Netflix la 4 stagione di Kobra Kay ovvero karate kid 30 anni dopo ed ho visto da poco Ghostbusters: Legacy, ovvero il seguito dei due Ghostbusters - Acchiappafantasmi (Ghostbusters)
premetto che a causa di problemi d'ipertensione e gastro intestinali posso bevo caffe d'orzo ( o quando non lo trovo decaffeinato ) o d'estate nelle feste fregandomene caffe normale o creme caffè o caffè shakerato e quindi non sono un grande consumatore o lavoro nel settore . Ma da quello che vedo e dai rapporti con amici \ che barman ... ehm... baristi o proprietari di bar un fondo di verità nell'articolo che propongo c'è .
da repubblica del 26\7\2021
L'Italia, l'Italia tutta intera, ha un grandissimo problema irrisolto col caffè. Ma come nei più classici psicodrammi, non se ne rende conto e non lo ammetterà mai a se stessa. Non ancora, per lo meno.
L'Italia, l'Italia tutta intera, ha un grandissimo problema irrisolto col caffè. Ma come nei più classici psicodrammi, non se ne rende conto e non lo ammetterà mai a se stessa. Non ancora, per lo meno.
DAVVERO IL CAFFÉ ITALIANO E’ IL MIGLIORE DEL MONDO? (NO!)
Una comunicazione errata e in cattiva fede, una retorica superficiale, elementi di goffo sciovinismo, forme passivo-aggressive di machismo ci hanno convinti di consumare il miglior caffè del mondo. Da Napoli a Trieste siamo persuasi che il nostro espresso sia buono, fatto come si deve, ortodosso. Mentre quello di tutti gli altri paesi che ci circondano, dalla Francia alla Germania passando dal Regno Unito è una brodaglia imbevibile. Da prendere in giro stile tifo calcistico.Non siamo nazionalisti in nulla, sconosciamo le vere peculiarità, unicità, storia, eccellenze del nostro paese ma su determinate merceologie alimentari (pizza, pasta asciutta e appunto il povero caffè) diventiamo alfieri della purezza della nazione. E manco a dire che la buttiamo sulla cultura considerato che al caffè (e ai caffè, intesi come locali) il mondo intellettuale italiano deve moltissimo. Macché: in Italia siamo proprio convinti che la tazzina di caffè nostrana sia davvero il meglio quanto a sapore e profumo. Peccato che per i motivi che andremo a sviscerare, beviamo tra i caffè più mediocri d’occidente.
Vera la prima parte ed parte la seconda ma ciò dipende da
Che sia filtrato, preparato con la moka, con la caffettiera napoletana, o il classico espresso del bar, il caffè è diventato uno dei simboli del made in Italy e, senza timore di smentita, uno dei piaceri preferiti dagli italiani, sempre alla ricerca del caffè perfetto. Tanto che i palati più esigenti hanno colto l’importanza di tornare a consumare anche in casa il caffè in grani che, se macinato al momento della preparazione, sprigiona tutto il suo aroma e i suoi benefici, salvaguardando in pieno il complesso organolettico di ogni chicco. Ma prima di tutto, va ricordato che dietro il segreto dell’intenso profumo e del gusto vellutato del caffè italiano c’è la sapienza dei nostri torrefattori, che rappresentano l’eccellenza artigiana nella lavorazione del caffè. Al metodo di tostatura italiana, cosiddetta “intensa”,
Però giustamente sempre secondo repubblica L'Italia, l'Italia tutta intera, ha un grandissimo problema irrisolto col caffè. Ma come nei più classici psicodrammi, non se ne rende conto e non lo ammetterà mai a se stessa. Non ancora, per lo meno.
DAVVERO IL CAFFÉ ITALIANO E’ IL MIGLIORE DEL MONDO? (NO!)
Una comunicazione errata e in cattiva fede, una retorica superficiale, elementi di goffo sciovinismo, forme passivo-aggressive di machismo ci hanno convinti di consumare il miglior caffè del mondo. Da Napoli a Trieste siamo persuasi che il nostro espresso sia buono, fatto come si deve, ortodosso. Mentre quello di tutti gli altri paesi che ci circondano, dalla Francia alla Germania passando dal Regno Unito è una brodaglia imbevibile. Da prendere in giro stile tifo calcistico. Non siamo nazionalisti in nulla, sconosciamo le vere peculiarità, unicità, storia, eccellenze del nostro paese ma su determinate merceologie alimentari (pizza, pasta asciutta e appunto il povero caffè) diventiamo alfieri della purezza della nazione. E manco a dire che la buttiamo sulla cultura considerato che al caffè (e ai caffè, intesi come locali) il mondo intellettuale italiano deve moltissimo. Macché: in Italia siamo proprio convinti che la tazzina di caffè nostrana sia davvero il meglio quanto a sapore e profumo. Peccato che per i motivi che andremo a sviscerare, beviamo tra i caffè più mediocri d’occidente. Questo malinteso ha spiegazioni culturali, sociali e antropologiche nelle quali non entreremo, ci limiteremo a spiegare però che gli elementi per giustificare questo senso di superiorità semplicemente non esistono. Anzi, proprio a cagione di questa spocchia in Italia si beve attualmente il peggior caffè del mondo. Il motivo è che questo atteggiamento dei consumatori (orgoglioso ma al contempo impreparato, ignorante, miope) viene volentieri cavalcato dalla filiera per massimizzare i margini di guadagno a detrimento della qualità. Consumatori che comprano prodotti scadenti e sono pure contenti, nessuna industria chiederebbe di meglio…
TUTTE I FALSI MITI SUL CAFFÉ
Il caffè, insomma, è il più grande equivoco, il più clamoroso malinteso gastronomico italiano. Siamo avvinghiati alle nostre certezze, ma la verità è l'esatto opposto. E continuiamo a scambiare i difetti del prodotto per pregi. Qualche esempio? Con automatismo quotidiano zuccheriamo il caffè pensando la cosa sia normale, ma una bevanda che per essere bevibile ha bisogno di edulcoranti è una bevanda che ha dei problemi e che ci crea dei problemi costringendoci ad assimilare etti di dannoso saccarosio ogni mese. Siamo convinti che il colore del chicco di caffè sia nero, come quello che vediamo nelle campane trasparenti al bar, mentre la tostatura ottimale è marroncino tenue: è nero perché abbrustolendolo si eliminano tutti i difetti (e i pregi) appiattendo il sapore a quel caratteristico aroma di carbone. Tostando il caffè in quel modo i torrefattori sono così nelle condizioni di comprare partite di prodotto scadente, fallato, acerbo. Spuntando prezzi bassissimi e massimizzando i margini. Siamo convinti che il caffè debba costare 0,80 centesimi, al massimo un euro. Se il prezzo sale gridiamo al furto e cambiamo bar. Non ci rendiamo conto che ogni caffè sottoprezzo (sotto i 2 euro è sempre sottoprezzo, non a caso in tutto il resto del mondo il corrispettivo quello è) genera sfruttamento, lavoro nero, sofferenza in tutta la filiera, dalla piantagione fino al bar. Al nostro bancone di fiducia una tazzina può venire via a pochi centesimi solo se dietro c'è un barista sottopagato, mai formato, assunto al nero, sfruttato. E così consideriamo inaccettabile spendere il giusto per un caffè, ma poi giriamo l’angolo e andiamo a manifestare a favore della sostenibilità e dei diritti...
Altri paradossi? Siamo convinti che il caffè faccia male. Ma il caffè è un semplice frutto tropicale, come può “far male”? La caffeina agisce sul sistema nervoso, è vero, ma il tenore di caffeina è alto se il caffè proviene da una filiera agricola non idonea. La caffeina è una reazione dell’alberello del caffè contro parassiti e altre anomalie. Se dunque il caffè viene piantato e allevato in condizioni ottimali di caffeina ne produce una quantità normale. Sulla caffeina poi i luoghi comuni si sprecano, come quello che vuole il caffè ristretto più ‘forte’ di uno lungo: ma la caffeina è solubile nell’acqua, quindi un caffè filtro ha più caffeina di un espresso che ha a sua volta più caffeina di un ristretto. Insomma, un grovighlio di false credenze, supersatizioni e malintesi che si ripetono ogni giorno per milioni di volte e impediscono a questa merceologia di evolvere come meriterebbe.
E poi c’è il gusto. In Italia abbiamo la certezza che la tazzina di caffè abbia quel sapore lì. Proprio quello lì: di carbone. Non è così: il sapore del caffè è altra cosa. Alle volte si avvicina ad una densa spremuta di frutti rossi, a volte al sentore pungente degli agrumi, talvolta addirittura ai profumi fermentati del vino o certe tipologie intense di the. Quella bevanda che abbiamo banalizzato e trasformato in una sorta di medicina da trangugiare velocemente in piedi, non è più caffè: è una estrazione di chicchi bruciati, carbonizzati da un trattamento dozzinale. Ovvio che poi “il caffè fa male”…
COME FAR USCIRE IL CAFFÉ DALLA BANALIZZAZIONE?
Ovviamente non tutte le tazzine sono così. Ci sono dei bar che cercano di lavorare con un pizzico di attenzione in più, ci sono tostatori più attenti che selezionano la materia prima, ci sono perfino grandi torrefazioni industriali che hanno annusato l’aria e stanno debuttando nell’universo del caffè sostenibile e di ricerca. La prima resistenza viene però dalla clientela che negli anni (il rito del caffè espresso al bar è relativamente recente) si è assuefatta. Tuttavia altre merceologie ci raccontano che atteggiamenti conservatori in ambiti che sembravano immutabili possono modificarsi rapidamente. E’ avvenuto col vino a partire dagli anni Ottanta, poi con la birra e il boom delle artigianali, infine col pane da un lustro a questa parte. Anche l’olio ci sta provando così come l'aceto. E pensate alla pizza: fino a vent’anni fa una pizza era una pizza, ora sappiamo vita morte e miracoli del lievito e ogni dettaglio sul mugnaio che si è occupato della farina… Tutti prodotti che erano banalizzati all’inverosimile e che sono in via di rinascita all’insegna di una nuova consapevolezza e attenzione da parte di chi produce, compra, consuma. Il caffè riuscirà a prendere lo stesso sentiero? Riuscirà a conquistare la dignità che oggi non ha nei consumi domestici e in quelli fuori casa? Per provare a rispondere alla domanda abbiamo coinvolto alcuni tra i più importanti esperti del settore in Italia: torrefattori, baristi, formatori, imprenditori, cuochi. Fanno parte a vario titolo di quella che nel mondo è chiamata la "Terza Ondata" del caffè, il movimento quasi ventennale che punta a togliere questo alimento dal cono di banalità in cui è precipitato. Sono gli alfieri dello “specialty coffee”, un modo completamente diverso di vedere il caffè e l’universo che gli gira attorno. A Loro abbiamo chiesto un parere sulle responsabilità di questa situazione e idee su come si possa uscirne.
IL PARERE DI ANDREJ GODINA
Esperto di caffè, autore di numerosi libri, formatore
Uno dei motivi per cui il settore è rimasto indietro è che le torrefazioni ad un certo punto, tra prestiti e comodati d’uso di macchinari, sono diventate delle società finanziarie che guadagnano più dagli interessi che dal prodotto. E dunque il prodotto conta meno: conta solo il margine di guadagno. Il caffè è una pura commodity. Incredibile anche l’omogeneità del prezzo della tazza. Miscele scarse e caffè di buona qualità 100% arabica alla fine costano pressoché la stessa cifra. Sarebbe possibile nel vino avere calici tutti a prezzo omologato indipendentemente dalla provenienza? Il prezzo della tazzina va diffrenziato, questo servirà a comunicare al consumatore che esistono delle articolazioni, che esistono alcuni caffè che sono specialties e altri che non lo sono e costano meno. E infine una nota sui baristi: finché saranno sottopagati e non formati non se ne uscirà. Spesso chiedo al barista la marca di caffè che sta servendo: neppure quella conosce, figuriamoci il resto. Tra l’altro rispetto ad altre filiere, il barista è strategico: nella filiera del vino il sommelier stappa e serve un prodotto preparato da altri, idem con olio, il cioccolato. Nella filiera del caffè l’ultimo protagonista della filiera ha lui il compito di preparare e trasformare. Dunque ha il massimo della responsabilità e il minimo della responsabilizzazione: questo ruolo si deve trasformare radicalmente.
Non dimentichiamoci che c’è stata una grande disinformazione diffusa. Che ha permesso di fare marginalità di guadagno clamorose alle torrefazioni. E così abbiamo infilato nella testa delle persone il fatto cheil caffè è un prodotto semplice, banale; quindi chi apre una caffetteria di ricerca non riesce a convincere i consumatori che la tazzina non si può pagare un solo euro e il break even diventa un miraggio. Questi prezzi generano sfruttamento. E, attenzione, sfruttamento non soltanto agricolo nei paesi in via di sviluppo: sfruttamento anche di chi sta al bancone. E se per miracolo tutti sono messi in regola, quel bar avrà costi fissi così alti che non potrà andare a ricercare la qualità. Il caffè sconta un consumo “istantaneo”, che dura pochi secondi, richiederebbe molta attenzione ma gliene viene dedicata pochissima e per un intervallo di tempo minimo. Così come viene dedicata poca attenzione in generale alla colazione. Un pasto bistrattato che assomma mediocrità a mediocrità: riflettiamo sulla qualità media di cornetti e brioche. Non aiuta, infine, la nostra dieta mediterranea che non prevede tanti sapori acidi a differenza del nord Europa e quindi ci fa consideare estranei i profumi dei caffè pià ricercati. Una proposta? Le associazioni che si dedicano al caffè specialty si occupino un po’ meno di gare e competizioni e un po’ più di formare il consumatore medio!
IL PARERE DI FRANCESCO SANAPO
Barista e torrefattore a Firenze con Ditta Artigianale
Io credo davvero che lo specialty sia il futuro del caffè e dell’industria del caffè. Dietro a questa parola non c’è solo un prodotto di qualità, ma c’è sostenibilità. Lo specialty è l’unico prodotto che può garantire evoluzione ai popoli dei paesi tropicali dove si coltiva caffè. Lo specialty è l’unico comparto dell’industria del caffè che non genera povertà nella filiera. Come si fa a pensare che ogni tazzina che serviamo generi povertà? E poi stare nell’ambito dello specialty permette di riconoscere la vera professionionalità del barista e una nuova rinascita delle caffetterie. Puntare sullo specialty significa ringiovanimento di tutta la filiera anche per quanto riguarda l’ospitalità a 360 gradi. Chi propone specialty ha necessariamente attenzione maniacale in tutto: dalla musica alle luci, dal design al benessere complessivo dell’ospite. Cambia proprio il paradigma di un settore che è abituato a lavorare solo sulla quantità e mai sulla qualità. Come si fa? Bisogna dar valore alla tazzina e modificare l’attitudine di come si è bevuto in caffè fin’ora ovvero come fosse un farmaco. Comunicando con i consumatori e spiegandogli che bere tazzine di caffè a 1 euro è, semplicemente, uno scandalo.
e proprio mentre finisco di fare il cute \ paste ( il classico copia ed incolla ) parte conme se fosse qualcosa di prestabilito dalla mia play list di Spotify questa canzone
Oggi il blog diventato anche appendice con account e pagina su : facebook ( soprattutto ) , istangram , telegram compie 18 anni come passa il tempo . Sono cambiate tante cose da allora. Avevo ancora la nonna materna , quella gli altri sono morti che ero ancora ragazzo la pandemia d covid , non era scoppiata, Avevo persone nella mia vita che oggi non ci sono più ma che ancora con i loro insegnamenti che mi hanno lasciato e come se ci fossero nel bene e ne male e dovevo ancora conoscerne altre che sono diventate importanti. : << .... hai già perso troppi amici \in questa guerra \hai preso parte a trentadue rivoluzioni \ e trentadue rivoluzioni le hai perdute \Tienes que esperar! ..... Tienes que esperar tienes tienes que esperar .... >>⑴
Ogni anno si fa un bilancio tra ciò che abbiamo guadagnato e ciò che abbiamo perduto, tra gioie e dolori. Sono la persona che vorrei essere? Me lo chiedo spesso, non solo il 31 dicembre . Infatti :<< ..... il tuo dramma era scoprire chi eri \ ma quello è il dramma di ogni uomo\ ed è più facile soffermarvici sopra a stomaco pieno ..... >> (2) La risposta è: sono in evoluzione. Sbaglio, cado e mi rialzo ma guardo in faccia i miei errori. Ho imparato a perdonare, a volte anche profondamente, anche se ancora non so perdonare me stesso ma ci sto provando . Prima era la rabbia che mi faceva andare avanti. Oggi so cosa significa lasciare andare anche quando vorresti soltanto urlare.Non mi reputo più saggia e neanche più cinica. Sono semplicemente una persona che non ha smesso di farsi domande. Che non ha smesso lavorare duramente per realizzare i propri sogni. La costante in questi diciassette anni è stata la scrittura. Scrivere e condividere per sopravvivere. Scrivere per elaborare le emozioni. Scrivere come unico modo che conosco per comunicare con il resto del mondo. Ognuno di noi ha la sua storia, le sue paure, i suoi sogni. Ognuno di noi saluterà quest’anno con la speranza che il prossimo sia migliore. Vi auguro di essere voi, quelli migliori. Non nel senso di perfetti, ma di abbracciare l’imperfezione. E riuscire a trovare dentro di voi un posto dove sentirvi al sicuro, anche quando fuori c’è la tempesta. Buon 2022, amiche e amici e grazie a chi c’è stato. Grazie a chi ha trovato un pezzetto di sé nelle mie storie ed in quelle che racconto e ha trovato un istante per dirmelo. Vi voglio bene 🖤 . : << ... Ho tante cose ancora da raccontare \ Per chi vuole ascoltare \ E a culo tutto il resto. >>