8.5.23

Paolo Crepet: “Michela Murgia dà la parola ai morituri. Qualche cretino dirà che è esibizionismo, ma le sue parole sono rivoluzionarie”

 di  solito  non  commento tali  cose   perché    non  saprei cosa  dire    e  quindi come in questi caso lascio  la  parola    agli  altri .  Prima  con  l'articolo  di  Daniela   Tuscano   (  lo  trovate  qui  )     e poi  questo bellissimo  (  ogni  tanto mi  trova  d'accordo  )  di  Crepet 


Paolo Crepet: “Michela Murgia dà la parola ai morituri. Qualche cretino dirà che è esibizionismo, ma le sue parole sono rivoluzionarie”

Paolo Crepet: “Michela Murgia dà la parola ai morituri. Qualche cretino dirà che è esibizionismo, ma le sue parole sono rivoluzionarie”

"Le vorrei dire grazie. Per le parole e il coraggio"

Michela Murgia e i talenti di Daniela Tuscano

 Michela Murgia c'è. C'è in una sincerità sconcertante, contraddittoria, a volte scombinata, come il suo corpo ancestrale e le sue idee postmoderne.



Le chiamo idee, non spirito. Le idee passano, e quelle di Murgia non le ho condivise quasi mai. Lo spirito, invece, ha conservato una integrità in cui tutti ci riconosciamo.
Arriviamo al capolinea nudi e affamati. Di verità, di senso. Murgia, questa domanda, l'ha offerta. Con semplicità. Vuole entrare nella morte a occhi aperti, "presente a sé stessa". Può sembrare azzardato, ma certi passaggi dell'intervista rilasciata a #Cazzullo mi hanno ricordato #Ozanam. Il santo francese, scomparso a 40 anni, così commentava la prossima dipartita: "Ho vissuto più della metà della vita". E la scrittrice sarda: "Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera". Aggiunge: "Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai". La responsabilità, nel bene e nel male. La sensazione d'aver vissuto, e vivere ancora, una grande avventura, da impiegare seriamente, come i #talenti evangelici. Murgia non ha dimenticato questa parabola. Potrà sbagliare, non sprecare.
Non so come gestirà questi mesi - che giustamente definisce "lunghissimi", anche un giorno lo è, anche un respiro -: ma si è confessata ora, respingendo la retorica bellicista e riconsegnando, così, la persona malata alla sua dignitosa fragilità. Quando si muore non si perde nessuna #guerra, l'esistenza non è un videogioco, al grande passo non sfugge nessuno.
Sì, il corpo muore. Saperlo rende umili. E l'umiltà, lungi dall'impoverire l'umano, gl'infonde energia, pienezza. Michela Murgia, non sono stata una tua ammiratrice, ma credo che, adesso, tu stia scrivendo il tuo più bel libro, comunque vada, anche se - come ti auguro - dovessi attraversare ancora lunghissimi mesi, forse anni, forse altre dieci vite. Non susciti pena, trasmetti forza. La tua energia si è concentrata in un nucleo magnetico. E irresistibilmente attrae verso la luce.

6.5.23

la storia di una coppia omosessuale ha scelto l'affido e non ha ricorso alla maternità surrogata

Enrico e Samuele: l'affido è anche per noi  

DA https://www.vita.it/it/     del   3  maggio  

                                           di Sara De Carli

 Stanno insieme da 19 anni e l'utero in affitto non fa per loro. Non immaginavano che anche una coppia dello stesso sesso potesse dare disponibilità all'affido e anche al termine del percorso formativo sotto sotto pensavano che i servizi avrebbero sempre preferito una coppia eterosessuale. Invece da quattro anni Enrico e Samuele hanno in affido due fratelli, che oggi hanno 9 e 14 anni. «Non è facile, ma le loro risate ci ripagano di tutto. Il cuore ti batte in modo diverso»

 
Quel giorno di autunno, quando suonò il cellulare, Enrico e Samuele non credevano che stesse succedendo davvero. Avevano fatto tutto il percorso formativo con il Centro affidi di Pistoia, ma quei mesi di attesa li stavano vivendo con i piedi di piombo, senza permettere che i sogni si prendessero troppo spazio. «Il nostro mood era quello di restare con i piedi per terra. “Ok abbimo fatto il percorso ma forse ci hanno detto che andavamo bene come coppia affidataria solo per essere politically correct”: ci dicevamo questo l’uno l’altro. Sotto sotto pensavamo che quando gli operatori avrebbero dovuto scegliere davvero tra noi e una coppia eterosessuale, avrebbero comunque scelto gli altri. Invece non è andata così», racconta Samuele.
Enrico ha 46 anni, Samuele 38. Vivono in provincia di Pistoia e stanno insieme da diciannove anni: «Mai subito un attacco o una discriminazione per la nostra omosessualità o per la nostra relazione», dicono. Si sono sposati nel giugno 2018 e dall’autunno successivo hanno in affido due fratelli, un maschio e una femmina, che oggi hanno 9 e 14 anni. Prima di essere affidati a loro, i due bambini stavano insieme alla mamma in una casa-famiglia.

«La prima volta che la parola “affido” è entrata nella nostra coppia è stato durante una chiacchierata con un’amica, che ha detto: “ma perché non prendete un bimbo in affido?”. Noi non sapevamo nemmeno che una coppia dello stesso sesso potesse dare disponibilità all’affidamento familiare», dice Enrico. «Ci si era interrogati sulla paternità e sull’ipotesi dell’utero in affitto, ma non rientra nel nostro modo di vedere le cose e la vita, nei nostri valori. L’affido invece… ci ha subito intrigati. Ne abbiamo iniziato a parlare tanto fra noi, ci siamo informati, abbiamo contattato il Centro affidi della nostra provincia e abbiamo fatto un anno e mezzo di formazione e di colloqui. Alla fine quello che ti si scolpisce in testa è che lo scopo dell’affido è il rientro dei bimbi nella loro famiglia di origine. Se invece guardi all’affido come “ultima spiaggia” per avere un figlio… sei fuori strada».
Qui entra in gioco un altro elemento casuale, «che poi forse tanto casuale non è», sottolinea Samuele. «Amici e parenti ci dicevano “ma poi, quando arriverà il giorno in cui ve li toglieranno perché i bambini torneranno dai loro genitori, che succede?”. È una domanda che ci facevamo anche noi: è una prospettiva che un po’ spaventa. Però io avevo conosciuto da vicino una storia di affido: l’ex fidanzata di mio fratello da piccola era stata in affido. Ho “toccato” il legame che lei, anche da grande, aveva con la famiglia affidataria, il bene che quella famiglia le ha fatto, la relazione che hanno mantenuto e questo mi ha fatto dire “sì”, mi ha convinto. Alla fine non ci ha mosso tanto il desiderio di avere un figlio nostro ma il desiderio di aiutare un bambino», racconta Samuele.
Torniamo quindi alla telefonata del Centro affidi. È l’autunno 2018, Enrico e Samuele sono insieme in auto quando squilla il cellulare. La proposta del Centro affidi riguarda un bambino di 5 anni. Samuele ed Enrico incontrano gli operetori del Centro affidi e accolgono l'abbinamento. Per la sorella del piccolo i servizi avevano individuato un’altra famiglia. «Poi un giorno ci richiamano e ci dicono che se noi eravamo d’accordo, i bambini possono stare insieme. Noi abbiamo entrambi fratelli, sappiamo cosa significa questo legame… abbiamo dato immediatamente disponibilità per entrambi, non potevamo certo essere noi a separarli». A questo punto Samuele ed Enrico iniziano il percorso di avvicinamento ai due bambini, in casa famiglia: per due mesi vanno in comunità due volte a settimana, presentandosi come “amici”. Stanno con tutti i bambini, giocano, li mettono a letto. I servizi e gli educatori della casa famiglia intanto fanno un lavoro enorme con le fiabe per far comprendere ai bambini cosa significhi amare un altro uomo. Si parla con i bambini, si scoprono le carte del progetto di affido. Qualche uscita, qualche serata, poi qualche weekend. A inizio gennaio 2019 i due fratelli entrano stabilmente in casa di Enrico e Samuele. «Né i bambini nè i loro genitori hanno mai mosso un’obiezione al fatto che l’affido fosse ad una coppia dello stesso sesso. Temevamo che i due papà avrebbero potuto magari avere dei dubbi, invece no. I ragazzi non sono mai tornati a casa raccontandoci episodi negativi in questo senso: anche a scuola gli insegnanti sono stati molto bravi, sia alle elementari che in prima media siamo andati a aprare in classe delle famiglie come la nostra», racconta Enrico.
«Ancora oggi a volte noi pensiamo di non essere in grado. L’affido è proprio un’esperienza in cui le persone che accogli ti insegnano tantissimo. I ragazzi ma anche i loro genitori. Con la mamma dei bambini abbiamo un buon rapporto, la prima volta che l’abbiamo incontrata le abbiamo proprio detto “noi non siamo qui per portarti via i bambini, ma per darti un supporto con loro», afferma Samuele. I primi tempi non sono stati facilissimi, «anzi direi che è stato un trauma sia per noi che per loro, non è tutto rose e fiori, è come se avessimo partorito due figli già grandi», dice Enrico. «Eravamo abituati ai nostri spazi e ritmi e ci siamo trovati a dormire in quattro in un lettone, a fare cose che non eravamo preparati a fare o che non sapevamo come fare. Da un giorno all’altro ti cambia il modo di pensare, di cucinare, di dormire. Io ero uno che se mi spostavi in giardino mentre dormivo, non me ne rendevo conto: adesso mi sveglio appena i ragazzi respirano in modo diverso», aggiunge Samuele. «Sorridevamo quando ci dicevano che quello di genitori è il mestiere più difficile del mondo, ora invece capiamo. La sera quando i ragazzi dormono tantissime volte ci chiediamo se abbiamo fatto bene o male a dire o a fare quella determinata cosa… Facile non è, ma ci mettiamo tutto l’amore possibile. Si sbaglia e ci si arrabbia, siamo abbastanza rigidi, ma quando i ragazzi ridono ci ripagano di tutto».
I due ragazzini, oggi, chiamano “babbo” Enrico e Samuele. «La prima volta, non sai quando abbiamo pianto», confidano. Perché farlo? Enrico non ha dubbi: «Perché il cuore ti batte in maniera diversa».

2.5.23

Pillon di sicuro approverà laura chiatti ed company di Maria Patanè

   di cosa  stiamo  parlando 

Laura Chiatti: “L’uomo che fa il letto e passa l’aspirapolvere non lo posso vedere, mi abbassa l’eros”

Laura Chiatti: “L’uomo che fa il letto e passa l’aspirapolvere non lo posso vedere, mi abbassa l’eros”

Con tutta la buona volontà del mondo, ma...questa non è semplice libertà di opinione. Questo discorso ha ben poco a che fare con l'eros, ma molto con una rigida divisione dei ruoli, gli stereotipi e in generale con quel fenomeno deleterio che ci condiziona fin dalla nascita noto come binarizzazione di genere. Infatti


30.4.23

abuso del termine eroe i caso di Masi Nayyem Avvocato e militare, n Donbass ha perso un occhio e la voglia di vivere.

 

Avvocato e militare, Masi Nayyem in Donbass ha perso un occhio e la voglia di vivere. Oggi, a Kiev, ha fondato un’associazione per aiutare i veterani ucraini. «Tutti ci esaltano. Ma quando poi torniamo a casa - monchi, orbi, spaventati a morte - non siamo

In battaglia si uccide, l’ho fatto anch’io. Non ho provato nulla, se segui le emozioni sei già morto — Masi Nayyem

Sul tavolo del soggiorno di Masi Nayyem, a Kiev, c’è una pistola. La CZ P-10 9mm semiautomatica striker da 15 colpi, di fabbricazione ceca, riposa in una valigetta di plastica nera. «Me l’hanno restituita dopo l’incidente, è una specie di portafortuna».

Nayyem, avvocato penalista di origini afghane, militare esperto in cybersecurity, una medaglia al valore dell’esercito ucraino e una dell’intelligence, un cane con un nome da romanzo russo - Barmaley - e una passione per i testi buddisti, ha un appartamento vista parco al 7° piano di Pechersk, quartiere bon chic bon genre della capitale, e mezza faccia che gli manca.

Il 5 giugno dell’anno scorso, mentre era in missione di perlustrazione in Donbass, l’auto su cui viaggiava è saltata in aria su una mina, un suo compagno è morto. Masi, il cranio aperto a metà, è stato trasportato e operato in Germania per dieci ore. Ha perso un occhio, il destro, ma che sia sopravvissuto, dicono i medici, è già un mezzo miracolo. «Faccio fatica a prendere la mira quando mi verso l’acqua nel bicchiere, ma per il resto sono tutto intero». A dicembre, Nayyem ha ripreso a lavorare nel suo studio legale, tra i più noti di Kiev. Va in ufficio con la mimetica, «perché finché si combatterà io resto un militare».

La guerra, Masi, l’ha sempre avuta addosso. Nato a Kabul nel 1985, ha perso la madre quando aveva solo dieci giorni. È cresciuto nelle strade invase dai tank sovietici, coi mujaheddin che appendevano agli alberi chi collaborava. Quando aveva sei anni suo padre Muhammad Naim, un ex ministro afghano che si era rifiutato di lavorare per l’Urss, è fuggito a Kiev con lui e gli altri due figli, Mustafà e Mariam. Qui Masi è cresciuto, ha studiato, è diventato avvocato. Finché, nel 2015, si è arruolato nell’esercito per difendere il Donbass e i fantasmi di quando era bambino lo hanno guardato negli occhi. «Sembrava che la guerra mi inseguisse». Quando ha

ucciso un uomo per la prima volta, dice con una voce spenta, non ha provato nulla. «È come mangiare carne: non ti fa piacere, ma devi».

La sera del 23 febbraio di un anno fa, Masi stava fumando pensoso una sigaretta sul divano di casa,

la   sua   auto esplosa 
prima   dell'esplosione 
dopo una giornata di lavoro. Da un po’ usciva con una donna, stavano bene assieme. Sapeva che la Russia era pronta ad attaccare, che in caso di conflitto i riservisti sarebbero stati richiamati per primi, ma avrebbe preferito non dover partire, era stanco di morte. Eppure, all’alba dell’indomani ha chiamato il comando: «Ci sono, ditemi solo dove posso prendere un’arma». Quattro mesi dopo, in ricognizione d’intelligence vicino al confine russo, l’auto su cui viaggiava è esplosa. Lui e i suoi compagni sapevano di percorrere un territorio a rischio, ma dal comando li avevano rassicurati: “Vi diamo un blindato anti-mina”. «Macché blindato, sarà stata la vecchia auto di un politico: aveva solo i finestrini anti-proiettile, la bomba ha squarciato il pianale come fosse di burro». Quando si è risvegliato dopo l’intervento, con la testa fasciata e i medici che bisbigliavano, ha capito subito di aver perso un occhio. La prima cosa che si è chiesto, ammette con un sorriso amaro, è se le ragazze lo avrebbero guardato comunque. La seconda, se sarebbe ancora riuscito a leggere tutti i faldoni di un processo in una notte.

Ma il peggio, se un peggio c’è, doveva ancora arrivare.

Al suo ritorno a casa, Masi si è reso conto che era cambiato tutto. Non aveva più voglia di amici, di aperitivi, di cinema. Non aveva - non ha - voglia di nulla. È uscito con una ragazza, non ha funzionato. «Sto bene solo con Barmaley, il mio cane». Masi l’ha incontrato in Donbass, durante la sua prima spedizione. Il randagio viveva nell’accampamento, ci giocava tutti i giorni. Quando Nayyem è ripartito, il cane ha preso a correre dietro alla sua auto. Cinque chilometri ostinati, a perdifiato. Finché lui non ha frenato e l’ha fatto salire. «È il mio migliore amico».



Neanche casa è più casa. Nell’appartamento di design, un tempo il rifugio di un single benestante, si accumulano i cartoni della pizza. La notte tornano gli incubi: il sangue, il boato che fracassa i timpani. La psicoterapia? «Ci ho provato, con me non funziona». Masi cerca di rimediare col lavoro, fa meditazione, molto sport. Per l’anniversario dell’incidente, a giugno, punta a rimanere nella posizione della panca - sollevato da terra, poggiato solo a mani e piedi - per 100 minuti tondi, una follia. «Lo stress post traumatico è duro da guarire».

Quello che lo angoscia di più, però, è sapere che

Il mio cane è il mio migliore amico, l’unico che sa starmi accanto

— Masi Nayyem

dopo un anno di guerra gli ex combattenti nelle sue condizioni sono già centinaia. Uomini persi, che faticano a ottenere aiuto, «perché l’Ucraina non è pronta». E perché mostrarsi fragili, quando il Paese sta ancora combattendo, è un tabù. Il problema, per Masi, sta anche qui. «Smettetela di chiamarci eroi. Basta. Siamo eroi finché ci battiamo al fronte, poi torniamo, monchi, orbi, spaventati a morte, e non siamo più nessuno».

Se in Ucraina l’alcol è sempre stato un problema, oggi lo è ancora di più. E nell’ultimo anno, spiega l’avvocato, i reati sono raddoppiati. In gran parte dei casi a delinquere sono ex militari che tornano a casa e si ritrovano senza lavoro, senza amici, senza più una famiglia. «Le cicatrici della guerra non sono solo quelle che ti ricuciono in faccia».

Poche settimane fa Nayyem ha fondato Principle, un’associazione che si batte per i diritti umani dei veterani. Attraverso il suo studio legale, aiuta i militari che non riescono a farsi riconoscere l’invalidità dalla farraginosa burocrazia ucraina. In futuro vorrebbe fare molto di più: mettere insieme medici, psicologi, fisioterapisti. Lo Stato, però, deve intervenire. La settimana scorsa il suo appello è arrivato direttamente al presidente Zelensky: «Ha istituito una commissione, ci stanno lavorando».

Masi prende in mano la sua pistola, la osserva come fosse quasi un appiglio. «Siamo stati aggrediti con ferocia, ci stiamo difendendo con tutte le nostre forze. È già abbastanza, gli ucraini non meritano una disfatta della società».

29.4.23

Giannis Antetokounmpo e chi chiama «fallimento» ogni sconfitta




Giannis Antetokounmpo e chi chiama «fallimento» ogni sconfitta

«Michael Jordan ha giocato 15 anni, ha vinto 6 titoli: gli altri nove anni sono stati un fallimento?» ha detto tra le altre cose il campione dei Milwaukee Bucks appena eliminati in NBA

Giannis Antetokounmpo (Stacy Revere/Getty Images)


Nella notte tra mercoledì e giovedì i Milwaukee Bucks sono stati eliminati dai Miami Heat al primo turno dei playoff del campionato di basket NBA. È stata un’eliminazione sorprendente per la sua precocità, dato che Milwaukee era stata la miglior squadra della stagione regolare, ma non per la qualità degli avversari. Miami infatti arriva agli ultimi turni dei playoff da ormai tre anni di fila e ha giocatori di altissimo livello, peraltro particolarmente in forma in questo periodo.
Nella conferenza stampa dopo l’eliminazione, Giannis Antetokounmpo, eletto due volte miglior giocatore del campionato (MVP), ha risposto alle domande dei giornalisti, in particolare ad una:



E: Vedi questa stagione come fallimentare?

G: Oh mio dio… mi hai fatto la stessa domanda un anno fa, Eric. Tu ricevi una promozione ogni anno, nel tuo lavoro? No, giusto? Quindi ogni anno il tuo lavoro è fallimentare? Sì o no?

E: No.

G: Ogni anno lavori per raggiungere qualcosa, un obiettivo, una promozione, per essere in grado di prenderti cura della tua famiglia, dargli una casa in cui vivere. E non è un fallimento questo, sono tappe verso il successo.
Non ho niente contro di te personalmente, è che ci sono sempre dei passi da fare. Michael Jordan ha giocato 15 anni, ha vinto 6 titoli: gli altri nove anni sono stati un fallimento?

Antetokounmpo — che con Milwaukee ha vinto il titolo NBA due anni fa — ha poi concluso dicendo: «Questo è lo sport. Non devi sempre vincere. Vincono anche gli altri. E quest’anno vincerà qualcun altro».


Di seguito il video completo sottotitolato in italiano.

natura e lavoro posso convivere ? il caso dei fenicotteri rosa delle ex saline di Cagliari





 A pochi chilometri da Cagliari c’è un luogo magico dove l’uomo e la natura convivono in un equilibrio stupefacente. Le saline Conti Vecchi, nel comune di Assemini, sono un tesoro di archeologia industriale, di produzione ecosostenibile, e di rarità avifaunistica. Dove può capitare di trovarsi a pochi metri da un maestoso airone o di dare la precedenza a una famigliola di fenicotteri rosa che attraversa il viottolo in fila indiana. Oppure di sfiorare montagne candide di sale che brillano sotto il sole e aggirarsi nel laboratorio chimico ottocentesco tra alambicchi, provette e rari cristalli rosa. C’è tutto questo e molto di più da ammirare durante una visita alle saline (uniche ancora in attività in Italia assieme a quelle della Puglia) che si estendono per 2700 ettari nella laguna di Santa Gilla tra Cagliari, Assemini e Capoterra. I moderni impianti ancora attivi coesistono con la memoria raccontata da stabilimenti e macchinari di un
le  saline   
tempo, perfettamente conservati e diventati museo insieme agli uffici della direzione arredati in stile liberty e agli edifici della “cittadella del sale”. Qui vivevano i lavoratori dell’impresa ideata dall’ingegner Luigi Conti Vecchi negli anni Venti del Novecento, avviata nel 1931 dal figlio Guido e  tuttora in attività con una produzione di sale marino che si aggira sulle 400 tonnellate all’anno destinate al settore alimentare ma anche all’industria dei detergenti e cosmetica, e alla liberazione delle strade dalla neve. Le Saline sono un miracolo da oltre 90 anni anche dal punto di vista naturalistico perché la continua movimentazione dell’acqua da una vasca di evaporazione all’altra ha favorito la riproduzione e la nidificazione di oltre 40 specie di uccelli, tra cui la garzetta, il cavaliere d’Italia, il falco delle paludi, gli aironi e ovviamente uno stuolo di fenicotteri rosa che da 30 anni sono diventati stanziali nello stagno di Santa Gilla. Un esercito di “genti arrubia” 


fenicotteri rosa

come vengono chiamati da queste parti, che in volo disegnano profili geometrici come fosse un miraggio. Il più anziano che vive a Santa Gilla ha quasi 50 anni ed è nato nella Camargue, in Francia. Sono i racconti delle guide Fai (il Fondo Ambiente Italiano che dal 2017 gestisce il sito) che accompagnano i visitatori sul trenino attraverso le vasche dove l’acqua evapora e lascia depositato il sale sul fondo che poi viene raccolto a macchina dagli operatori; una piccola parte a mano destinata alla cucina gourmet come il fiore di sale e il sale integrale, naturale o aromatizzato. Affascinante anche la parte di archeologia industriale con la falegnameria e l’officina dove i macchinari venivano riparati, se non costruiti, per garantire la continuità della produzione. Si possono visitare gli uffici, gli archivi, le scrivanie, i registri e persino le lettere di assunzione dentro le palazzine d’epoca perfettamente ristrutturate. L’ufficio contabilità conserva macchine da scrivere e comptometer (antenati delle calcolatrici), schede anagrafiche, libri paga mentre l’ufficio tecnico custodisce i modelli per i ricambi. L’idea del Fai è ricostruire il villaggio delle saline dove per tanto tempo hanno vissuto gli operai, i tecnici e le loro famiglie, dove si andava a scuola e ci si sposava. Un’impresa unica in Italia d

Due giorni interi senza il cellulare: la sfida di 12 studenti Il progetto del Pitagora insieme a “Logout Livenow”

Interessanti    esperimenti di questo tipo   .  ben vengano  .  Ma  il problema   è   he  bisogna  insegnarli ad  usare    i social 

 da la  Nupva  Sardegna  del  29\4\2023 
Sassari
 Due giorni interi senza cellulari. Una sfida ai limiti dell’impossibile per un gruppo di impavidi studenti dell’Istituto paritario Pitagora che, dopo alcuni seminari e laboratori di formazione, sono stati condotti nel parco di Neulè, sul Cedrino, dove hanno consegnato i telefonini al tutor Gavino Puggioni il quale li ha chiusi in una cassetta di sicurezza. E dopo questo “detox digitale” gli stessi ragazzi hanno scoperto con loro grande sorpresa che c’è un mondo anche dietro gli schermi, vale la pena di esplorarlo e viverlo intensamente. È stato il momento clou del progetto portato avanti dalla dirigente Caterina Mura e condotto insieme alla “Logout Livenow Digital experience”, tour operator di detox digitale che si è avvicinato adesso al mondo delle scuole grazie a un bando della Fondazione Sardegna. «Abbiamo partecipato al bando per dare ai nostri ragazzi qualcosa di originale, utile ed efficace – spiega la 
 dodici studenti dell’Istituto Pitagora durante il detox digitale
nel parco di Neulè
sul Cedrino col tutor Gavino Puggioni
dirigente del Pitagora –. Purtroppo loro sono nativi digitali e sono sempre incollati al cellulare anche in situazioni poco adatte alla didattica. Noi permettiamo che il cellulare venga portato a scuola, però non devono utilizzarlo. Poi però succede che ne consegnano uno vecchio e portano di nascosto dentro quello vero. E, purtroppo, devo anche dire che ci si mettono i genitori che li cercano anche durante le ore di lezione. Il progetto mi è piaciuto molto, spero di ripeterlo». A Neulè, vicino a Dorgali, sono andati in 12 «scelti tra quelli più riottosi ad accettare queste regole» sottolinea scherzando Caterina Mura. E lì il primo trauma, con tentativo di aggiramento: «Ho fatto mettere i cellulari nella cassetta di sicurezza – racconta Gavino Puggioni – ma quando li ho contati erano solo otto... Poi abbiamo coinvolto i ragazzi in una serie di attività, come una gita in kayak, ma abbiamo lasciato loro anche momenti liberi per costringerli a pensare. Abbiamo dato loro anche delle fotocamere usa e getta con le quali dovevano gestire 29 scatti. Il tutto, insieme a quello che spieghiamo nei seminari, per far realizzare loro la qualità del tempo che possono trascorrere senza cellulari. Questi ragazzi non conoscono il mondo senza il tramite del cellulare, sul quale trascorrono una media di 7-8 ore al giorno. Spieghiamo loro anche quali sono le tecniche di aggancio utilizzate dai social, a partire dal fatto che rilasciano dopamina e creano anche un bisogno di approvazione sociale. Cerchiamo anche di fargli capire che portano via tempo e attenzione, senza i quali non si può far nulla. Non è che non debbano usare i cellulari, ma bisogna guidarli a un utilizzo consapevole». E qualcuno ha anche cominciato a capirlo: «Un’esperienza nuova che consiglio a tutti, dai 15 ai 40 anni – dice Andrea, uno dei protagonisti di questa esperienza –. Ti cambia completamente il modo di pensare, ti fa apprezzare le piccole cose come una chiacchierata con gli amici o una passeggiata. All’inizio ho patito, non lo nego, cercavo continuamente il cellulare in tasca. Dopo 6-7 ore però ho capito che era inutile e devo dire che senza telefono si sta proprio bene».

28.4.23

un giornalismo che guarda come si veste un politico e non a quello che dice o fa è un giornalismo da quattro soldi . il caso Elly Schlein

 

Invece di occuparsi dei 25 parlamentari strapagati che hanno fatto andare sotto il governo sul Def - mai accaduto da quel che ricordo nella storia repubblicana - molti pseudo-giornalisti e destrume vario attaccano Elly Schlein per come si veste, per chi e quanto paga come consulente d’immagine, come se fosse una bestemmia.
Ora A me sinceramente di come veste Elly Schlein ( stesso discorso per gli altri\e
rappresentanti parlamentari ) , di quali colori predilige, non me ne frega nulla. Mi interessa quello che fa e dovrebbe fare le sue idee politiche, la sua eventule coerenza e la dignità delle sue battaglie. E, se non fosse una donna giovane e capace, il fatto che indossi un eskimo o un trench non interesserebbe a nessuno.
Tanto per essere chiari secondo questi tipi qua : l’unico problema di Elly Schlein che si affida all’armocromia è di chi ne parla, di chi trasforma un’intervista a Vogue (a un mensile di moda, ma dai…) in un tema politico, di chi lo titola urlato come se fosse una notizia, dei moralisti da strapazzo che le fanno pulci sui 300 euro all’ora (e allora ? È un lavoro che ci piace o meno e costa quanto vale, se lo vale ). Vi do una notizia 😊😂😉: tutti i leader politici uomini hanno un consulente d’immagine. TUTTI. Spesso pagato anche molto di più di 300 euro l’ora, senza che nessuno abbia mai alzato un sopracciglio. Non è un problema di privilegio, che pure esiste e lei non ha mai pure negato. È come fa notare Lorenzo Tosa il solito, squallido, sessismo mischiato con un po’ di vetero populismo. Due facce della stessa medaglia. Infatti concodo con l'utente

 
Se si veste male, vi lamentate.
Se assume una tizia che le dice come vestirsi bene, vi lamentate. Le polemiche sulla consulente d'immagine sono a dir poco idiote. Sappiamo bene che quasi tutti i politici hanno i consulenti di immagine… chi li deve avere se non loro ? Comunque sono sicura che se si trattava di un politico uomo nessuno avrebbe trovato da obiettare niente …

Quindi    cari  amici     del  Fq     ritornate  in  voi   ed   smettetela  d'abbassarvi   a  quegli infidi  giornalisti    che   non  sanno   cosa  dire  pur  dire  pur  di  attaccarla  anche quando non lo merita  

27.4.23

A Tempio pausania nasce l'acquavite di ghiande, si chiama Làndhe

 https://sintony.it/news 27\3\2023

A Tempio nasce l'acquavite di ghiande, si chiama Làndhe

Il distillato è nato dall'idea di Fabio Depperu, agronomo con la passione dell'alambicco. Ma poi la tenacia del suo ideatore lo ha premiato

Poteva sembrare una bestemmia per i cultori del fil’e ferru, e infatti l’idea di produrlo con le ghiande ha fatto storcere il naso a molti. Ma Fabio Depperu, agronomo e titolare dell’Azienda Agricola “Frutti di Bosco” di Tempio Pausania, ci ha creduto e l’ha fatta. Del resto la ghianda è sempre stato un alimento, in tempi di carestia, come canta Peppino Mereu nella sua lettera a Nanni Sulis: “Famidos, nois semus pappande pan'e castanza, terra cun lande”. Dunque perché non provare a produrre l’acquavite di lande?Eccola . Dal cuore selvaggio di una terra unica nasce una pianta, la quercia, albero simbolo della Sardegna. Nata senza l’aiuto dell’uomo, lotta continuamente con la natura per avere uno spazio di vita. Da secoli cresce con maestosità e differenza, con forme disegnate dal vento, e di vento e di luce si nu tre. Il frutto della quercia è la ghianda, Làndhe, in lingua sarda

Sardegna – Làndhe, la prima acquavite di ghiande prende in sposa il  Gorgonzola piccante DOP – VINODABERE – Esperienze nel mondo del vino, della  gastronomia e della ristorazione

Fabio l’ha pensato e creato. E' un prodotto sardissimo e identitario e ha subito conquistato appassionati e sommelier. Il progetto, che all'inizio poteva apparire visionario, ha presto conquistato i ricercatori delle università di Sassari e di Udine che hanno collaborato al progetto e ha goduto del sostegno convinto di altri esperti, in particolare dell'agronomo Walter Carta. Certo, sulla carta il progetto era plausibile, dal momento che la ghianda è un frutto amidaceo. E dalla trasformazione degli amidi in alcol è possibile ottenere un mosto che, distillato, può portare a un’abbardente. Ci sono voluti anni di sperimentazioni e ricerche prima di arrivare a un risultato soddisfacente. Ma alla fine i sacrifici di Fabio sono stati premiati.
Il suo percorso inizia nel 2009 con i piccoli frutti che coltiva e serve nei migliori resort della Costa Smeralda. Coltiva in campo aperto dall’uva spina alla mora, dal ribes al mirtillo. Questa produzione stagionale, però, non gli basta più: vuole arrivare all’essenza, conservarla, immobilizzarla nel tempo. Ecco perché pensa alla distillazione: presenta un progetto europeo in collaborazione con la facoltà di Scienze Agroalimentari per l’Università di Udine, allestisce una microdistilleria e crea i primi distillati monofrutta.
Poi arriva l’ispirazione con la ghianda. Ma l’idea di farne un distillato sembra una follia. Non ci sono precedenti, non sarebbe teoricamente neppure possibile metterla in commercio perché mancano testimonianze sulla sua edibilità. Fabio inizia un lungo percorso di ricerca in tutta Europa, di studio della storia, contemporaneamente alle analisi effettuate nei laboratori dell’Università. L’obiettivo è ottenere il via dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli  e dall’Ispettorato centrale repressione frodi al commercio di questo prodotto.

 

In Sardegna la prima acquavite di ghiande al mondo: esperienza unica di  sapori e profumi | News - SardegnaLive

 

Fabio vince la sua (prima) battaglia e così può continuare ad accendere il suo microalambicco da 140 litri a fiamma diretta e distillare quel raccolto tanto faticoso da ottenere. "Le ghiande - spiega - non ci sono tutti gli anni. Ad esempio la sughereta sperimentale Cusseddu Miali Parapinta di Nuchis nel 2019 era così piena di ghiande da non poterci camminare, nel 2020 e nel 2021 al contrario era completamente sgombra per colpa del Maestrale che l'ha colpita in fioritura bloccando del tutto la produzione”. Questo però non è l’unico ostacolo: “Le ghiande possono essere raccolte solo da terra, perché solo queste sono sicuramente mature, ma sono anche più appetibili per gli insetti che ne apprezzano l’amido e per i cinghiali. Devono essere cernite una a una durante la raccolta e prima dell’utilizzo”. Risultato? Quattro persone non riescono a raccogliere più di due quintali di prodotto in una giornata che poi devono essere essiccati per almeno 35 ore. Una volta terminata questa fase, inizia la macinatura per trasformare le ghiande in uno sfarinato molto fine che viene inserito nel bollitore dove inizia la fermentazione. Il fiore del mosto subisce tre cicli di distillazione. La resa è infinitesimale: meno di un litro di distillato da un quintale di ghiande verdi. La produzione non supera le 2000 bottiglie l’anno, racchiuse in cofanetti di legno realizzati a mano e con le scritte in Braille.

 

Quercia spinosa | SardegnaForeste


Landhè nasce dal bosco, da piante secolari. “Nessuno può pensare di piantare delle querce e raccoglierne i frutti  - continua - noi abbiamo scelto di prendere in affitto una foresta certificata FSC, poco o nulla antropizzata”.  Quelle ghiande si legano alla Sardegna di secoli fa e l’acquavite che se ne ricava è un ponte con quei boschi dell’Alto Medioevo, ne conserva il profumo. Un mix di castagna e nocciola, di falò spenti e di terra appena prima che cada la pioggia.

mi fanno ridere quei cristiani che parlano di pensiero unico

Non condivido  i  toni   del post    riportato sotto    ma  nella  sostanza  ha  ragione .  i  tempi  sono  cambiati  ,   ed  tornare inietro  è  solo  nostalgia  . si può  essere   anche  credenti  ( nel  nostro  caso   cristiani  o  cattolici ) in modo laico  e  non  solo  confessionale  .  Ma  soprattutto    non è solo  l'unica  cultura  della  nostra  identità  



Ugo Giansiracusa

Se c'è una cosa che mi fa ridere fino alla nausea sono i cristiani che parlano di "pensiero unico" per tutto ciò che non rispecchia la loro ideologia. Amico cristiano e amica cristiana, forse non ve ne siete del tutto resi conto ma per circa 2000 anni il pensiero unico è stato il vostro. Libri messi al bando, teorie scientifiche bollate come eretiche, massacri di credenti (cristiani anche loro) che avevano una lettura leggermente diversa del cristianesimo, massacri di "infedeli", curatrici messe al rogo accusate di stregoneria e via discorrendo. Dalle

leggi alla morale alla scienza passando per la politica e ogni aspetto della vita quotidiana era improntato al pensiero unico cristiano. È solo con l'illuminismo che si comincia ad affrancarsi da una visione religiosa di tutto. Ora io capisco che vi scoccia un poco aver perso questo primato e il diritto di fare i roghi e le crociate e restare totalmente impuniti per i vostri orrori grazie al fatto che erano in nome di una divinità. Però dovete prenderla con un poco più di filosofia ! Anche se nelle scuole non si insegna più che l'uomo è stato creato da Dio avete pur sempre le vostre chiese dove tramandare le vostre strampalate teorie. E si, capisco che un mondo che non consideri peccato mortale fare sesso fuori dal matrimonio, magari pure sesso omosessuale, vi metta in profonda crisi ma, non so come dire in maniera esaustiva...ah, si: cazzi vostri. Lungi dall'essere un pensiero unico come lo è stato quello cristiano per due millenni, oggi puoi scegliere liberamente. Concordo nel fatto che questo possa creare un poco di confusione. I tempi andati in cui senza alcuna scelta battesimo, cresima, comunione, matrimonio 6 o 7 figli e via. E se non ti omologavi fiamme eterne! Comunque quei tempi sono passati. E capisco che guardiate certe teocrazie mediorientali con una certa invidia. Però, ecco, noi no. Ma la cosa bella di un mondo senza pensiero unico (benché voi pensiate il contrario) è che c'è la totale libertà di mandare i vostri figli in scuole cristiane. Poi potete mandarli al catechismo. In estate al Grest. In vacanza ai ritiri spirituali. Insomma, liberi di fargli vivere una vita di merda secondo la vostra ideologia. E finché siete liberi e libere di indottrinare i vostri innocenti figli con una marea di orribili e dannose corbellerie vi pregherei di astenervi dal parlare, proprio voi, di pensiero unico.

Cordialmente.

perché le persone discriminano? Perché la gente non si limita a vivere la propria vita invece di entrare nel merito di quella degli altri» ? Dario de Judicibus

 Un amico mi ha domandato: «Dario, ma perché le persone discriminano? Perché la gente non si limita a vivere la propria vita invece di entrare nel merito di quella degli altri» ?

Ci ho pensato molto e alla fine sono giunto a una conclusione, probabilmente inaspettata, sicuramente non ortodossa: è solo uno dei tanti meccanismi con i quali un gruppo di individui elimina un altro gruppo dalla lotta per il potere e la sopravvivenza. Non è un caso che spesso vediamo questi comportamenti anche fra i nostri parenti più vicini nel regno animale: i bonobo e gli scimpanzé. Se sei il più forte o il più furbo è facile avere la meglio, diventare l'alfa, quello che comanda. Ma se sei il più debole? Se vuoi comunque conquistarti una posizione che non sia proprio alla base della piramide, cosa fai? Devi eliminare quanti più concorrenti possibili, quanto meno quelli che starebbero un gradino sopra a te per intelligenza o forza. E allora ti attacchi a qualcos'altro, a qualcosa che con l'intelligenza, la forza o comunque le qualità individuali non ha nulla a che vedere, qualcosa che possa tagliare fuori di colpo intere fette della popolazione dalla corsa al potere. È una donna, è nero, è omosessuale, appartiene a quella etnia o crede in quelle divinità. Insomma, qualsiasi
cosa va bene, purché di colpo metta un'intera fetta di individui al piano di sotto, in fondo alla piramide. Sei maschio, bianco, sei cristiano, sei etero: allora sei superiore a tutti quelli che non lo sono, poco importa se sei un cretino, debole e senza spina dorsale. Sei salito di qualche gradino e il potere, che sa che sei debole e stupido, ti adora, perché non rappresenti un pericolo, anzi, fai da cuscinetto a quelli davvero pericolosi che tuttavia sono stati sbattuti in fondo alla fila per ragioni del tutto strumentali.
Il brutto è che il meccanismo funziona così bene che anche chi è discriminato non è esente dal discriminare. E così ci sono donne e omosessuali razzisti, persone di colore omofobe e misogine, religioni che si combattono a vicenda, etnie che discriminano altre etnie pur essendo a loro volta discriminate. Minoranze dentro minoranze dentro altre minoranze, o magari anche maggioranze, come nel caso delle donne, poco importa. Così si crea una gerarchia non più basata sulle capacità e sulle qualità, ma in base a parametri del tutto strumentali, parametri che permettono di avere in cima alla piramide un piccolo gruppo di potenti che campa sulla pelle di tutti gli altri. Un piccolo gruppo davvero paritario, perché formato da uomini, donne, persone di colore e omosessuali che si nascondono tutti dietro alla stessa maschera aristocratica di dinastie inattaccabili e consolidate anche in quelle che chiamiamo democrazie. Re e regine, dittatori, presidenti, dinastie di industriali, capi di organizzazioni più o meno legali. Loro possono essere quello che vogliono: possono essere di qualsivoglia genere, colore, orientamento sessuale o fede religiosa. Magari non lo fanno sapere, ma vivono la loro vita a spese di tutti gli altri, pur essendo quello che a tutti gli altri è negato, perché la prima cosa in assoluto che devono negare agli altri è il potere. Tutto il resto è solo funzionale a questo. Perché le persone discriminano, quindi? Perché è più facile dimostrare che un altro è inferiore a noi piuttosto che sia superiore, specialmente se tale "dimostrazione" non si basa su un'onesto confronto di qualità ma su evidenze oggettive del tutto irrilevanti come il colore della pelle, l'etnia, l'orientamento sessuale o il genere. Sei una donna? È evidente. Sei di genere fluido? È evidente. Sei di pelle scura? È evidente, facile da dimostrare: non significa nulla, quindi è perfetto per affermare che sei inferiore. Tu invece devi dimostrare che io sono un cretino e sebbene in molti questo sia evidente, è un po' più difficile da fare. Magari perché a quel punto ti denuncio per diffamazione. Tu invece non mi puoi denunciare per diffamazione per aver detto che sei una donna o che la tua pelle è nera. A me basta solo far passare il messaggio che tutto ciò è sufficiente per tagliarti le gambe, impedirti di studiare, di accedere a posti di comando, persino di esercitare determinati mestieri. Alla fine, e purtroppo è successo spesso nella Storia, per negarti persino il diritto di esistere.

«Io, figlio in affido, ora sono prete per i ragazzi feriti»

Don Federico le ferite le ha imparate a conoscere prima sulla propria pelle. Abbandonato a pochi giorni di vita, adottato qualche mese dopo,...