Una bambina in lacrime viene insultata e schiaffeggiata da due ragazzine, davanti casa a Minneapolis. Il video, con oltre 250 mila visualizzazioni è stato girato dal fratello delle due bulle che lo ha condiviso su Facebook con il titolo "Quando i bianchi fanno arrabbiare i neri". Un caso di bullismo che ha indignato gli utenti. Il padre, contattato da alcuni che hanno riconosciuto le bimbe, si è detto sconvolto. Immediate le scuse dei genitori che garantiscono: le tre sono sempre state ''buone amichette''
anche repubblica si mette a fare del razzismo ? i parERI sono contrastanti ecco alcuni commenti presi dal l'url del video . Secondo me un po' indiretto c'è ,bastava intitolarlo neri contro bianchi
Assa La Malassa3 ore fa
Bimbe nere? Ma La Repubblica e' impazzita? Le bimbe sono bimbe e basta. Ia tonalità della loro pelle non ha rilevanza per la storia raccontata, quindi perché' specificare? La risposta già la sapete. Vergognatevi e cambiate il titolo subito.
Ma è il fratello delle bulle che ha intitolato il video rimarcando che sono neri contro bianchi, perciò la notizia è proprio questa: bullismo a sfondo razziale. Ne consegue che bisogna specificare di che colore sono le bulle e la vittima, se no non si capisce. Ormai si vede il razzismo anche dove non c'è...
a parte il caso in se , che pur sempre si parla di bambine che litigano ,puo accadere! discutibile e il modo ma ancora di piu sono indignata dalla dicitura bambine nere ancora stiamo a sottolineare come se fosse un diversita ?????????? allora specificate anche quando sono bambine biabche!!!
mentre finivo di leggere questa storia su topolino 3015
da un lato desidero che l'estate duri di più
, proprio come ik protagonisti di questa storia . Ma allo stesso tempo mi metto a canticchiare questa canzone della mia infanzia
meno male d'altronde non vedevo l'ora , forse stò anzianando ( invecchiando ) , ma sto iniziando ad odiarla . finisco sempre con essere , nella ,maggior parte dei casi , solo visto che i miei amici lavorano ( ed io pure ) , hanno anche famiglia e figli , partner . Ma poi lo accetto con un po' di nostalgia proprio come questo vecchio film
IL post d'oggi è uno dei casi il cui il pensiero di Daniela Tuscano corrisponde al mio .
Infatti , per esperienza personale, La violenza è la ragione di chi ha torto . Infatti : << La violenza è l'ultimo rifugio degli incapaci. (I. Asimov) >> ringrazio il o amco Daniele Jommi per questo commento su fb .
"Carolina va e viene dalla vita". Questo l'efficace incipit del servizio d'una testata online sulla tragedia di Avellino. E questi, in breve, i fatti: Domenico Aschettino, ex guardia giurata quarantenne attualmente disoccupata, ha ucciso il vicino di casa, Vincenzo Sepe, che odiava da tempo, e ferito quattro parenti, fra cui appunto Carolina, 25 anni, figlia di Sepe e incinta di tre o cinque mesi (il dato è impreciso).
Carolina è rimasta colpita alla testa e versa in stato di morte cerebrale. Ma manca ancora la dichiarazione scritta che apponga una sigla di "ufficialità" a questa morte. Carolina respira, lotta, non sappiamo se senta ancora qualcosa, ma qualcosa, anzi, qualcuno si aggrappa tenace a lei: il bambino in grembo. Lui sì, è vivo e soltanto vivo. Non si trova nella zona grigia dell'incertezza, ma sta attraversando un tunnel che non è più il caldo letto del primigenio sonno ma un budello improvvisamente gelido, impervio, minaccioso. Ma lui è li', non saprebbe dove altro andare. Manda segnali che non ricevono più risposta. Rimane però, come sfida, speranza, martirio. Cioè testimonianza. Una mano criminale ha spento la sua unica donna, il suo futuro e la sua casa. È nudo nel mondo; ma chiede senza poter parlare, con la sua semplice esistenza. Quest'arrancare nelle periferie germinali di un essere umano - non soltanto d'un feto - ci ricorda che la vita va custodita ed esaltata; spegnerla è facile e cieco. Bestiale. Ma ricostruirla comporta un'altra vita, decine di vite, cammini evolutivi, irripetibilità. Altri incontri, abbracci, costruzioni di amori. La vita è un accumulo di mattoni e fatica. Una singola parte di noi non è mai esclusa dalla comunità, coinvolge tutti gli esseri per sempre, e per una sola volta, durante il passaggio su questa terra.
Il figlio di Carolina è forte e grida nel momento in cui dipende totalmente da noi. Ormai è figlio di ognuno e di ognuna. Salvarlo è un dovere assoluto. Richiama la scienza al suo reale dovere, che è quello di rendere l'umano più umano.
La vita deriva da noi, ma non ci appartiene. In questo senso, pertanto, è un dono.
Carolina e suo figlio stanno sperimentando su di se' le conseguenze della superbia. D'un essere umano che si è creduto padrone e non custode, sovvertendo tutti i valori morali senza cui l'umanità non sarebbe degna di tale nome. Rappresentano tutti gli Abele del mondo. Con tutte le sue conquiste, la scienza riuscirà a restituire alla luce quell'esistenza così brutalmente interrotta e l'altra, tanto più giovane, che ancora deve, e assolutamente deve, erompere nel suo giorno? E se non riuscirà, sarà quest'ennesimo sacrificio a richiamarla al suo originario compito di aiuto e solidarietà?
Chi crede, preghi. Chi non crede, rifletta. Ognuno, per un istante, taccia di fronte alla fralezza solenne. Questa è la vita, tutta in una mano.
Carolina è rimasta colpita alla testa e versa in stato di morte cerebrale. Ma manca ancora la dichiarazione scritta che apponga una sigla di "ufficialità" a questa morte. Carolina respira, lotta, non sappiamo se senta ancora qualcosa, ma qualcosa, anzi, qualcuno si aggrappa tenace a lei: il bambino in grembo. Lui sì, è vivo e soltanto vivo. Non si trova nella zona grigia dell'incertezza, ma sta attraversando un tunnel che non è più il caldo letto del primigenio sonno ma un budello improvvisamente gelido, impervio, minaccioso. Ma lui è li', non saprebbe dove altro andare. Manda segnali che non ricevono più risposta. Rimane però, come sfida, speranza, martirio. Cioè testimonianza. Una mano criminale ha spento la sua unica donna, il suo futuro e la sua casa. È nudo nel mondo; ma chiede senza poter parlare, con la sua semplice esistenza. Quest'arrancare nelle periferie germinali di un essere umano - non soltanto d'un feto - ci ricorda che la vita va custodita ed esaltata; spegnerla è facile e cieco. Bestiale. Ma ricostruirla comporta un'altra vita, decine di vite, cammini evolutivi, irripetibilità. Altri incontri, abbracci, costruzioni di amori. La vita è un accumulo di mattoni e fatica. Una singola parte di noi non è mai esclusa dalla comunità, coinvolge tutti gli esseri per sempre, e per una sola volta, durante il passaggio su questa terra.
Il figlio di Carolina è forte e grida nel momento in cui dipende totalmente da noi. Ormai è figlio di ognuno e di ognuna. Salvarlo è un dovere assoluto. Richiama la scienza al suo reale dovere, che è quello di rendere l'umano più umano.
La vita deriva da noi, ma non ci appartiene. In questo senso, pertanto, è un dono.
Carolina e suo figlio stanno sperimentando su di se' le conseguenze della superbia. D'un essere umano che si è creduto padrone e non custode, sovvertendo tutti i valori morali senza cui l'umanità non sarebbe degna di tale nome. Rappresentano tutti gli Abele del mondo. Con tutte le sue conquiste, la scienza riuscirà a restituire alla luce quell'esistenza così brutalmente interrotta e l'altra, tanto più giovane, che ancora deve, e assolutamente deve, erompere nel suo giorno? E se non riuscirà, sarà quest'ennesimo sacrificio a richiamarla al suo originario compito di aiuto e solidarietà?
Chi crede, preghi. Chi non crede, rifletta. Ognuno, per un istante, taccia di fronte alla fralezza solenne. Questa è la vita, tutta in una mano.
e proprio mentre finivo di leggere questo post ne ho letto un 'altro sempre di una mia cpompagna di viaggio stavolta facebookiana
Buona serata a tutti amici miei♥♥Voi mi dite: “La vita è pesante da portare”. Ma perché mai avreste la mattina il vostro orgoglio e la sera la vostra rassegnazione? La vita è pesante da portare: ma, per favore, non fate troppo i delicati! Noi siamo tutti quanti graziosi e robusti asini e asine. Che cosa abbiamo in comune col bocciolo di rosa, che trema per il peso di una goccia di rugiada? [Friedrich Nietzsche [ Così parlò Zarathustra ]
rivedendomi in una serata noiosa e fredda di quest'estate ormai prossima al finire , in dvd il film il vento fa il suo giroUn film di Giorgio Diritti 2005
mi ha riportato alla mente sia lo sfogo che riporto qui ( chi ha facebook clicchi qui per l'intera e interessante , 120 commenti , discussione ) per chi non avesse fb o non avesse me o il mio compagno di strada facebookiano e non solo lo scrittore e dirigente al Ministero della Giustizia Giampaolo Cassitta.
Sono sardo. Lo sono perché ci sono nato e perché i miei genitori e i miei nonni e bisnonni e trisavoli lo erano. Avevano calpestato prima di me questa terra.
La Sardegna è la mia terra. La sento intensamente mia, fiabescamente mia,terribilmente mia. Ho giocato negli stazzi galluresi fin da piccolo perché mia nonna ci abitava. Nella “cussogghja” di Austinacciu. Ho respirato quell’aria. La casa era costruita in maniera semplice: la camera centrale e due camere da letto. Lu “pinnenti” adiacente, lu forru per la cottura del pane e dei dolci e la “casedda” vicina all’abitazione principale; una sorta di cambusa dove era possibile trovare tutto. A quei tempi, nei primi anni settanta non c’era la corrente elettrica.
Giocavamo - io e mio fratello - in una campagna che era, per noi ragazzi di città, una distesa immensa di giallo, di cicale, di cani da caccia, di sapori irripetibili e mai più trovati.
Quelle estati hanno forgiato il mio amore per questa terra. Ho assaporato quei silenzi, quegli echi lontani, quel non poter uscire nel primo pomeriggio per colpa della “mamma di lu soli” quelle “parauli forti” ascoltate da mia nonna le notti prima di natale. Un mondo magico. Sardo. Forte. Mio.
Leggere oggi che signori del Qatar, con molti soldi, vogliono rivoluzionare gli stazzi e farne una sorta di “costa stazzialda” mi lascia senza parole. Ho ripercorso con gli occhi, con i pensieri, con i ricordi le mie vecchie passeggiate, il mio attendere li cuccioleddi di meli, il pane di tricu ruju, il mio correre negli orti per aiutare mio nonno ad “abbare”. Ho riascoltato le parole di mia nonna, che parlava solo in gallurese, ho ridipinto quelle lunghe estati e non riesco a comprendere il perché tutto debba diventare mercato, turismo, business, perché dobbiamo vendere la nostra terra allo straniero. Non lo so. Ma non mi sembra una gran bella cosa. Dovremmo forse cominciare a partire da questi piccoli concetti: dallo stazzo, dalle passeggiate quotidiane tra uno stazzo all’altro. E quando si arrivava si trovava sempre il padrone di casa che aspettava e toccava la mano. Lo faceva sempre. Anche se ci si incontrava tutti i giorni. Questo mi manca. Quel parlare di poche e bellissime cose, di un mondo lento. Dolcissimo e immensamente mio. Sono sardo. Lo sono perché ci sono nato, vissuto e respirato. Lo sono per amore. E lo sarò sempre. Ma non tutti i sardi sono sardi come il mio “essere sardo”. Di questo si dovrebbe parlare. Visto che dobbiamo votare, a breve, il nuovo consiglio regionale. Partire dagli stazzi, dai loro silenzi e dai loro caldi abbracci. Da qui dovremmo ripartire.
Giocavamo - io e mio fratello - in una campagna che era, per noi ragazzi di città, una distesa immensa di giallo, di cicale, di cani da caccia, di sapori irripetibili e mai più trovati.
Quelle estati hanno forgiato il mio amore per questa terra. Ho assaporato quei silenzi, quegli echi lontani, quel non poter uscire nel primo pomeriggio per colpa della “mamma di lu soli” quelle “parauli forti” ascoltate da mia nonna le notti prima di natale. Un mondo magico. Sardo. Forte. Mio.
Leggere oggi che signori del Qatar, con molti soldi, vogliono rivoluzionare gli stazzi e farne una sorta di “costa stazzialda” mi lascia senza parole. Ho ripercorso con gli occhi, con i pensieri, con i ricordi le mie vecchie passeggiate, il mio attendere li cuccioleddi di meli, il pane di tricu ruju, il mio correre negli orti per aiutare mio nonno ad “abbare”. Ho riascoltato le parole di mia nonna, che parlava solo in gallurese, ho ridipinto quelle lunghe estati e non riesco a comprendere il perché tutto debba diventare mercato, turismo, business, perché dobbiamo vendere la nostra terra allo straniero. Non lo so. Ma non mi sembra una gran bella cosa. Dovremmo forse cominciare a partire da questi piccoli concetti: dallo stazzo, dalle passeggiate quotidiane tra uno stazzo all’altro. E quando si arrivava si trovava sempre il padrone di casa che aspettava e toccava la mano. Lo faceva sempre. Anche se ci si incontrava tutti i giorni. Questo mi manca. Quel parlare di poche e bellissime cose, di un mondo lento. Dolcissimo e immensamente mio. Sono sardo. Lo sono perché ci sono nato, vissuto e respirato. Lo sono per amore. E lo sarò sempre. Ma non tutti i sardi sono sardi come il mio “essere sardo”. Di questo si dovrebbe parlare. Visto che dobbiamo votare, a breve, il nuovo consiglio regionale. Partire dagli stazzi, dai loro silenzi e dai loro caldi abbracci. Da qui dovremmo ripartire.
sia l'attualità di quanto scrissi tempo fa su queste pagine più precisamente qui
sia i ricordi di quando ero bambino ( prima della morte dei miei nonni materni e la successiva traformazione da campagna ad vivaio florovivaistico ) : l'allevamento di bestiame ( maiali e galline ) , l'orto e le api i loro prodotti , ed i loro riti \ feste ( uccisione e lavorazione dei maiali , vendemmia , conserve di pomodori , e degli altri prodotti dell'orto raccolta delle uova e del miele . Ma per chi ne volesse sapere di più oltre i link riportati sopra ecco la parte riguardante gli stazzi ed il modulo abitativo della Gallura , della mia tesi di laurea
(....)
L'altra
caratteristica della Gallura è quella del popolamento dell'interno e l'abbandono delle coste.
Infatti : « [...] Le condizioni storiche che causarono lo
spopolamento sono da ricercare nello stato di abbandono generale nel quale si
trovava tutta la Sardegna, dopo alcuni secoli di dominazione spagnola
[o anche prima secondo altri studi] a
questa si aggiungevano le frequenti incursioni saracene lungo le coste e si
capisce il motivo per cui nella Gallura marittima esisteva il solo villaggio di
Olbia. Gli altri erano raggruppati alle falde del Limbara (Aggius, Bortigiadas,
Tempio, Luras, Calangianus e Nuchis)».[1]
La colonizzazione delle zone
abbandonate fu la conseguenza di una notevole immigrazione dalla vicina
Corsica; in seguito ulteriormente rafforzata, nei primi anni del Settecento,
anche dal movimento della gente dell’interno, per lo più pastori, che dai
villaggi, nelle loro transumanze, si spingevano fino alle zone disabitate. Si
trattava in genere di migrazioni temporanee. Erano soliti abbandonare il
villaggio nel tardo autunno per poi rientrare al villaggio d’origine,
all’inizio dell’estate, quando era terminata l’annata agricola. Durante questo
periodo, all’inizio, soggiornavano in strutture di fortuna utilizzando come
abitazione qualche nuraghe o, più spesso le spelonche scavate nella roccia
dagli agenti atmosferici. In seguito furono costruiti i “cuponi”, capanne
circolari di pietre a secco con il tetto ricoperto di frascame, in pratica gli
antenati della casa dello stazzo.
La prima fase della colonizzazione,
caratterizzata dalla presenza di insediamenti temporanei presenta quindi in
prevalenza un’economia di tipo pastorale allo stato brado. In seguito con il
formarsi dei primi insediamenti fissi si intraprendono anche attività agricole
e di allevamento più intensivo Tale
insediamento rurale fu tipico del nord
Sardegna e della Corsica principalmente della Gallura.
IL termine "stazzo"(in gallurese lu
stazzu) deriva dal latino "statio", stazione, luogo di sosta Esso
Indica contemporaneamente l'azienda contadina e la costruzione in cui abita il
proprietario ed è costituito da un'abitazione di forma grossomodo rettangolare
costituita da blocchi di granito e all'interno suddivisa in massimo due
ambienti ,ma più spesso da un monolocale. All'esterno era spesso annesso il
forno (lu furru) ed un piccolo magazzino (lu pinnenti). Raramente un edificio
nato come stazzo si eleva oltre il piano terreno, ed in questo caso viene definito
palazzo (lu palazzu) ,. Si può quindi parlare organismi \ strutture a funzione complementare
agricola e pastorale, organizzati in modo da essere autosufficienti, disponendo
di coltivi, pascoli, seminativi, nonché di una o più dimore.
Un insieme di stazzi formavano la cussorgia (la cussogghja), un'entità geografica e
sociale unita da vincoli, particolari ed insoliti, di forti di amicizia e
collaborazione soprattutto di ordine prevalentemente morale, specie durante il ciclo agricolo o in occasioni
particolari come la trebbiatura, la vendemmia o la costruzione di un recinto,
tutti i vicini di un proprietario formano una squadra di lavoro che presta
gratuitamente la propria opera.
Un altro esempio di vincolo esistente tra i "cussoghjali"
è quello della punitura. Questa norma dicomportamento prevede che
chiunque abbia perduto il gregge, per sorte avversa o per furto o per
ritorsione, riceva in dono dai vicini un capo bovino o ovino.
Le case erano, prima
d'essere abbandonate o “modernizzate”, piccoli capolavori di quella che può
essere definita un'architettura molto semplice e spontanea. Difficilmente si
notano le poche che non hanno subito radicali trasformazioni, spesso pacchiane:
il loro impatto ambientale è pari a quello, di quelle poche che vengono curate,
dei muretti a secco, ulteriore e fondamentale elemento della geografia
gallurese, segni dell'uomo integrati nel tessuto agrario. Infatti essi hannorappresentato in Gallura il
fulcro della vita rurale di migliaia di pastori-agricoltori per centinaia di
anni cioè fino alla fine XIX e inizi del XX secolo, quando la sua
caratteristica viene messa discussione negli anni ‘50 con il
fenomeno di migrazione dalle campagne verso i nuovi centri abitati (il
cosiddetto boom economico e l’avvento del turismo) con l’affermarsi di nuovi
sistemi economici e nuovi
la nuova sardegna del 24\8\2013
modelli di vita, e poi dagli anni '60\80 quando si
sono diffusi i fenomeni dell'inurbamento delle coste e poi la
sub-urbanizzazione delle campagne portano in pratica alla fine della civiltà
dello stazzo. Ma ancora
persiste soprattutto nelle località marittime snaturato nella sua funzione
originaria dal fenomeno delle seconde e terze case e secondo alcuni dalla
trasformazione \ riadattamento in agriturismi e B;B dotati dei migliori
comfort , talvolta inutili e fuorvianti come la piscina
I motivi della scomparsa del
modo di vita, della civiltà dello stazzo, sono da ricondurre all'evoluzione del
sistema economico.
L'economia basata sull'autoconsumo,
sull'impiego intensivo della forza lavoro non può reggere di fronte alla
concorrenza delle grandi aziende basate su una spinta meccanizzazione, elevata
standardizzazione del prodotto. Il supermercato decreta la fine della
produzione artigianale,parcellizzata. La politica agraria e sociale della
regione sarda non ha saputo cogliere l'importanza dello Stazzo, insieme ad esso
sono scomparse, l'insediamento sparso, la cura del territorio e dell'ambiente
rurale, la civiltà ad esso legate, una parte
pezzo importante irriproducibile della nostra Isola.
[1]
P.SUELZU Lo stazzo Gallurese,in Atti
del Convegno. "Coment'era” ,Viddalba 9 giugno 2007.pp.69-76 ,Alghero 2008