13.5.14

"Domandatemi di Auschwitz" Renate Lasker-Harpprecht ha novant'anni


Era una ragazzina quando fu deportata. In questa intervista al settimanale tedesco "Die Zeit" racconta con grande lucidità la sua esperienza. È la prima volta che ne parla in modo così dettagliato "Spesso mi chiedono perché non l'ho fatto prima. La risposta li soprende: perché nessuno me lo ha chiesto". E nei suoi ricordi del lager c'è una bimba bionda, italiana. Che Repubblica.it ha provato a identificare


Fino ad ora, di Renate Lasker-Harpprecht avevo sentito parlare soltanto da suo marito, il grande scrittore Klaus Harpprecht, che scrive ancora oggi per Die Zeit. È stato lui a segnalarci
che sua moglie aveva bisogno di parlare finalmente in modo approfondito della sua lotta per la sopravvivenza durante il nazionalsocialismo. Dagli anni Ottanta Renate Lasker-Harpprecht vive 
Renate Lasker-Harpprecht
con suo marito in Costa Azzurra, dove si è svolta questa intervista. Sediamo nel suo salotto, il cielo sull'insenatura si è coperto di nuvole, e ben presto piove a scrosci. Durante le ore successive Renate Lasker-Harpprecht non si lascia mai sopraffare dai suoi sentimenti. Beve caffè, fuma e a tratti trova l'espressione giusta solo in francese, inglese o italiano.
Suo marito mi ha detto che non ha quasi mai parlato, nemmeno con lui, del periodo da lei trascorso nel lager.
"Non ne parliamo particolarmente spesso".

A novant'anni, le capita mai di raccontare un po' più facilmente di prima quello che le è successo ad Auschwitz e a Bergen-Belsen?
"Sì, ma solo con certe persone. E non necessariamente con Klaus: con lui ho l'impressione che sappia comunque tutto. Ho anche paura di annoiare".

Non aveva paura che il raccontare le avrebbe fatto troppo male? Che la gente avrebbe reagito con insensibilità o superficialità?
"Non parlerei mai con gente che potrebbe reagire in modo superficiale. Ma spesso mi chiedono perché non ho parlato con i miei conoscenti o amici. E moltissime persone si stupiscono della mia risposta: non me l'hanno chiesto".

La gente non voleva saperne molto?
"I tedeschi non volevano saperne".

Come se lo spiega?
"Da un lato, tutti in qualche modo si vergognano, perché si tratta della Germania. Ma fanno anche qualcosa che mi irrita profondamente: cominciano immediatamente a parlare del loro terribile destino in guerra. Dei bombardamenti subìti. Allora interrompo il discorso. Il defunto scrittore Hans Sahl ha coniato una frase che uso sempre quando serve: "Siamo gli ultimi, facci delle domande!"".

Lei è cresciuta a Breslavia. Quando ha notato per la prima volta l'ostilità nei confronti degli ebrei?
"A differenza di mia sorella Anita io non ho sperimentato alcuna inimicizia personale. E, cosa che a quei tempi era molto importante, io, per dirla in modo il più possibile garbato, non ho un aspetto particolarmente ebraico. Non ho il naso adunco, non ho i capelli corvini (ride). Invece, mia sorella in fondo è un tipo sefardita, ha capelli nerissimi e il naso aquilino. Brutta storia".


Renate con la sorella Anita nel 1930



Anita Lasuer
E i suoi compagni di scuola, erano maldisposti?
"No, non direi. Ma c'erano quei favolosi genitori che volevano infilarli immediatamente nella Gioventù Hitleriana. Avevo un'amica che portava un grande nome: Hella Menzel, una discendente di Adolph von Menzel".

Il celebre pittore?
"Sì, e con lei avevo legato. Si era fermata spesso a dormire da noi, e non di rado io andavo da lei. Poi è arrivato lo sconquasso nazista. Io desideravo continuare a frequentarla, ma quando un giorno andai a trovarla, venne alla porta la cameriera e disse: "La signora non desidera che lei entri in questa casa". Ci rimasi un po' male, ma...".

Non ha più rivisto Hella Menzel?
"Sì, l'ho incontrata di nascosto qualche volta. Ma poi le ho detto: "È meglio smetterla, finirai per litigare con i tuoi genitori!". Credo che si sia un po' vergognata, perché era davvero una brava ragazza".

So che è accaduto di ben peggio. Però essere respinta sulla porta di casa dev'essere stato molto mortificante per lei, che era una ragazzina.
"Naturalmente. Ma poi tutto passa abbastanza in fretta, e ci si fa il callo. Altrimenti non si andrebbe avanti".

Come ha reagito suo padre quando è iniziata la discriminazione degli ebrei?
"È successo all'improvviso. Chi, prima del 1933, avrebbe chiamato qualcuno "porco ebreo"? Mio padre si era identificato con la Germania. Diceva: "Prima o poi convinceranno quel pazzo che non abbiamo voluto tutto questo!". Per questo non si è dato molto da fare per emigrare. Si era recato con la nave in Israele, che allora si chiamava Palestina, per visitarla. Ma poi era tornato indietro".

Non voleva andarci a vivere?
"No. Immagini: un noto ed eccellente avvocato si trasferisce in un Paese del tutto diverso. Cosa ci va a fare?".

Nemmeno il pogrom della Notte dei cristalli del 1938 ha convinto i suoi genitori che non c'era tempo da perdere?
"Certo. Si vedevano sempre meno ebrei per le strade. Ma non era affatto semplice lasciare il Paese. Gli altri Paesi non erano disposti ad accogliere tanto facilmente emigrati ebrei. Mio padre ha tentato di portarci in Italia. Era un grande amico della cultura italiana. E c'era quasi riuscito! Avevamo anche già spedito i nostri mobili con un enorme container. Non sono più saltati fuori. Non avevamo più mobili, dovevamo lasciare casa nostra, abbiamo vissuto stretti stretti da parenti con i quali non eravamo in grande familiarità. Anita e io fummo destinate al lavoro coatto".

I suoi spazi diventavano, letteralmente, sempre più stretti. Aveva molta paura? Oppure l'ha rimossa?
"Sicuramente ci ha aiutato a sopravvivere il fatto che, in fondo, eravamo incoscienti. Abbiamo sempre vissuto alla giornata".

Perché era così giovane?
"Eravamo così giovani. E dovevamo vedercela con i problemi quotidiani. Quando scoppiò la guerra, dovemmo sfacchinare terribilmente. Anita e io abbiamo lavorato in una cartiera dove si produceva carta igienica. Prima mi avevano mandato alla raccolta rifiuti, che era ancora peggio. Dovevamo cercare le parti in metallo tra i rifiuti, fra topi e gatti morti".

Il 9 aprile 1942 i suoi genitori furono deportati. Sapevano già che sarebbero stati arrestati?
"No, non furono arrestati, e nessuno bussò alla porta. I miei genitori ricevettero una comunicazione: "Domani alle ore tot dovrete recarvi al campo di raccolta ...". E ci sono andati. Hanno ubbidito. Invece, molta più gente sarebbe dovuta scappare".

Sono andati loro stessi al macello?
"Sì, sono andati al macello. La sera prima, i miei genitori hanno fatto i bagagli, si poteva portare con sé dieci chili di vestiti, più o meno. Poi ci siamo salutati. Mio padre ha dettato a mia sorella una sorta di testamento. A un certo momento io sono andata a dormire. Me ne vergognerò sempre, ma non ce la facevo più. Mia madre era seduta nella stanza accanto e piangeva. La sentivo. Sapeva che non avrebbe più rivisto le sue bambine".

I suoi genitori immaginavano come sarebbe stato terribile il lager?
"Immagino che durante il trasporto i miei genitori abbiano sentito abbastanza. Abbiamo saputo poi che erano stati portati in un lager vicino a Lublino. Un giorno un gruppo di persone fu portato davanti a una fossa. Furono costretti a denudarsi, dopodiché spararono loro alla nuca e caddero nella fossa. È probabile che i miei genitori siano stati uccisi così. Non so se i loro resti siano poi stati esumati e sepolti in una tomba comune".

Nel libro di sua sorella, al quale ha contribuito con qualche ricordo, ho letto che già prima della sua deportazione ad Auschwitz lei aveva saputo che giravano terribili voci sul lager.
"Sì, in carcere. Mia sorella e io avevamo subìto un processo...".

Avevate falsificato dei documenti di viaggio per alcuni prigionieri di guerra francesi e voi stesse avevate cercato di fuggire. Lei fu condannata, separata da Anita e portata in prigione...
"E, grazie a Dio, mi ritrovai in una cella singola. Nel carcere ero l'unica ebrea e non dovevo "infettare" gli altri. Fu una benedizione. Prima del processo avevamo dormito addossati gli uni agli altri in una cella. Ancora oggi non riesco a sopportare le masse di persone. Una notte ebbi un mal di denti terribile e fui portata dal medico del carcere. Nella sala d'attesa sedeva accanto a me una ragazzina. Le chiesi sottovoce da dove veniva. Rispose: "Da Auschwitz". Non potevo crederle".

Aveva un'idea di cosa fosse Auschwitz?
"Sì, sì. Auschwitz era il capolinea. Pensai: come ne è venuta fuori? Che sia una spia? E le chiesi se era vero quello che la gente raccontava di Auschwitz, se era davvero così spaventoso. E la ragazza mi rispose: "È molto peggio". Allora ho saputo quello che mi attendeva".

Lei giunse ad Auschwitz nel 1943.
"In carcere sentii all'altoparlante: "RENATE SARAH LASKER CON TUTTE LE SUE COSE!". Ciò significava che bisognava presentarsi con la gavetta e gli zoccoli di legno. Mi trovai di fronte a un uomo della Gestapo che mi disse, letteralmente: "Bene, adesso vieni ad Auschwitz. Per favore, firma qui che vieni volontariamente". 
E firmai. Quella notte ebbi paura".

In tanta angoscia aveva almeno un rifugio mentale?
"Avevo una certa fede che mi ha aiutato. Non ne ho mai parlato, nemmeno con mia sorella. Dunque, ho pregato: "Buon Dio...". La mattina dopo, fummo portati alla stazione centrale su un treno per prigionieri. Sedevo di nuovo da sola, probabilmente perché non volevano che una ragazza ebrea sedesse accanto agli altri. Poi siamo arrivati ad Auschwitz".

Qual è stata la sua prima immagine di Auschwitz?
"L'intero lager era illuminato a giorno, perché all'epoca i tedeschi sapevano che gli Alleati non lo avrebbero bombardato, e avevano ragione. Vidi delle SS, dei kapò e dei cani. Poi fummo portati in una grande sala dove mi spaventai molto, perché agli angoli erano sistemate delle docce. Avevo sentito che tutti i lager per la gassazione erano fatti così, che la gente vi veniva ammassata, e che da queste docce il gas...".

Se ne parlava già?
"Sì. Ormai era notte, tutto era buio, e venne dentro un mucchio di donne completamente nude. Allora mi spaventai di nuovo terribilmente, perché pensavo che se entravano qui nude... Non era solo per via delle docce... Era anche per via delle prigioniere che entravano. Avevano un'aria così spaventosa che mi chiesi: avrò mai un aspetto così?"

Che aspetto avevano le prigioniere? 
"Non avevano più capelli, ed erano pelle e ossa. Fecero la doccia e furono mandate di nuovo fuori. E la mattina dopo cominciò il giorno di lavoro. Dovetti spogliarmi e sedere su una sedia. Allora mi furono rasati i capelli".

Da un'altra detenuta?
"Lo facevano tutte le detenute. Mi tatuarono anche un numero sul braccio: 70195. Anita era arrivata una settimana prima. Lei ha il 69388. Curiosamente, il suo numero è ancora chiarissimo, mentre il mio è sbiadito. Mentre sedevo su quella sedia e mi venivano rasati i capelli vidi che sulla terra accanto a me c'era un paio di scarpe nere. Avevano la tomaia di pelle e stringhe rosse. Pensai tra me che conoscevo quelle scarpe! Perciò chiesi alla ragazza che mi rasava: "Sai con quale convoglio è arrivata quella?". "Sì, lo so bene, adesso quella ragazza è nell'orchestra"".

Intendeva l'orchestra di ragazze di Auschwitz, dove sua sorella suonava il violoncello.
"In preda all'eccitazione, quella ragazza corse nella baracca messa un po' meglio delle altre, dove abitava l'orchestra. Cercò Anita e le disse: "Credo che ci sia tua sorella!". Poi uscirono e ci abbracciammo. Così ho ritrovato mia sorella, tra centinaia di migliaia di persone".

Che impressione le fece?
"La vedevo per la prima volta con la testa rasata. Aveva un aspetto abbagliante, perché aveva quell'ombra scura della radice dei capelli sulla sua testa calva, con quegli angoli da intellettuale, a destra e a sinistra, come mio padre. Poi mia sorella rientrò, perché l'orchestrina doveva suonare marcette due volte al giorno. Quell'orchestra era formata solo da dilettanti. Perciò Anita venne accolta con entusiasmo. Non era ancora una musicista professionista, ma era molto brava".

L'orchestrina doveva accompagnare musicalmente ogni giorno l'uscita e il rientro dei detenuti che lavoravano fuori dal lager, ma doveva anche suonare regolarmente per il personale delle SS. Mi pare che sua sorella abbia addirittura eseguito un assolo per il terribile medico del lager, Josef Mengele.
"Sì, la Träumerei di Schumann. Sono certa che l'ha eseguita magnificamente. Mengele non mi ha fatto niente personalmente, ma era un tipo orribile. Se c'è una cosa inconcepibile nei nazisti tedeschi, se si vuole parlare per cliché, è questa mescolanza di fanatismo assoluto, indottrinato da un folle, e questa estrema sensibilità romantica".

Dopo che ebbe ritrovato Anita, cosa le successe?
"Ricevetti degli orrendi vestiti, degli zoccoli. Era dicembre, un freddo gelido. E mi mandarono nella cosiddetta quarantena, che toccava a tutti i nuovi detenuti". 

Perché dovette andarci? 
"Forse quelli delle SS speravano che i prigionieri morissero prima di essere gassati, oppure avevano paura che essi portassero qualche infezione. Dormivamo in quelle cuccette di legno a tre piani. Le più deboli giacevano sempre al piano più basso, perché era più facile uscirne. Io, però, avevo ancora un po' di muscoli nelle gambe e finii nel piano più alto. C'era soltanto una coperta stracciata e un po' di paglia Non ero sola, eravamo in quattro, più o meno. Nella baracca c'era un enorme trogolo. Tutte avevano la diarrea, e c'era una puzza immonda, non la si può chiamare diversamente. Mi accorsi ben presto che le detenute si derubavano a vicenda".

Ma cosa c'era da rubare?
"Gli indumenti, oppure un pezzo di pane. Di notte non mi sono mai tolta le scarpe, perché temevo che altrimenti, quando mi fossi svegliata, non le avrei più trovate. Molti che ne avevano la possibilità scambiavano il cibo con le sigarette. Perché nel lager c'era tutto".

Tutto?
"C'era tutto. Sì, poi venne Natale e i tedeschi delle SS, sentimentali come quasi tutti i tedeschi, naturalmente hanno celebrato il Natale anche ad Auschwitz. Al centro del lager c'era un grande albero di Natale".

In quel piazzale dell'appello?
"Sì. Un enorme albero di Natale. Io, che ero una ragazzina, avevo una voce molto aggraziata ed ero stata scelta, anche grazie alle relazioni di mia sorella, per cantare la canzone di Natale sotto quell'albero".

Quale? 
"Leise rieselt der Schnee. Ma non se ne fece nulla, perché un giorno caddi a terra durante l'appello. E quando riaprii gli occhi ero nell'infermeria del lager. Pensai che era la fine. Nel mio letto c'era un'altra donna. Ma ormai era morta, giaceva senza vita accanto a me". 
(Tace).

Lei dice: pensai che era la fine...
"Sì, ero davvero molto malata, avevo la febbre, la diarrea e deliravo. Avevo il tifo esantematico. Molti di quelli che non sono stati uccisi sono morti di questa malattia. Un giorno entrarono le donne e gli uomini delle SS a ordinarci di lasciare i letti. Tra tutta quella gente smagrita selezionarono quelli che dovevano andare a destra e quelli che dovevano andare a sinistra. A sinistra significava gassazione. Io venni smistata immediatamente a sinistra. Allora reagii bene e, chinatami verso un SS che non sembrava particolarmente feroce, sussurrai: "Sono la sorella della violoncellista". Allora mi diede un calcio nel sedere e mi spedì dall'altra parte. Perciò devo la vita a mia sorella".
Anita Lasuer

Che però, per quanto la cosa possa suonare assurda, quei giorni desiderò la morte: così ha scritto nelle sue memorie.
"È vero. Eravamo delle larve. Non avevamo niente da mangiare e avevamo diarrea sanguinosa. Quando mia sorella mi vide in quelle condizioni miserabili voleva davvero che io mi addormentassi... e fine".

Ma sua sorella è andata poi da Maria Mandl, la sovrintendente del lager femminile. Ha raccolto tutto il suo coraggio e le ha chiesto di impiegarla come staffetta.
"E lo sono diventata: ho poi trasmesso messaggi tra gli SS. La Mandl preferiva mia sorella, perché era una delle poche che parlavano ancora correttamente tedesco. Ed era molto importante non mostrare paura. Non ne ho mai mostrata".

Era una donna rozza?
"No, affatto. Era una persona di bell'aspetto. La si vedeva poco, ma era là, quando quella ragazza ebrea a cui subentrai come interprete e il suo amico polacco furono impiccati".

Intende la belga Mala Zimerbaum? Potrebbe raccontare la sua storia?
"Dovevamo allinearci due volte al giorno davanti alla baracca, in file da cinque, dopodiché venivamo contati da un kapò e da una donna delle SS a cui era stato assegnato il comando di un blocco. Questo controllo durava molto a lungo, perché occorreva conteggiare chi era morto e chi era ancora vivo. Una sera rimanemmo in piedi per ore e non successe nulla. Poi risultò che nel campo degli uomini e in quello delle donne mancavano due persone".

Una per ogni campo? 
"Sì, da noi mancava Mala. E nel campo degli uomini questo Edeck".

Edek Galinski, il fidanzato di Mala. Questo caso è documentato.
"A quel punto suonarono le sirene. Erano scappati. Nelle nostre baracche improvvisammo danze di gioia, perché volevamo tutte bene a Mala. E pregammo soltanto che ce la facessero. Ma qualche giorno dopo, quando presi servizio, vidi Mala davanti al portone del lager. Credo che fosse incatenata".

La fuga era fallita.
"Quell'estate ad Auschwitz faceva un caldo terribile. Quando le passai davanti mi sussurrò qualcosa; non capii perfettamente, ma compresi che mi chiedeva di procurarle una lametta. Cercai di fargliela avere, ma senza successo. È chiaro, però, che qualcuno gliene procurò un'altra. Qualche giorno dopo ci fu un appello generale, di nuovo con le sirene. Nella piazza centrale del lager avevano innalzato una forca. Dovevamo assistere tutte a quella punizione esemplare e convincerci che nessuno aveva la possibilità di fuggire dal lager. Un uomo delle SS portò Mala sulla forca. Allora lei fece un balzo in avanti, si tagliò i polsi e schiaffeggiò quell'SS, che fu tutto macchiato di sangue, da capo a piedi. Però, Germany being Germany o, come diciamo noi, KZ being KZ, non le vollero concedere la morte di mano propria. Le bendarono le ferite, la portarono nel cortile del crematorio e le spararono. Poi sostituirono tutti i detenuti che avevano svolto funzioni maggiori e minori nel lager. Questi furono mandati a spaccare pietre. Ebbi di nuovo fortuna, poiché i sorveglianti sapevano che mia sorella suonava nell'orchestra. Pensarono: se una sta qui, l'altra non scapperà. Quindi ho ottenuto il lavoro di Mala".

Il gesto di ribellione di Mala vi ha impressionato?
"Sì, tremendamente. Ma era anche del tutto irrealistico immaginare che a qualcuno la fuga potesse riuscire".

Tra i detenuti c'era una qualche forma di solidarietà? Oppure ad Auschwitz ognuno pensava solo a se stesso?
"Ognuno pensava solo a se stesso, senza dubbio. Ma nella baracca di mia sorella c'era qualche ragazza che aveva fatto causa comune. Questo mi ha sempre impressionato molto. A parte mia sorella, erano tutte francesi. Una, che non dimenticherò mai, si chiamava Elaine, e anche nell'inverno più freddo si lavava con la neve. Noi non ci siamo più lavate, perché avevamo troppo prurito. Lei, però, si sfregava da cima a fondo con la neve, ogni giorno. Questo l'ha tenuta in vita. Inoltre era una buona violinista, anche questo l'ha aiutata".

E le ebree nelle loro baracche erano un po' solidali tra loro?
"Solo quando tra due nasceva un'amicizia. E poi quello che conta di più non è chi è solidale, ma chi odia al minimo e chi odia al massimo. Fa una grande differenza. Naturalmente, non si può dire: "tutti i polacchi, o tutti i russi ci hanno odiato". Ma dopo la guerra, durante una discussione, ho fatto un'osservazione che ha suscitato molta rabbia. Ho citato un esempio da Auschwitz, da me vissuto personalmente: uno o due giorni dopo il mio arrivo, c'erano vicino a me due ragazze polacche. E chiesi: "Da dove viene questa puzza terribile?". Era il camino del crematorio. Ne usciva un fumo untuoso, nero. E quelle risposero: "Sono i tuoi genitori, che passano per il camino". Se si è avuta un'esperienza del genere, si fa presto a generalizzare. Klaus, mio marito, diceva sempre, con un po' di ironia, che io sono razzista perché ce l'ho con i polacchi. Però adesso mi è passata".

I detenuti polacchi erano particolarmente astiosi?
"No. Le peggiori erano le russe. Erano le più forti".

Intende le detenute russe?
"Sì. Con i maschi non avevamo nulla a che fare. Le russe non hanno fatto che picchiarci e portarci via il pane. Cose del genere non si dimenticano. E non voglio nemmeno dimenticarle".

Ha mai colto un moto umano nei suoi guardiani?
"Sì, in un uomo delle SS, che rispondeva al bel nome di Kasernitzky. Accadde più tardi, a Belsen. Faceva la guardia quando provai ad andare a prendere di nascosto dell'acqua. Si girò dall'altra parte. L'acqua era tremendamente cara. E poi, quando lavoravo in ufficio a Belsen, c'era un poliziotto che mi metteva un gran pezzo di pane nel cassetto. Ogni giorno".

Sa perché lo faceva?
"Non lo so. Comunque, dopo la guerra mi ha chiesto una dichiarazione a suo favore. E sono stata contentissima di scrivergliela. Si era davvero comportato da brava persona. Quando tra il personale del lager di Belsen si diffusero le voci che la guerra per i tedeschi non stava andando molto bene, anche loro naturalmente diventarono più gentili. Non ci minacciavano più con i cani ed erano un po' meno brutali. Non ci fece una grande impressione, ma era così".

Come si spiega che quasi tutti i sorveglianti e le sorveglianti abbiano completamente ignorato quella sofferenza?
"Anche a me piacerebbe saperlo. Faccio una piccola digressione, Un giorno giunse ad Auschwitz un grande convoglio italiano. Per qualche motivo una bambina era sgattaiolata via: una bambina molto dolce, biondissima. Sicuramente non era arrivata da sola, ma improvvisamente me la sono vista vicina. E mi sono presa cura di quella bambina, lo posso ben dire. La trovavo incantevole. Aveva così fiducia in me. Le ho dato da mangiare, riuscivo a occuparmi di lei, perché avevo qualche libertà nel lager. Un giorno però ho perso di vista la piccola, mi ero ammalata di nuovo. Quando fui di nuovo in piedi avevano già ucciso la bambina. Per tornare alla sua domanda: come si può? Questo dipende un po' anche dalla mentalità delle diverse nazionalità. Non credo che in Italia - e anche lì tirava una brutta aria - avrebbero fatto cose così spaventose con i bambini".

Dei circa sei milioni di ebrei uccisi nell'Olocausto una vittima su quattro era un bambino. Crede che un simile orrore affondi le radici anche nella mentalità di un popolo?
"Anche, sì. In certe generazioni e in certi strati sociali".

Sa come si chiamava quella bambina italiana?
"Il nome cominciava con la emme. Marta, o qualcosa del genere. Era una bambina ebrea".

Nel lager, diceva, ci si poteva procurare tutto. Com'era possibile?
"Nel lager tutti i luoghi dove si lavorava avevano un nome. La baracca dove ci si poteva procurare tutto si chiamava "Canada". Alle persone che erano giunte nel lager avevano tolto tutte le loro cose. E molti detenuti, soprattutto polacchi e greci, si erano cuciti negli orli dei vestiti monete d'oro e cose simili. Tutto questo era immagazzinato in Canada. E i kapò, che tra i detenuti erano senz'altro quelli che se la passavano meglio, si prendevano tutte le cose che gli portavano i gruppi di prigionieri assegnati al Canada, alla cava di pietra o al campo. Questo era uno dei motivi per cui li detestavamo".

I kapò imboscavano tutto?
"Certo, certo".

E cosa se ne facevano di quella ricchezza?
"Corrompevano".

Cioè ottenevano una fetta di pane in più?
"Sì, sì. Avveniva attraverso cento canali. Purtroppo non sono mai riuscita a farlo. Ho rubato regolarmente una sola cosa: verdura fresca. Le detenute che lavoravano nel campo si nascondevano un mucchio di cipolle e di aglio. Era molto importante nel lager, poiché soffrivamo di una assoluta carenza di vitamine. All'improvviso mi erano comparsi dei buchi nelle gambe".

Piaghe da mancanza di vitamine?
"Sì, ho ancora le cicatrici. Ogni volta che questi gruppi di prigionieri tornavano dal campo venivano perquisiti e le cose fresche finivano in un mucchio. E quando i detenuti andavano nella baracca, noi messaggeri e staffette ci servivamo. Ne valeva la pena. Ma non ho mai visto un granello d'oro".

Mi rendo conto che questa domanda può suonare addirittura odiosa: ai tempi del lager ha mai fatto qualcosa di cui si vergogna?
"Sì. Lei la considererà una quisquilia, ma io me ne vergogno ancora oggi. Un giorno qualcuno - non so più chi - mi regalò una mezza tavoletta di cioccolata. Ero incredibilmente felice. Erano anni che non vedevo qualcosa del genere. E mi dissi: ora vado da Anita e ci dividiamo questa cioccolata. Invece, durante il cammino me la mangiai tutta quanta. È l'unica cosa di cui mi vergogno".

Una simile piccolezza!
"Ma dimostra mancanza di carattere e di disciplina. Non va".

Era possibile corrompere gli SS?
"Sì, perché non gridassero e non picchiassero le persone che non spalavano abbastanza velocemente. Dominava una brutalità inimmaginabile. Anita e io lo abbiamo visto in piccolo nel trasporto da Auschwitz a Belsen. Siamo state trasportate su un carro bestiame, ma abbiamo dovuto fare e piedi l'ultimo tratto".

Chilometri e chilometri...
"Fino a quando abbiamo raggiunto il campo di concentramento. E chi cadeva per strada e non riusciva più a rialzarsi semplicemente lo finivano... (si interrompe). A volte mi frena il timore di poter dire delle cose che in qualche modo potrebbero ferire".

Cosa intende?
"Non lo so. Perché abbiamo la tendenza a generalizzare - come prima, quando parlavo del fatto che i tedeschi amano tanto la musica. Ma tant'è: o si parla o non si parla".

Credo che lei non debba avere alcuna remora. La marcia verso Belsen è avvenuta nel 1944, da un inferno all'altro.
"A Belsen la gente non veniva più gasata, ma...". 

Moriva di malattia e debilitazione...
"Sì, e per il disgusto di se stessa. Eravamo così sudici. Eravamo pieni di pidocchi, avevamo sempre la diarrea. Le ragazze e le donne con il ciclo mestruale non avevano niente per... Però, c'era qualcosa nella minestra che bloccava le mestruazioni. La davano anche ai soldati al fronte. Non era acido cloridrico, ma una roba terribilmente salata. Non avevamo più nessuna volontà, non eravamo più in grado di fare niente, perché eravamo così disgustate di noi stesse. Anche questo non lo dimenticherò mai: questo disgusto di se stessi, l'orribile humiliation... come si dice?".

Umiliazione.
"... e l'umiliazione che ci hanno fatto subire. Non l'ho mai dimenticato e non lo voglio nemmeno dimenticare. Dopo la liberazione di Belsen, gli inglesi hanno fatto qualcosa di molto buono: hanno portato nel lager la gente del posto più vicino. Un ufficiale scozzese mi ha chiesto: "Vuoi che te ne tiri fuori qualcuno? Potete farne quello che volete". Gli ho risposto: "Grazie, ma non mi interessa affatto". Ho guardato quella gente come al cinema".

Come si comportarono quei tedeschi entrando nel lager?
"Hanno voltato lo sguardo, le donne senz'altro, e anche gli uomini, quando li hanno portati davanti alle fosse comuni. Per i cadaveri putrefatti, Belsen puzzava come non ho più sentito. Avevamo dovuto trascinare i cadaveri in quelle fosse. Ci avevano dato delle corde molto grosse con le quali dovevamo legare i polsi dei morti. Poi con quelle corde abbiamo trascinato i cadaveri attraverso il lager. Ma non ne potevamo più. Siamo riusciti a smaltire cinquanta cadaveri al giorno. Alla fine i morti furono spinti tutti assieme nelle fosse con i bulldozer. Bisognava tenere in ordine".

E quando i tedeschi di quel posto lì vicino hanno visto quei mucchi di cadaveri e le fosse: come hanno reagito?
"Non riuscivano a capire. Abitavano a pochi chilometri...". 

... e non sapevano?
"Ovviamente lo sapevano! Ma la gente aveva paura di dire qualcosa. È la miseria di tutte le dittature. Da un certo punto in poi non potevano mettere più piede nella Landa di Lüneburg. Romanticismo della brughiera del cavolo! Odio la Landa di Lüneburg e non voglio mai più rivederla. Abbiamo marciato per chilometri fino al lager. Anche attraverso i villaggi. Non mi dirà che i tedeschi non sapevano che c'era un campo di concentramento".

È vero che dopo la liberazione da parte degli inglesi è dovuta rimanere ancora un anno a Belsen?
"Sì, ma non è stato così brutto, perché non abbiamo più vissuto in una di quelle baracche. Grazie agli inglesi, abitavamo in una casa vera e propria. L'avevano sequestrata. Per i criteri di oggi era molto modesta, ma pur sempre una vera casa, con la cucina. Anita e io avevamo di nuovo un aspetto abbastanza curato. Avevamo di nuovo i capelli e indossavamo qualcosa di decente. Ed eravamo continuamente in viaggio. Mia sorella ha anche testimoniato nel primo tribunale per i crimini di guerra di Lüneburg". 

Dopo la guerra ha vissuto dapprima in Gran Bretagna, dove ha trovato lavoro presso il servizio tedesco della Bbc, in un primo momento come segretaria, poi come moderatrice. Successivamente, ha faticato molto per riavere il passaporto tedesco.
"Non avevamo più documenti, niente di niente. Poco prima della liberazione di Belsen le SS cercarono di bruciare tutto. Allora i pennacchi di fumo non uscivano dal crematorio, ma dall'ufficio. Ovunque svolazzavano qua e là pezzetti di carta bruciacchiati. Quando percorsi il viale del lager mi volò davanti ai piedi un documento un po' più integro. Lo raccolsi: era la mia carta d'identità tedesca".

Se lo si vedesse in un film, si direbbe...
"... che non può essere vero. Io, però, non ho conservato quel documento. A quel tempo non ero così sentimentale come forse lo sarei oggi. Quando poi Klaus e io ci siamo trasferiti a Colonia e io volevo riavere il mio passaporto tedesco, per principio, perché ne avevo diritto, dovetti riempire tanti di quei formulari che non si può immaginare. Ero stata incarcerata con l'accusa di falsificazione di passaporti. Un tribunale doveva emettere una sentenza. Sembrava uno scherzo. È andata avanti per molto".

Non ha tremato di rabbia? 
"No. Probabilmente questo è uno dei motivi per cui riesco a mantenere in una certa misura il controllo di me stessa. Non riuscivo più a irritarmi per cose del genere".

Le è stato difficile tornare in Germania?
"No. Ben presto dopo la liberazione mi sono imposta di non far decidere da Hitler il resto della mia vita. Per questo non ho avuto problemi con i giovani tedeschi che ho conosciuto nel servizio estero della Bbc di Londra. E mi trovavo bene anche con la maggior parte delle persone che lavoravano con me alla televisione tedesca, a Colonia. Avevo qualche problema con Höfer".

Il giornalista televisivo Werner Höfer? A quell'epoca certamente non si sapeva che nel 1943 aveva approvato la condanna a morte di un giovane pianista.
"No, allora non lo sapevo. Era stato invitato alla nostra festa di matrimonio a Colonia. Aveva bevuto uno sproposito, e mi stava addosso. Mi guardò fissa negli occhi e mi disse: "Bella ebrea". Roba da vomitare. Per il resto, però, non ho avuto difficoltà, come ho detto. Uno dei pochi vantaggi dell'età è il fatto che non ho più tollerato niente. Ultimamente sono andata in un caffè qui del posto, cosa che al contrario di Klaus faccio spesso, per incontrare degli amici".

Alla Croix-Velmer la conoscono molto bene...
"Ah sì, lì mi conoscono tutti. A un tavolo accanto al mio sedevano due brave persone che conoscevo e un terzo uomo, un vecchio bacucco. Parlavano della crisi economica. Allora ho sentito chiaramente qualcosa. Ho ancora un ottimo udito. E questo terzo si è messo a dire: "È tutta colpa degli ebrei!". Allora ho respirato profondamente, mi sono alzata e ho detto a quel tipo: "Le dispiace ripeterlo?". Ha borbottato qualcosa e se n'è andato. Con questa gente sbotto: "Non ho il naso adunco, non puzzo d'aglio. Che altro vuoi?"" 

Riescono le parole a descrivere l'orrore che lei e tanti altri avete sofferto ad Auschwitz? Alcuni, anche fra i sopravvissuti, dicono che la lingua non ne è capace.
"È vero".

Ma con i suoi racconti lei riesce a far rivivere quello che è successo ad Auschwitz e a Belsen.
"Trova? Dipende anche da chi ascolta. Tempo fa mi hanno chiesto di parlare in una scuola francese. Ho chiesto alla direttrice: "Come posso spiegare a bambini di dieci anni cos'è l'Olocausto?"".

Ci ha comunque provato?
"L'ho fatto, sì. La maestra mi ha tranquillizzato: "Questi bambini vedono cose terribili, alla televisione o su internet, e non si metteranno a gridare"". 

E come hanno reagito?
"Ieri ho incontrato al mercato due bambine di quella classe, graziosissime, con i capelli lunghi. La più grandicella ha detto: "Quello che ci ha raccontato è stato molto impressionante". Io volevo soprattutto che quei bambini non si annoiassero. È importante raccontare ai bambini di dieci anni storie dove c'è a little action (ride). Perciò dapprima ho raccontato a questa classe come ho ritrovato mia sorella, la storia delle scarpe. Ed è piaciuta molto. Poi ho raccontato come sono morti i miei genitori: "Non voglio spaventarvi; a voi non succederà niente di simile. Ma immagina che tua mamma e tuo papà...". Silenzio di tomba. Questo silenzio mi ha colpito molto, perché sapevo che i bambini ascoltano davvero".

Nelle poche interviste che ha rilasciato lei ha più volte preso in giro gli ex detenuti dei campi di concentramento che si scompigliano i capelli e piangono quando parlano di Auschwitz.
"Sì, questo mi fa impazzire".

Non ne hanno diritto?
"No".

Perché no?
"Non lo so, mi vergogno per loro quando lo vedo. Auschwitz non consente la commozione di vecchi e di vecchie. Io la penso così, ma forse sono ingiusta".

Deve fare i conti con un sentimento che ribolle anche in lei?
"Noo! Io ribollo quando vedo alla televisione le storie commoventi che non mi riguardano personalmente. Di recente hanno dedicato una settimana al tema del cancro e hanno trasmesso un film su un ospedale per bambini. Quando l'ho visto non ho potuto fare a meno di piangere amaramente. Forse ho pensato anche alla piccola italiana, è senz'altro possibile. Ma quando persone che hanno vissuto tutto questo e hanno raggiunto un'età avanzata si mettono al centro di un'ex baracca di Auschwitz e si scompigliano i capelli, non lo sopporto. In francese si dice pudeur".

Pudore.
"Proprio, grazie. Bisogna tenere il becco chiuso. O lo si fa, o si sta fuori. Quando tornai per la prima volta ad Auschwitz dopo la mia "vacanza" in quel posto, fummo invitati dall'ambasciata israeliana a Berlino. Anita e io abbiamo viaggiato attraverso quella campagna. Accompagnavo un ufficiale gravemente ferito nella guerra del Kippur che camminava a fatica. Con lui mi sono trattenuta ancora di più, perché sapevo che mia sorella gli avrebbe sicuramente parlato di quei tempi in modo diverso da me: più rigorosa, più intransigente, più emotiva".

Voleva evitare i sentimenti di sua sorella?
"Sì, in qualche modo volevo fare a modo mio. Quell'ufficiale aveva davvero vissuto in guerra cose terribili, ma non avrebbe potuto sopportare di attraversare quelle stanze: la stanza delle scarpe, quella dei capelli, la stanza con le  valigie. Quella che mi interessava di più era la stanza dei tatuaggi dove ho trovato le scarpe di Anita".

Crede ancora alle persone, in generale?
"No, per la verità no. Ho imparato a osservare attentamente. Ora vedo attraverso le persone. Sembrerà semplicistico, ma so già come si sarebbero comportati se fossero state sedute con me in una cella".

Lo  sente?
"Sì. Se la gente in qualche modo mi è antipatica. Allora mi chiedo: cosa farebbero? Mi farebbero qualcosa? Oppure: mi denuncerebbero perché ho mangiato tutta la cioccolata? Forse sono reazioni troppo elementari e troppo spontanee, ma perlopiù ci azzeccano".

© Die Zeit 2014 
*Giovanni di Lorenzo è direttore di "Die Zeit" 
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
 

In cerca della piccola "M". "Ma quei capelli biondi ad Auschwitz può averli visti solo per pochi minuti"

da  repubblica  online   del 10\5\2014  



Dai ricordi di una donna tedesca sopravvissuta al campo di concentramento affiora l'immagine di una bambina italiana, a cui la giovane deportata si era affezionata. Ma nella sua memoria c'è solo l'iniziale delnome. Con il direttore scientifico del prossimo museo della Shoah di Roma abbiamo provato a ricostruire le circostanze di quell'incontro. Poche possibili "Marta", tante Mirella, Mimma, Milena... "Ma il lavoro di documentazione non è mai finito, noi continuiamo a raccogliere testimonianze".



"Una bambina bionda italiana, col volto dolce, improvvisamente era sgattaiolata vicino a me...la trovavo incantevole...Era arrivata ad Auschwitz con un grande convoglio italiano, sicuramente non era giunta da sola...Le ho dato da mangiare, riuscivo a organizzare qualcosa per lei, perché avevo qualche libertà nel lager...Un giorno però l'ho persa di vista perché mi ero ammalata di nuovo... quando tornai in piedi era sparita, avevano già ucciso quella piccola ebrea". 

Renate Lasker Harpprecht, la sopravvissuta tedesca che racconta il suo Olocausto nel campo di sterminio degli ebrei nell'intervista a Die Zeit che Repubblica ha pubblicato oggi, si sofferma in questo piccolo, dolce e tremendo ricordo nei giorni peggiori. "Il suo nome? Cominciava con la "M" - risponde l'ebrea novantenne - Marta, o qualcosa del genere" .
Chi poteva essere quella bimba? E come mai una "bimba" è riuscita a stare per un pò nelle baracche degli adulti, dal momento che ad Auschwitz la quasi totalità dei bambini al di sotto dei dieci anni visti venivano immediatamente eliminati. Marta? Ma davvero la signora ricorda bene il nome? E' un nome che non rientra in quelli tipici della tradizione ebraica: a quanto risulta dal libro della Shoah in Italia, formidabile database italiano sul peggiore dei crimini del '900, sarebbero state solo sei le donne ebree di nome Marta deportate dall'Italia ai campi di sterminio. 
Marcello Pezzetti, lei è il direttore scientifico del prossimo Museo della Shoah di Roma. Chi poteva essere la misteriosa bimba incontrata daRenate Lasker Harpprecht?
"La prima cosa che mi viene in mente dopo aver letto la testimonianza è terribile: e cioè che i capelli biondi di quella bimba la signora tedesca li ha potuti vedere per pochissimo tempo. Tutti i deportati che entravano nei campi venivano nel giro di mezz'ora rasati a zero, e dunque anche la misteriosa bambina "M" avrà subìto quel trattamento. E ancora. E' verissima la scena raccontata dalla sopravvissuta, quel "sgattaiolare" della piccola. Abbiamo molte testimonianze di genitori o parenti che, nella confusione del momento dell'arrivo sulla Judenrampe dove in pochi minuti dovevano essere smistate le famiglie ebree, davano delle spinte ai figli per farli fuggire da qualche parte, tentavano di allontanarli da loro col disperato tentativo di salvarli. E i bambini sbucavano da qualche parte del campo, come dal niente". 
Scampata, ma per poco tempo, alla Shoah grazie alla "protezione" di una giovane deportata tedesca
"Circa 220 mila bambini vennero deportati ad Auschwitz, e la quasi totalità venne subito eliminata. Nei Kinderblock, le baracche dei piccoli, ne sono finiti solo una piccola percentuale ma solo quelli con qualche particolarità genetica: gemelli, o bambini con qualche deformità o con dettagli apparentemente di poco conto come le iridi di colori diversi e anche figli di genitori "misti", uno cattolico e l'altro di religione ebraica. Servivano a Mengele per i suoi folli studi sulla presunta ereditarietà dei fattori negativi nei cromosomi degli ebrei e di quelli positivi del carattere ariano. Questa è l'atrocità della Storia. E pochissimi tra loro si sono salvati. Ma forse la bimba "M" aveva più di dieci anni, età discriminante tra bambini e adulti. Magari era piccolina di fisico, minuta, dimostrava meno dell'età dei suoi documenti. Milena Zarfati, ad esempio, aveva appena compiuto 15 anni ma appariva talmente piccina che finì nel blocco dei bambini. No, la bimba "M" non poteva essere lei perché Milena fu una delle pochissime del Kinderblock che riuscì a sopravvivere perché era stata messa al lavoro nelle fabbriche di munizioni per via delle dita sottilissime. E' scomparsa lo scorso anno".
La signora tedesca pensa di ricordare il nome "Marta" ed effettivamente risulterebbero sei le donne ebree con quel nome deportate dall'Italia ai campi di sterminio. Lei cosa pensa?
"Marta non è un nome ebraico, così come è raro, per motivi religiosi, che una ebrea italiana si possa chiamare Maria. Forse Mimma, diminutivo tipico di tanti nomi ebraici romani... E comunque, a quanto si sa finora, nessuna delle sei deportate italiane di nome Marta aveva l'età di "una bambina". Allora, la più giovane, Marta Ascoli, triestina, aveva 17 anni: ma fu l'unica di loro sopravvissuta allo sterminio ed è scomparsa nel marzo scorso all'età di 87 anni. Direi di ripartire da "M".
Probabilmente, ma non con la totale certezza, la sopravvissuta ha incontrato quella bambina italiana nell' inverno del '43. E ricorda che era arrivata ad Auschwitz "con un grande convoglio italiano"...
"I treni dei deportati erano tutti "grandi", avevano minimo 500 persone, ma se dobbiamo focalizzare meglio il momento "il più grande convoglio italiano nel '43" è uno solo, e non c'è modo di sbagliare: è quello proveniente da Roma, due giorni dopo la razzia nazista nel ghetto di Roma il 16 ottobre del '43, con dentro 1022 ebrei, la quasi totalità romani: pochi uomini, tante donne, anziani e bambini. Qui però non risulta esserci nessuna bambina di nome Marta, e invece erano 11 le giovanissime con un nome che iniziava con la lettera M: l'età variava dai 3 anni di Mara Sonnino ai 19 di Mirella Astrologo. Marisa Anticoli e Mirella Terracina avevano nove anni, Mirella Di Tivoli 14, Milena Zarfati 15, Marisa Frascati era una undicenne. Marina Mieli ne aveva 6 e Marina Tedeschi 16 anni. Tra tutte solo Milena Zarfati ne uscì viva ed è scomparsa lo scorso anno. Chissa mai se è una di loro..."


E gli altri convogli di ebrei italiani nel '43?

"Uno arriva da Firenze e da Bologna il 14 novembre, con circa 400 deportati dopo le retate in Toscana, Emilia Romagna e Liguria, e l'altro l'11 dicembre: proviene da Milano, da Verona e si unisce un altro treno da Trieste, in tutto 600 ebrei stipati nei carri-merci. E da Borgo San Dalmazzo, in provincia di Cuneo, arriva i primi di dicembre del '43 un altro carico di prigionieri, la gran parte di loro sono ebrei di origine francese. Ma non risultano arrivate bambine col nome "Marta" né nel '43, né nel '44, con i convogli che cominciarono a giungere dal campo di raccolta di Fossoli fino a fine luglio. E con l'ultimo treno di deportati per Auschwitz che partì da Bolzano nell'ottobre del '44. Va ricordato però che piccole con nomi italiani potevano provenire dalle deportazioni dalle isole greche e in particolare da Rodi".


Cosa dice dell'affetto provato dalla donna tedesca per quella bimba "sgattaiolata"?

"E' da brividi. Abbiamo molte testimonianze di deportate che hanno cercato di proteggere i più deboli, dava forza anche a loro, ma in più qui c'è il fatto che la donna è tedesca, capisce la lingua degli aguzzini, sa bene che quella bambina lasciata sola non ne uscirà viva. Magari è sgattaiolata via dalla rampa della selezione e per puro caso è finita dalla parte dei deportati che lavorano nel campo. Poi la bimba sarà stata portata nella "sauna", sarà stata tatuata e alla fine riesce ad avere un pò di sollievo, a stare vicino alla sua "protettrice". Ma era chiaro che, nel momento in cui la donna l'avesse dovuta lasciare - non volutamente, ma perchè ricoverata in infermeria- per lei lì non ci sarebbe stato scampo". 


La sopravvissuta tedesca dice che forse gli italiani non avrebbero compiuto queste atrocità con i bambini, così come hanno fatto i nazisti

"Non è vero. Forse non l'avrebbero fatto in quella forma organizzata, ma prendere un bambino e darlo in mano a un nazista, così come hanno fatto, e ci sono centinaia di testimonianze, cos'era? Una parte non irrilevante di italiani ha anche cercato di salvare gli ebrei, dunque i rischi che correvano si conoscevano bene. E poi non sono certo immuni da atrocità: in Eritrea, nell'Africa coloniale non dimentichiamoci che gli italiani hanno gasato la popolazione civile".


Il prossimo anno, nel 2015, ricorrono i 70 anni dell'apertura dei cancelli di Auschwitz. A cosa serve oggi quella Memoria sempre più lontana?

"L'Italia non ha mai fatto i conti su quel passato, continua a aggrapparsi all'idea che il nostro paese fu "vittima" del furore nazista. E invece non è vero: in quei crimini ne fummo alleati consenzienti e collaborativi. Soprattutto sulla questione ebraica. Nel '46, poi, l'amnistia di Togliatti di fatto sanò tutti i reati legati alla persecuzione razziale. Anno dopo anno, si vanno spegnendo le voci dei testimoni diretti e invece bisogna continuare ad aprire tutti "gli armadi della vergogna".


Secondo lei qualcuno potrebbe ricordare qualche altro dettaglio su questa storia: un parente, uno che vide, qualcuno che ha dei documenti di allora? 

"Noi ogni giorno andiamo a cercare testimonianze. Chi vuole può mettersi


in contatto con noi alla mail info@museodellashoah.it. Lo scorso anno, grazie alle famiglie che ce le hanno inviate, abbiamo ritrovato foto in cui si vede il volto dei soldati nazisti che parteciparono alla retata del 16 ottobre '43. Ancora possiamo mostrarle a qualche sopravvissuto alla razzia che potrebbe riconoscerli ma fra pochi anni, di loro, gli ultimi testimoni diretti della Shoah, non ne resterà più nessuno".

11.5.14

riscoperte : robert capa a colori

Eravamo (  compreso  il sottoscritto   prima della  mostra  al man  di   Nuoro   ne  ho  parlato qui  qualche tempo fa  sul blog  )   abituati a pensarlo   come il grande fotografo del bianco e nero e della guerra E non avevamo ancora visto tutto

 dall'edizione di repubblica  del  13.4.2014  qui per il download   (  dove  trovate  meglio  le  foto  che  dal  pdf  si possono  copiare  male  ) 

NEW YORK
Nelle  gare  di apnea   da ragazzino  arrivavo fino a tre minuti. L’apnea è disciplina mentale, se riesci a trattenere il respiro, a non cedere  alla dittatura del diaframma, allora riesci anche a controllare le emozioni.
Arrivo all’International Center of Photography di New York e tiro con il naso tutta l’aria possibile per riempire i polmoni. Davvero non so se davanti alle immagini che hanno costruito segmento dopo segmento la visione  che ho del mondo, le mie funzioni vitali  resteranno inalterate. Incontrare le foto di  Robert Capa è
come stare davanti a Raffaello  o Caravaggio. Tutte le immagini che avete  in mente sulla Seconda guerra mondiale,sulle truppe americane in Italia, sulla guerra  in Spagna, sugli ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento, sulle città bombardate,ecco, tutte queste immagini nascoste in qualche angolo remoto della vostra  memoria, esistono in voi perché è esistito Robert Capa. Un fotoreporter che aveva quasi sempre la sua macchina fotografica pignorata e riusciva a riscattarla solo quando riceveva i soldi di anticipo per un servizio fotografico.
I suoi scatti più noti sono ormai proprietà della memoria di tutti: il miliziano anarchico colpito a morte nella guerra di Spagna, la sua foto forse più citata, le madri in lutto intorno
alle bare dei ragazzi del liceo Sannazaro morti combattendo i tedeschi nelle Quattro Giornate di Napoli. Le immagini sfocate dello sbarco in Normandia, quelle a cui Spielberg si ispirò per la sequenza iniziale di Salvate
il soldato Ryan. Foto per definizione in bianco e nero. Per questo la mostra “Capa in Color” allestita qui per celebrarne il centenario rappresenta una sorta di shock visivo.
Prima di tutte c’è quella, incredibile, di Capucine,donna bellissima e sfortunata, morta suicida a sessantadue anni. Incredibile perché standole accanto senti le sue narici  respirare. Il mento posato sul pugno, la luce
di Piazza di Spagna, la camicia rossa. In quello scatto sembra esserci già tutto il suo destino,ed è la prova dell’arte di Capa che con  il suo occhio, con il suo sguardo unico fonda un genere letterario.

La mia  formazione, tutto ciò che ho scritto e tutto ciò che hanno scritto gli autori che mi hanno influenzato, discende direttamente da lui. Il neorealismo letterario, iconografico e cinematografico si è nutrito di Robert Capa. Di questo fotografo che arrivava a stento al metro e sessanta ed è raccontato dalle biografie come indomito amante, cronometrico nello sparire quando l’amata mostrava di volerglisi legare in un progetto di vita assieme. Aveva amato anche Ingrid Bergman, e proprio lui l’aveva introdotta al cinema italiano neorealista. Rossellini si è nutrito del rigore estetico di Capa, che non era solo scovare il dramma, ma la sua pericolosa bellezza comunicativa, per rendere il dramma in grado di trasformare chi lo osserva. Questo, l’insegnamento più profondo di Capa al cinema. Il suo lavoro non ci ha solo consentito di costruire un personalissimo e sontuoso mosaico.



 No, Capa ha fatto moltodi più: ha fatto letteratura e comunicazione, nelle loro accezioni più moderne. Il suo modo di scattare non è denuncia, non è indignazione, non è scelta d’arte, ma è tutte e tre queste cose insieme. E può esserlo solo perché il suo è uno sguardo che compromette, immerso nella vita,che della vita si bagna e si sporca. Che della vita non ha paura. Che dell’uomo non ha paura.“Se le tue foto non sono abbastanza buone vuol dire che non eri abbastanza vicino”, recita la sua massima più famosa. Stare dentro le cose. Le foto di Capa a colori mostrano proprio questo: che lui non è in guerra ma è dentro la guerra, è tra i soldati, talmente vicino da rischiare la pelle. E questo vale per ogni sua fotografia. Anche per quando fotografa Truman Capote a Ravello, o Martha Gellhorn mentre passeggia tra le rovine del tempio di Cerere a
Paestum. È dentro tutto ciò che fotografa. Dentro tutte le persone che fotografa.I suoi scatti gli sono costati odi eterni, profondi. Non è mai stato perdonato per la foto del miliziano anarchico, sulla cui inautenticità esiste un’intera letteratura. Così come non gli sono mai state perdonate le foto a colori dell’Urss stalinista pubblicate con i testi di John Steinbeck,detestate dai comunisti perché anticomuniste e dagli anticomunisti perché filocomuniste.Qualunque foto facesse sapeva che avrebbe smosso reazioni istintive. Gli piaceva portare immagini di mondo e trasformare lo sguardo delle persone sul mondo.Ma le foto che sto osservando
non cambiano  solo il mio sguardo sul mondo, è come se facessero  nascere un’urgenza, come se lanciassero
un allarme: ritornate a guardare il mondo e non limitatevi a prenderne dei calchi,a strappare dal quotidiano una qualunque  immagine per reimmetterla in circuito, per bombardare di fotogrammi inutili che saturano la vista e non raccontano nulla. Questi  scatti di Capa, infatti, non basta vederli, non  è sufficiente guardarli e poi passare oltre: bisogna  fermarsi e leggerli. Sulla rivista Holiday  Capa scrive: «Sono tornato a fotografare  Budapest perché mi è capitato di essere nato lì; ho avuto modo di fotografare Mosca che di solito non si offre a nessuno; ho fotografato Parigi perché ho vissuto lì prima della guerra; Londra perché ho vissuto lì durante la guerra; e Roma perché mi dispiaceva non averla mai vista e avrei invece voluto viverci ». Ci sono foto di famiglie americane in Svizzera, patinate, da riviste per turisti, o di quelle che si distribuiscono nelle agenzie di viaggio.
C’è la Magnani durante le riprese di Bellissima. Capa fotografa chiunque in qualsiasi situazione, persone note o sconosciuti, senza snobismo, perché a lui non interessava avere un ruolo, perché per lui la priorità era stare
dentro la vita. Sapeva che l’osservazione era compromissione e questo non lo spaventava.
Aveva imparato da Gerda Taro, che fu sua compagna. Gerda morì a ventisette anni, investita da un carrarmato “amico” del Fronte Popolare Repubblicano. Stava guardando in camera mentre era sul predellino di un mezzo  militare. Urtato, lei cadde e finì sotto i cingolati.  Anche Robert Capa nel 1954 in Indocina stava guardando in camera. Aveva deciso di anticipare una colonna militare francese mentre avanzava. Andò su un terrapieno.
Indietreggiando mise il piede su una mina. Gerda e Robert non avevano messo alcuna distanza tra loro stessi e i soggetti delle loro foto. E questo essere dentro, dentro gli occhi di chi ti è davanti, dentro le sue fasce muscolari,dentro i paesaggi, le pieghe dello sguardo di una modella, l’orgoglio e l’insoddisfazione di un imprenditore borghese, tutto questo è ricerca. Capa fotografa con la consapevolezza che nel momento stesso in cui inizi a credere che la vita ti sia preclusa, che sia vano cercare verità, ecco, proprio allora hai perso l’unica possibilità che avevi di essere davvero vivo, e di poter incidere su questo mondo.
Nel momento in cui decidi di imboccare una delle migliaia di scorciatoie possibili per mimare la vita, hai già perso. Il segreto di Robert Capa non sta nel risultato finale, ma nella ricerca,nel viaggio, che non può esistere se non compromettendo tutto se stesso. Non c’è altra salvezza se non stare dentro ciò che vuoi capire. Se non stare dentro la vita.

                  Due macchine al collo  e una sola  per la guerra
                                        MICHELE SMARGIASSI


Per quindici anni, quelli della sua celebrità mondiale, Bob Capa girò il mondo con due fotocamere al collo. Una era caricata con rullini di Kodachrome. Sì, il grande narratore delmonocromo vedeva a colori, fotografava a colori. Ma per sessant’anni tanti hanno preferito ignorarlo. Quelle 4200 diapositive policrome erano lì, negli archivi dell’Icp di New York, la casa del foto giornalismo impegnato creata dal fratello di Bob, Cornell. Ma, a parte alcune in un volume di dieci anni fa,nessuno le aveva più tirate fuori dal cassetto. Ne escono adesso, per una mostra, quando Capa compirebbe cent’anni. Forse perché col tempo i suoi colori (nessun colore, in fotografia, è “naturale”) hanno preso la patina della storia. O forse perché era ora di infrangere certi tabù, come quello che il  colore fosse roba per la pubblicità o al massimo la moda.
Non erano tutte, come qualche biografo ha affermato, “istantanee private”. Per quanto avesse fama di disordinato pokerista e scommettitore sui cavalli, l’apolide esule ungherese Endre Ernö  Friedmann, rinato a Parigi come finto americano Robert Capa, è sempre stato un hard worker, per lui la fotografia era mestiere, non scherzo. Le sue foto a colori non sono una curiosità biografica,vederle cambia l’idea che abbiamo di lui.
Cominciò a farle nel 1938, in Cina,sperimentando la nuova pellicola per diapositive che la Kodak aveva messo sul mercato solo due anni prima, perché pensava di poterle vendere. Life infatti gliene pubblicò quattro, su Hankou in fiamme. Poi, dal 1941, Capa non viaggiò mai senza rullini a colori nella bisaccia.
Ma la guerra in Capacolor non è la stessa guerra che Capa scattava in bianco e nero. È quasi sempre sorpresa “a riposo”. Capa “sente” il colore, non fotografa a colori, ma fotografa i colori: marines in Tunisia sventolano come trofeo una rossa bandiera nazista, soldati britannici scrutano un azzurrissimo cielo di Normandia su un verdissimo prato. E non sono tutte foto di guerra, anzi. I rotocalchi che gli chiedevano foto a colori, più che le corazzate del  foto giornalismo come Life, erano spesso quelli di viaggio, come Holiday, o i  femminili come il Ladies’Home Journal.
Per i quali il nostro fotografava  montagne svizzere  e giornate sugli sci, o i retroscena delle celebrità, Hemingway cacciatore col figlio, Picasso al mare con figli e amanti, i divi dei cinema dietro le quinte.
Finito il secondo macello mondiale,fondando la Magnum, Capa proclamò di voler diventar il più grande fotografo di guerra disoccupato del mondo. Non ci  riuscì, e la guerra lo ebbe fino alla fine.Ma queste sue tavolozze fotografiche, queste palette inaspettate, sono forse  un’ipotesi, un tentativo di quell’altro Capa che voleva essere e non fu.


Riapre biblioteca Sarajevo dopo 22 anni

musica    consigliata oltre  la  consueta  cupe vampe  dei Csi  consiglio  :
ho appreso   che  avant'ieri   che




Sono andato  a    rinfrescarmi  la  memoria  cercando in rete    ,  avevo all'epoca  16anni e  il ricordo  più diretto che  ho è legato a questa  canzone  Cupe  Vampe   degli ex  Csi    , ed  è questo  il primo risultato che  ho trovato 



Werther e Quasimodo. Raskolnikov e Mersault. Tom Sawyer, Yossarian e tutti gli altri stanno finalmente tornando a casa. Nell’agosto del 1992, mentre osservava l’antica biblioteca di Sarajevo bruciare dalla finestra di casa sua, il poeta bosniaco Goran Simić aveva immaginato che i protagonisti di molti capolavori indimenticabili stessero volando via alla ricerca di un’altra dimora, insieme alla cenere nera che si levava dall’edificio sventrato dalle bombe incendiarie dei nazionalisti serbi





In appena tre giorni quelle bombe distrussero la Vijećnica, la storica biblioteca nazionale e universitaria di Sarajevo, l’unico archivio nazionale del paese, cancellando con essa il patrimonio culturale della Bosnia multietnica. In poche ore furono spazzate via per sempre circa due milioni di opere, tra cui libri rari, manoscritti antichi e incunaboli del XV e del XVI secolo. Quell’orribile rogo fu il preludio del più lungo assedio di una città europea dai tempi della Seconda guerra mondiale, durante il quale oltre dodicimila sarajevesi rimasero uccisi, e riportò alla memoria il triste ammonimento di un altro poeta, Heinrich Heine,“dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini”.
Ecco perché la riapertura ufficiale della biblioteca nazionale di Sarajevo, fissata per venerdì 9 maggio dopo un complesso restauro durato quasi diciotto anni, sarà un momento fortemente evocativo che testimonierà il trionfo della civiltà contro la barbarie, proprio come accadde a Mostar nel 2004, quando venne inaugurato il restauro del Ponte Vecchio, anch’esso abbattuto a cannonate durante il conflitto. La Vijećnica, restituita al suo antico splendore dopo enormi ostacoli organizzativi, burocratici e finanziari, riaprirà al pubblico nel giorno in cui l’Europa celebra la sconfitta del nazismo e l’unità del vecchio continente.
E quello stesso giorno Sarajevo, la capitale europea che ha visto l’inizio e la conclusione del “secolo breve”, ricorderà al mondo che i nazionalisti serbi bruciarono i libri proprio come i nazisti e che niente, neanche questo scintillante restauro, potrà lenire le ferite aperte durante la pagina più nera della recente storia europea. Ancora oggi, i lunghi giorni di un assedio durato oltre quattro anni e lo straziante ricordo delle migliaia di vittime civili restano ben scolpiti nella memoria della città e dei suoi abitanti.
La fisionomia esterna dell’edificio, risalente al 1894 [il progetto, in stile neo-moresco, si all'architetto boemo Karel Pařík durante l'amministrazione austro-ungarica, ndr], è da tempo tornata quella originaria, con le splendide facciate rosso e ocra che si specchiano nelle acque del fiume Miljacka. Le foto rese pubbliche in anteprima hanno poi mostrato tutto lo sfarzo degli interni. Grazie al progetto originale ritrovato nell’archivio di Zagabria, intorno ai tremila metri quadrati di parquet sono stati riprodotti com’erano in precedenza i muri e i soffitti affrescati e decorati a mano, gli sfarzosi arabeschi e le finestre in legno, i vetri a mosaico e le porte
intarsiate. Senza dimenticare la scalinata centrale in marmo, le cui macerie sono state per anni il simbolo dell’urbicidio ( come viene  chiamato   prendendo  spunto dal libro  : <<  Urbicidio. Il senso dei luoghi tra distruzioni e ricostruzioni nella ex Jugoslavia   di  Francesco Mazzucchelli  ] della capitale bosniaca.
La ricostruzione è costata sedici milioni di euro – oltre la metà dei quali erogati dall’Unione europea – e ogni ragionevole sforzo è stato compiuto per donare alla Vijecnica un aspetto esattamente uguale a prima. A cambiare, in parte, sarà invece la destinazione d’uso degli spazi interni: l’edificio non ospiterà più soltanto la biblioteca universitaria ma riacquisterà anche la funzione di sede di rappresentanza della città che aveva avuto fino al 1949. La municipalità di Sarajevo potrà disporre di uffici al primo e al secondo piano, mentre la biblioteca avrà spazi al piano terra, al mezzanino e al secondo piano. Alla cultura è stato destinato anche il piano interrato, che ospiterà un museo sulla storia della biblioteca, la caffetteria e il deposito librario, oltre a locali di servizio.
Ma nessun restauro, per quanto approfondito e fedele all’originale, potrà far dimenticare che appena il dieci per cento delle opere conservate al suo interno prima della guerra è scampato al grande rogo del 1992, un gesto criminale premeditato allo scopo di cancellare un passato comune. In tanti si prodigarono per salvarli, quei libri, ma l’eroica catena umana spontanea che si formò in quei giorni fu costretta a soccombere di fronte ai colpi d’obice e ai cecchini che colpivano senza pietà anche i volontari e i vigili del fuoco.
Una giovane bibliotecaria, Aida Buturovic, perse la vita mentre cercava di strappare i volumi alle fiamme. I pochi resti di quell’immenso patrimonio librario sono rimasti a lungo stivati in un rifugio antiatomico, prima di essere trasferito nei sotterranei del ministero dell’istruzione e in seguito in un’ex caserma dell’esercito jugoslavo. La rinascita del luogo simbolo di Sarajevo sarà suggellata con una grande cerimonia il 28 giugno,nel centenario dell’assassinio dell’erede al trono austroungarico Francesco Ferdinando, evento che innescò il primo conflitto mondiale. In quell’occasione, l’Orchestra Filarmonica di Vienna diretta dal maestro Franz Welser-Möst si esibirà nell’antica biblioteca in un repertorio di brani di Haydn, Schubert, Berg, Brahms e Ravel.

La ricostruzione   e  la riapertura   avvenuta  propria ad  un mese dal  centenario delll'omicidio  dell'imperatore  d'Austria   che  usciva proprio  da  questa  biblioteca    e quindi  dello scoppio della  1  guerra  mondiale  ,  è  simbolo  di reazione  ai  nazionalismi esasperati  .

cosa non si fa per avere clienti il primo calice si paga con un bacio iniziativa di una enoteca di Milano




'In Wineria non vogliamo i vostri soldi, vogliamo i vostri baci'. Grazie all'originale e coraggiosa proposta
“Paga con un bacio” un'enoteca di Milano (  Vedere locandina  sopra  in alto al  post  )   ha attirato decine di clienti intrigati da questa nuova formula che mixa Bacco e... amore.
Il locale, che ha aperto i battenti nell'estate 2013 in Piazza Caneva 4, ha sorpreso tutti fra novembre e gennaio con questa iniziativa che ha riscosso un notevole successo e che - assicurano i titolari - verrà riproposta a breve L'originale iniziativa proposta i mercoledì degli scorsi mesi di novembre, dicembre e gennaio prevedeva che le coppie che si recavano nel locale per prendere l'aperitivo avrebbero ottenuto gratuitamente la prima consumazione. Bastava baciare il proprio partner.


il locale
Spiega il fondatore del locale Stefano Rimassa: 'A Milano, e lo dico da milanese, siamo sempre tutti poco propensi ai rapporti con gli altri, a mostrare i nostri sentimenti. Così abbiamo pensato ci volesse un gesto forte'.Un'iniziativa di stampo romantico e amica del portafoglio, che prende ispirazione da una promozione

  analoga creata dall’altra parte del mondo, precisamente nella città australiana di Sidney al caffè Metro St. James.
Il gioco del bacio vuole essere una trasposizione pratica della filosofia dell'enoteca: gesti semplici e dichiaratamente buoni come i vini semplici e dichiaratamente buoni.Metro St. James è un caffè in stile francese di Sydney, in Australia. Ha guadagnato popolarità grazie a una geniale offerta promozionale che permette ai clienti di pagare il caffè con i baci.l promo del Metro St. James di Sydney recitava così: 'Stiamo riportando il romanticismo in voga! Portate il vostro partner per il caffè dalle 9 alle 11 e sorprendetelo con un bacio quando si ordina un caffè. Non accettiamo i soldi, solo i tuoi baci'


Non è  una  novità  in se   se  un esperiemnto simile  è stato fatto   tempo fa  , più precisamente  ,   Per il giorno di San Valentino 2014, la città di Bari ha promosso un'iniziativa particolare. Tutte le coppie che si sarebbero baciate in uno dei negozi aderenti, avrebbero avuto uno sconto sull'acquisto.
In un momento in cui alcuni  (  per  coerenza  o  per opportunismo )   mettono in discussione l'euro, il bacio potrebbe essere una buona moneta di scambio...

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