13.10.13

fatta la legge trovato l'inganno Perchè ci vuole orecchio: ecco perchè San Siro non è stato squalificato Milan - Udinese si giocherà a porte aperte

  da  http://calcioflashnews.blogspot.it/p/about-us.html  tramite oknotizie

Ennesimo pasticcio all' "italiana" nel mondo caotico del pallone. Come molti sanno il campo di gioco del Milan è stato squalificato in seguito ai cori contro i Napoletani. Discriminazione territoriale il termine introdotto, una specie di razzismo minore.
Sentenza accettata serenament? Tentativo d limitare episodi analoghi? Punizione per i responsabili?
NO!
La soluzione è sempre la stessa:
cambiamento della norma, come di solito succede in Italia quando la stessa colpisce il potente di turno.
La cronaca: il Milan si appella alla Corte di Giustizia federale che ovviamente non può cambiare la norma, ma si inventa un escamotage degno di Machiavelli: approfondimento delle indagini.
La logica dei giudici è sottile. i cori ci sono stati, ma non li ha sentiti l'arbitro, non li hanno sentiti gli altri ufficiali di gara, nè tanto meno uno degli ispettori della Federazione. Le offese ai Napoletani le ha sentite uno solo (magari Napoletano) degli uomini della Federazione seduto a due metri dai milanisti.
Ergo. per essere offensivi i cori devono essere ascoltati da tutti!
Pazzesco!
Di fatto viene introdotta una nuova norma: si possono intonare cori a sfondo razziale, ma a bassa voce basta che si sentano a massimo dieci metri di distanza.
Allora piano, piano: senti che puzza...scappano anche i cani (piano, ho detto piano altrimenti ci squalificano) sono arrivati i ...(qui ancora più piano, anzi pianissimo) i Napoletani...


Iglesias Mamma si fa ladra per amore "Volevo mia figlia fosse felice"







leggendo questo articolo dell'unione sarda d'oggi 12\10\2013 




E' stata arrestata nel giorno dell'ottavo compleanno della sua bambina perché sorpresa a rubare dei vestitini. "Sono disoccupata, non ho soldi. Volevo rendere felice mia figlia".






IGLESIAS La storia, che sembra uscita da un romanzo, ha per protagonista una donna di Iglesias, 35 anni, separata e senza lavoro dal 2009. Nel giorno del compleanno della figlia ha commesso ciò che non avrebbe mai fatto se non avesse sentito il bisogno di rendere felice la sua piccola: "I leggins le stavano stretti e le segnavano il pancino. Sono entrata all'Oviesse e ne ho rubato due paia. Nel giorno del compleanno non volevo dire alla mia bambina: mamma non ha soldi per comprare i vestiti nuovi". La donna (di cui non è stato dato il nome per tutelare la figlia minore) è stata arrestata, processata col rito direttissimo e condannata a 5 mesi di reclusione.Una storia di disperazione e povertà. Il furto, l'arresto, il processo e il pentimento di una giovane mamma che voleva fare un regalo alla figlia di otto anni. Quando ha visto il pancino della sua bambina segnato dai pantacalze diventati troppo piccoli, gli occhi le si sono riempiti di lacrime. Troppo difficile dire alla figlia, nel giorno del suo ottavo compleanno, «mamma non può comprartene di nuovi perché non ha soldi». E allora Angela (ma il nome è di fantasia a tutela della piccola), 35 anni, mai un guaio con la giustizia, separata e senza lavoro dall'estate del 2009, quando è stata licenziata da un'impresa di pulizie che aveva appalti a Portovesme, ha fatto una cosa che neppure lei avrebbe mai immaginato potesse fare:IL FURTO La donna è entrata all'Oviesse di Iglesias, in via Roma; ha scelto due paia di “leggins” venduti in offerta a 12 euro e 90 centesimi e li ha messi in borsa, facendo scattare l'allarme una volta arrivata nel raggio d'azione del dispositivo antitaccheggio. L'epilogo è stato tristissimo: l'arresto in un giorno speciale che, per qualunque mamma e qualunque bambino, dovrebbe essere di gioia. Poi il processo, con rito direttissimo, e il patteggiamento di 5 mesi di reclusione (con la sospensione della pena) per il reato contestato di rapina impropria: un capo d'imputazione derivato dal fatto che (così dicono le carte processuali) «una volta accompagnata negli uffici amministrativi dell'esercizio commerciale, adoperava violenza nei confronti della direttrice, spintonandola e strattonandola allo scopo di assicurarsi l'impunità». Angela pochi giorni dalla sentenza e dopo essersi consultata con l'avvocato Giovanni Raimondo Serra che l'ha difesa, accetta di raccontare la vicenda nei dettagli. E, così come ha fatto davanti al giudice Ferrarese e al pm Rita Cariello, fornisce particolari diversi. Ancora più toccanti:IL RACCONTO «Avevo lasciato la bambina in macchina, proprio vicino al negozio, e le avevo detto di aspettarmi che sarei ritornata subito, ma siccome mi stavano trattenendo in attesa dell'arrivo dei carabinieri, mi sono agitata e ho chiesto che mi accompagnassero per andare a prenderla». Nel negozio non le hanno creduto, ma i carabinieri sì: «Quando sono arrivati siamo andati subito a prenderla. Credo abbia capito tutto perché non ha detto niente e mi ha abbracciato forte», dice Angela in lacrime. Non cerca scusanti, sa di aver compiuto un'azione sbagliata, ma a muoverla è stato il cuore di una mamma che mai vorrebbe negare un dono, anche piccolo, al suo bambino. Invece lei, negli ultimi anni, ha dovuto spiegare più volte alla piccola che i soldi non bastavano per esaudire ogni suo desiderio. Troppo pochi i 280 euro che percepisce per i problemi di salute che l'hanno resa parzialmente invalida, cui si aggiunge un sussidio comunale di 90 euro. E tutto deve bastare per mangiare e pagare le bollette. Non c'è altro.IL PENTIMENTO «Con questa crisi non ti chiamano più neppure per lavare le scale o dare assistenza agli anziani, il mio ex marito è disoccupato e non ha la possibilità di contribuire. Mi rendo conto che non sono l'unica ad avere problemi e il mio dramma non giustifica quello che ho fatto». Angela è pentita e non prova rabbia per nessuno. Anzi. Ci tiene a ringraziare i carabinieri: «Hanno fatto il loro lavoro, ma sono stati davvero delicati e quando mi hanno portato in caserma, hanno dato da mangiare alla bambina e le hanno fatto vedere i cartoni animati. Il comandante della Stazione si è comportato quasi come un padre». Nessun rancore neppure per la responsabile del negozio: «Ho sbagliato e mi piacerebbe incontrarla per chiederle scusa, ma ho paura non l'accetti». Ora che la giustizia ha fatto, come era logico che fosse, il suo corso, non sarebbe male tendere la mano a una mamma disperata.




mi chiedo come mai se esistono tanti canali per ottenere dell'usato/nuovo gratuitamente la tipa ha scelto d'andare a rubare .In questi anni di disperazione si è sviluppato un sottobosco di solidarietà umana inimmaginabile Scoprirlo significa educarsi ed educare.Forse ha vergogna di rivolgersi alle associazioni e di far vestire la figlia con abiti usati . Condivido in pieno questi commenti alla news sul sito






Masilor72


12/10/2013 12:49 


Che schifo...


arrestata, processata per direttissima e condannata a 5 mesi di reclusione...per 2 pantaloncini.... per l'anziano 77 enne di Arcore invece dopo la condanna a 4 anni di galera ancora si deve decidere se deve decadere oppure no.... ma questa è l'italia forte coi deboli, e debole con i pregiudicati !!


smich 12/10/2013 12:42


azz


5 mesi............viviamo in unasituazione difficile, e la disperazione porta a fare cose che mai avremmo pensato di fare.

c'e chi ruba milioni e nulla gli fanno ( politici )


cicoboboetto


12/10/2013 12:26


mamma si fa ladra per amore


evitando ovviamente una facile demagogia sull'applicazione della Legge a seconda di Chi e del Perchè, non bisogna dimenticare che il furto di qualsiasi entità costituisce reato. Cosi come non si devono additare i commessi del negozio che hanno semplicemente fatto il loro dovere. Però vorrei sottolineare che con un briciolo di psicologia si sarebbe potuta comprendere la particolarità e la drammaticità del fatto. Se fossi stato presente, avrei pagato volentieri quei pochi ridicoli euro!!!

12.10.13

Lauree lavorando Rachid Khadiri Abdelmoula e Daniela Ribon

musica  consigliata  ed in sottofondo  Eroe-Caparezza

Ora   i buonisti   d'accatto mi  diranno che  sono razzista  ,  e quelli  dell'ultra  destra     che  mi  sto  convertendo  .  Ma  sinceramente , queste cose  mi scivolano via    . Infatti   chi realmente  mi conosce  sa  che non lo  sono  .Perchè   entrambi  italiani o extra comunitari   nel bene  ( i, come in questo  caso  , o  nel male     sono uguali  . Qui non intendo  fare  confronti beceri  ma   voglio solo  far riflettere , evidenziano di  come i  media  esaltano anzi meglio  rendono : << Storia diversa per gente normale \storia comune per gente speciale >> ed ignorano  di come   molti studenti-lavoratori italiani ignorati da media e istituzioni. Che studiano, lavorano, si pagano da soli gli studi e talvolta aiutano economicamente la famiglia. Addirittura crescono figli e quindi studiano nell'unico ritaglio di tempo libero: la notte. Ore sottratte al sonno e al riposto per conseguire una laurea senza pesare a nessuno. Senza agevolazioni fiscali, licenze regalate, attività detassate, sconti sulle spese universitarie. Il solo aiuto, eventuale, di borse di studio conquistate con merito.
  

la  prima  è  da www.repubblica.it del 9\X\2013




"Mi sono laureato vendendo accendini":
la straordinaria storia di Rachid

Ecco la storia straordinaria di un immigrato marocchino che vendeva accendini in strada a Torino per pagarsi gli studi al Politecnico. E che oggi è dottore in ingegneria
Rachid, ti fanno le foto? Che cosa hai combinato? ». Pomeriggio affollato nel cortile del Politecnico. Tutti conoscono la storia del marocchino che si è laureato vendendo accendini e fazzoletti, e scherzano da vecchi amici. Ma questo è il lieto fine: «All’inizio erano scioccati. Capitava per caso, sotto i portici del centro. Io li osservavo. I più non dicevano nulla. Succedeva quasi sempre così. Li vedevo arrivare da lontano. Erano i miei compagni di corso, ragazzi come me. Li avevo visti al mattino a lezione, non potevano scambiarmi
per un altro. E infatti mi fissavano. Si avvicinavano, si avvicinavano. Poi, di colpo, si allontanavano frettolosi, senza dire una parola». Quanto tempo è andato avanti questo gioco? «Poco, per fortuna. Perché al mattino, nelle aule del Politecnico, qualcuno ha cominciato a chiedere: “Ma noi ci siamo visti ieri pomeriggio sotto i portici di via Po?”». Così, poco per volta, tutti hanno saputo. Ed è stato un bene: «Sì perché molti sono diventati amici veri. Se sono arrivato alla laurea triennale devo ringraziare anche loro, i tanti che mi hanno aiutato nei momenti di difficoltà. Se c’è una cosa bella dell’Italia è questa disponibilità che ho trovato in molte persone».
Happy end ma storia difficile. «Vedi qui sotto il sopracciglio? È il taglio di un pugno. Era un gruppo di ragazzi. Avranno avuto sedici anni. In via Roma, una notte. Avevo la mia mercanzia. Mi sono volati addosso. Mi insultavano. Un branco di razzisti. Mi hanno picchiato. Sarebbe andata peggio se non fossero intervenuti dei passanti. Vedi, anche qui, in fondo c’è del buono. Io ho sempre fatto così. Quando capita qualcosa di brutto devi cercare l’aspetto positivo, fare un reset e ricominciare da capo. È la regola del grafene: adattarsi per diventare più resistenti ».
Adattarsi. A Kourigba non era possibile. La famiglia di Rachid, padre, madre e sette fratelli, viveva di agricoltura e allevamento: «Ma la terra era poca e noi eravamo tanti. I miei due fratelli più grandi sono venuti in Italia per primi. Said è andato ad Alba, in provincia di Cuneo. Per questo ha dovuto imparare un po’ di dialetto piemontese, perché nei paesi se non parli il dialetto non sei nessuno. A me non è capitato, sono arrivato direttamente in città. Già è stato difficile, il primo mese, capire l’italiano in prima media».
Agosto 1999, la vecchia Golf dei fratelli di Rachid attraversa lo stretto di Gibilterra, corre lungo le autostrade del sud della Spagna
affollate di turisti, raggiunge il golfo di Marsiglia e supera la frontiera di Ventimiglia prima di puntare su Torino. «Ogni estate i miei fratelli tornavano dall’Italia e raccontavano meraviglie. Dicevano che c’erano un sacco di possibilità di lavoro. Io ero affascinato. Un giorno ho detto a mia madre: “Qui a scuola non ci vado più. Voglio seguirli in Italia” ». E la realtà si è dimostrata all’altezza delle aspettative? «Quando siamo arrivati ad agosto non mi rendevo conto di quanto freddo possa esserci qui. Certo, i miei fratelli avevano un po’ esagerato. È umano no? Se no come spiegavano che erano andati via dal paese?».
Rachid è una delle centinaia di stranieri che frequentano uno dei politecnici più ambiti d’Italia. Arrivano da tutto il mondo ma pochi vivono di espedienti come lui. «Il conto è presto fatto. Se calcoli una media di 20 euro al giorno riesci a portare a casa 600 euro in un mese. Una parte finisce nella mia quota di affitto: vivo con i fratelli. Un’altra va in vitto, libri e bollette ». E spesso non basta: «Lo so bene. Solo qualche mese fa abbiamo rischiato che ci togliessero il gas per qualche bolletta non pagata. Ma in questi casi è sempre arrivato qualcuno che ci ha tolto dai guai. Poi io sono riuscito a ottenere due borse di studio. Questo ultimamente non capita più. I soldi mancano anche all’Università e i criteri sono diventati più rigidi ».
La crisi colpisce anche persone intraprendenti come Rachid. Li colpisce due volte. La prima con la stretta sulle borse di studio e sulle tasse universitarie. «E la seconda con il crollo delle vendite di fazzoletti e foulard. Ci sono dei giorni che trascorri ore sotto i por-
tici e non metti in tasca nemmeno dieci euro. Che ci sia la crisi non te ne accorgi solo dai soldi. Te ne accorgi dalla rabbia della gente. Da come in tanti ti mandano a quel paese quando ti avvicini. Ti urlano dietro, se la prendono con te».
Assorbire per tutto il pomeriggio il veleno che ti sputa in faccia l’Italia incazzata e tornare a casa la sera a studiare geometria e analisi 1: un vero e proprio esercizio zen. «Il primo anno al Politecnico ho davvero avuto paura di non farcela. Quei due esami erano la mia bestia nera. Mi preparavo, studiavo di notte e venivo bocciato. Ci ho messo mesi e mesi a passare analisi 1. Poi, a giugno, in una bella giornata che ricorderò sempre, sono riuscito a sbloccarmi. Quella volta, quando il professore mi ha detto che avevo superato l’esame, ho capito che se stringevo i denti avrei potuto farcela davvero ».
Perché sia davvero un lieto fine non basta la laurea triennale e per quella magistrale ci vogliono ancora due anni di studi e fazzolettini. Rachid spera che non sia così: «Per me questa è solo una tappa. Voglio immaginare che con la laurea triennale ci sia qualche studio di ingegneria che possa farmi lavorare. Sarebbe importante capire presto che cosa è davvero il mondo del lavoro in questo mestiere. Certo, non nascondo che trovare il lavoro in uno studio per me vorrebbe dire abbandonare finalmente la vetrina ». Il salto sociale che non solo lui ma tutta la famiglia ha sognato da quindici anni. «Io non sono solo. I miei fratelli e i miei cugini hanno lavorato anche per me, si sono sacrificati perché studiassi in questi anni. Senza di loro non ce l’avrei mai fatta». Rachid è il front man di un gruppo rock, l’ultimo velocista di una staffetta sociale, il rugbista che i compagni sollevano perché possa salire in cielo a catturare il pallone. Dietro di lui c’è un lavoro di gruppo, diviso tra l’Italia e il Marocco, tra i fazzoletti di carta che i fratelli vendono nel centro storico e il piccolo terreno coltivato a Kourigba dalla madre e dagli altri fratelli rimasti in patria. Tutti hanno puntato su di lui, tutti lui oggi deve ringraziare.
E dopo? Che cosa c’è nelle prossime sequenze del film sulla favola bella dell’ingegnere dei fazzoletti? Una sola certezza: «Il principale obiettivo è il lavoro. Un lavoro buono, da ingegnere, che serve per vivere e serve perché ti piace». Non sono molti i cantieri aperti a Torino in questo periodo, anche la vita dell’ingegnere civile rischia di essere grama: «Ti sbagli. Stanno costruendo due grattacieli, una stazione nuova, il passante ferroviario. E in ogni caso, se non troverò lavoro qui andrò altrove. Ho fatto tremila chilometri da casa mia per arrivare in questa città e cercare di avere un titolo di studio. Non mi sconvolge certo l’idea di spostarmi da un’altra parte se sarà necessario. Caro giornalista ricordati una cosa: il grafene non si spaventa. Resiste quattro volte più dell’acciaio».


La seconda   è quella di Daniela Ribon, di San Donà di Piave, laureatasi presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia tratta  da  http://www.qelsi.it/2013/  del 10\X\2013  


Sono seconda di tre sorelle, di una famiglia povera ma dignitosa che ci ha sempre insegnato a lavorare e ottenere ciò che vogliamo con fatica e sudore. Il mio sogno è sempre stato quello di laurearmi in Lingue e fare la giornalista, oltre a viaggiare. Così mi sono iscritta all’Univesità Ca’ Foscari di Venezia nel 1994“. Una storia come tante, all’apparenza, ma Daniela non ha dimenticato gli insegnamenti dei suoi genitori e non ha voluto pesare sulla famiglia: “Per mantenermi agli studi facevo la cameriera in pizzeria. Poi nel 1996 è nata la mai amata prima
figlia Diletta. Ho smesso di lavorare in pizzeria ed ho iniziato a fare supplenze. La mattina a scuola e il pomeriggio con la bimba al parco o a giocare alle bambole. Poi è arrivato il mio secondo adorato figlio Diego Teodoro. Stessa vita, di giorno supplente, il pomeriggio mamma e la sera studentessa“.
Mamma e studentessa, ma di conseguenza anche lavoratrice, per potersi mantenere non solo gli studi, ma anche vitto, alloggio e prole. Senza l’aiuto di nessuno, anzi con qualche ostacolo: “Il mio ex non sopportava che studiassi e mi prendeva in giro dicendo che mai mi sarei laureata. Nel 1999, oltre a dare esami ho studiato per il concorso per la scuola primaria e l’ho vinto. Studiavo sempre e solo di notte perché di giorno mi dedicavo all’educazione dei miei figli e a loro volevo dedicare tutto il mio tempo libero. La notte loro dormivano e non avevano bisogno di me, quello era il tempo per me“.
L’unico aiuto è arrivato da una borsa di studio: “Ho vinto una borsa di studio di circa tre milioni (di vecchie lire n.d.r.), ossigeno per le scarse finanze. Solo mia mamma sapeva la data degli esami perché il mio ex pur di non farmeli fare mi sequestrava l’auto, che era sua, o mi strappava libri e appunti“.
Daniela però non si è arresa e ha continuato a lottare. Da sola: “Non potendo frequentare andavo a ricevimento dai docenti per concordare il programma e quella diventava l’occasione per fare un gita a Venezia con i miei bimbi. Con la tesi è arrivata anche la fine del mio matrimonio. Il giorno della Laurea ho pianto. C’erano le persone che più amo: i miei figli, i miei genitori che hanno sempre creduto in me, mia nonna, le mie sorelle, e poi tanti amici“.
Si è laureata, nonostante i figli da seguire e un matrimonio fallito, proprio per colpa della laurea. Ma Daniela non ha finito, anche ora sta continuando a studiare: “Sto studiando per la specialistica in lettere, sempre e solo di notte. Come sempre
Pensi che gli studenti-lavoratori siano una categoria dimenticata da media e istituzioni?
Sicuramente i media non si occupano degli studenti-lavoratori, non capisco perchè. A volte sono i più motivati.
La tua storia potrebbe essere considerata straordinaria, eppure è quella di tanti italiani. Tu ti senti speciale?
Non mi sento speciale, sicuramente orgogliosa per ciò che sono riuscita a fare, se guardo al passato mi sembra incredibile esserci riuscita, ci vuole una gran dose di forza di volontà!
Repubblica recentemente ha pubblicato un articolo raccontando la storia di un marocchino che è riuscito a laurearsi vendendo accendini per pagarsi gli studi. Pensi che i quotidiani nazionali potrebbero essere interessati pure alla tua storia?
Non voglio essere polemica, ma credo che il venditore di accendini abbia fatto notizia solo perché marocchino. Ti assicuro che ci sono tanti cittadini italiani che fanno lavori molto umili pur di mettere assieme i soldi per le tasse ma di loro non si parla, non facciamo notizia, forse neppure audience. Ma siamo tanti…


10.10.13

io sono diogene è questa è la mia terra

  ringrazio  la mia  nuova  utente  https://www.facebook.com/autrice.psicotaxi  account  facebook  di  http://www.psicotaxi.it/


Questo è un progetto: Tutto o nienteScade il 08/12/2013
http://www.ideaginger.it/progetto.html?id=35%3Bwww.iosonodiogene.info#


Aiutaci a finanziare un documentario di persone, di storie e di luoghi; Diogene possiamo essere tutti noi. Io sono Diogene, e questa è la mia terra è un racconto di passione e tenacia, di persone straordinariamente innamorate di ciò che fanno, dei frutti del territorio e della tradizione, e di sempre nuove sfide. Solo una parte della produzione è coperta, ci serve il tuo impegno per realizzare, produrre, editare, sottotitolare e promuovere il documentario.
La bassa modenese e il territorio di Bomporto sono luoghi in cui o si nasce oppure si transita; non avendo attrattive di divertimento rimangono per lo più luoghi sconosciuti; è proprio in questo genere di terre che si trovano delle specificità
nei link sotto maggiori dettagli

www.iosonodiogene.info sito web dell'associazione
http://www.lalucciola.org/la-lanterna-di-diogene.html
http://www.lalucciola.org/
http://www.cantinadellavolta.com/it/Home.aspx
http://www.aziendacasumaro.altervista.org/

LA CACADA - CHECCO ZALONE

9.10.13

Decide di essere sincero per 24 ore su Facebook e perde quasi tutti gli amici

Decide di essere sincero per 24 ore su Facebook e perde quasi tutti gli amici

fbAvete mai letto su Facebook lo status di un vostro conoscente talmente fastidioso da dovervi legare le mani sotto la sedia per evitare di dire la vostra? Avete mai sentito le dita bruciare dalla voglia di battere sulla tastiera per rispondere a un utente saccente e sgradevole? Avete semplicemente mai desiderato eliminare dai contatti una persona che non fa altro che lamentarsi sterilmente 24 ore su 24? In fondo, Antoine Garrot, il ragazzo francese protagonista di questa storia, un po’ lo invidio, perché ha avuto lo sfrontato coraggio di fare un esperimento geniale e stupido allo stesso tempo: per 24 ore ha detto tutto quello che pensava, senza filtri, su Facebook. Esattamente come Jim Carrey in “Bugiardo bugiardo”, i pensieri più reconditi uscivano dalla bocca, o meglio, dalle dita di Antoine, senza alcun limite.
Così, quando un’amica ha condiviso l’ennesimo status su quale cibo detestava suo figlio, il nostro “eroe” non si è trattenuto dallo scriverle che, in fondo, a nessuno importava se il suo Theo preferisse la pappetta alle zucchine o alle melanzane; e al suo caro amico Brice, ha ricordato che la sua esistenza è così triste che non gli resta che renderla più divertente fingendo sui social network. Infine, giusto per chiudere il cerchio, ha sottolineato alla povera Sophie, che le sue due cugine nella foto non sono affatto carine come afferma lei, e che trova assurdo questo atteggiamento tutto femminile dello scambiarsi complimenti finti come i soldi del Monopoli. Tempo poche ore e Antoine si è visto togliere l’amicizia da Facebook da una buona metà dei suoi amici. C’era da aspettarselo.
Cosa succederebbe se dicessimo quello che pensiamo veramente, in ogni occasione? Cosa succederebbe se lo dicessimo in modo “politicamente scorretto”? Sicuramente, davanti all’esperimento di Antoine, siamo quasi tutti pronti ad affermare che il suo sia un atteggiamento assurdo e sgradevole. Ma questo fatto, in realtà, mi ha spinta a una sana autocritica e sono andata così a rileggere alcuni vecchi aggiornamenti di stato sul mio profilo privato di Facebook.
Aggiornamento del lontano novembre 2008: “Ho cucinato un buonissimo purè in polvere”. Estica**i? Direbbe la Cortellesi. Altra perla rara del maggio 2009: “Ma non potevo essere giovane negli anni 70?”, originale, no? Nel marzo 2009 invece annunciavo in modo fiero di essere “rientrata ufficialmente nel tunnel senza uscita del burro di noccioline”.
Allora, forse, ci potremmo fermare un attimo a pensare che, quello che ci sembra divertente e/o interessante, potrebbe in realtà non esserlo affatto.
Quindi, il caro Antoine, nel suo modo brutale (ma divertente, ammettiamolo senza troppi moralismi) potrebbe averci dato un buono spunto di riflessione: “less is more”!
Qui di seguito vi lascio gli screenshot incriminati catturati dal profilo di Antoine (con relativa traduzione dal francese all’italiano). Buonismi a parte, provate a dirmi che non lo trovate esilarante!
Cécilia: Ok, è ufficiale, Theo non ama gli omogeneizzati alla melanzana. Dovreste vedere il broncio che ha fatto!! Ho fatto delle foto e ve le posterò questa sera.
Antoine: Non ne possiamo più di tuo figlio. Credi che interessi a qualcuno che “Theo non ama gli omogeneizzati alla melanzana”? Seriamente, ce ne sbattiamo il ****. Fosse una volta di tanto in tanto… ma tutti i giorni. Cosa facevi prima di facebook? Raccontavi la tua intimità per la strada con il megafono? Si sa che fai schifo nella coppia e nella vita ma non è un sito internet che colmerà il tuo vuoto esistenziale, né il tuo bambino a mio avviso, allora per favore smetti di annoiarci con il tuo marmocchio. Grazie.
Sophie: io con le mie due cugine. Non trovate che siano troppo belle
Mag: anche tu sei bellissima mia cara.
Johanna: sei troppo carina!!! non hai niente da invidiare!!!
Caro: se fossi un ragazzo ti salterei addosso lol
Isabelle: se la più bella e lo sai, Soso, se i ragazzi non ti fanno la corte sono proprio sfigati!!!
Vaness: siete delle ******, tutte è tre!
Antoine: ******! ma smettetela di delirare! lei è brutta e le sue cugine sono ****** e questo è tutto.
Antoine: Sophie, io ti voglio bene ma il tuo fisico non lo manderei a caccia di complimenti su facebook. Non sei stupida e sei divertente, coltiva queste qualità piuttosto.
Babeth: Sei troppo cretino!!! Non lo ascoltare Soso! Ti cancello da facebook! Allucinante!

Brice: Mojito veloce sulla terrazza del nostro Hotel! Domani mattina andremo a fare pesca grossa. Adoro la Corsica! Non è bella la vita!??
Antoine: Non sei mai stato felice Brice. Perché lo fai sembrare su facebook? E poi la pesca grossa non è necessaria, hai già Lucile, no?
Brice: Sei impazzito o cosa?
Lucile: sei cretino o cosa Antoine? Non ci fa ridere per niente sai?
Antoine: ecco la ******* di servizio! Non sei impegnata a tradire Brice?



cuore e mente è possibile ?

la  storia  della   fotografa  Maria Carmela Folchetti  


mi  ha  fatto  ricordare   questa  discussione   su facebook  avuta qualche giorno  fa


8.10.13

cuore e mente ? il caso della fotografa Maria Carmela Folchetti, nuorese, fotografa figlia d’arte L’eredità di un padre che lavorava col cuore e con la mente

da  la  nuova  sardegna  del  7\10\2013
Uno scatto studiatoe nella fotografiavedi il sentimento  In Sardegna c’è un’elevata manualità, in ogni officina c’è un artista: un valore aggiunto che dovremmo saper trasformare in ricchezza economica
NUORO La foto che scatterebbe più volentieri? «Il tramonto di Nùoro. Ma ho quasi paura di dirlo perché, di primo acchitto, la gente penserebbe al declino non solo economico della città. No. Vedo i fasci intensi di luce trans montes, al caleidoscopio di colori dello spettacolare cielo 

nuorese verso Corrasi, col sole che prima brucia poi colora di rosso e di rosa la dolomia del resegone bianco di Oliena. Sotto, la valle di Badde Manna che quasi si assopisce lambita dai raggi vespertini. Sullo sfondo il blu cobalto di San Giovanni di Orgosolo, da una parte le alture grigio-argentee di Orune spesso velate da nuvole tizianesesche nei giorni di ventu malu. È vero che tutto il mondo è bello. Ma ogni sera, sotto l'Ortobene, ho la fortuna di ammirare un capolavoro quotidiano della natura. Ogni sera un'opera d'arte tanto diversa quanto emozionante. E me la godo tutta. Mi impasto, mi nutro dei colori che soprattutto al tramonto inondano case e campagne. Ecco: vorrei riuscire a trasmettere tutte queste emozioni in una immagine. O in un catalogo. Per regalarli al tempo. Per offrirli alla città dove sono nata 45 anni fa». Figlia d’arte. Anche questo spontaneo parlare poetico di Maria Carmela Folchetti la conferma figlia d'arte. Il padre, Carmelo, nuorese di nascita (1929-1985), famiglia sassarese di origini lombarde, è stato "il fotografo di Nuoro" per eccellenza. Basterebbe sfogliare le 135 pagine del volume fatto stampare due anni fa dalla moglie Orsola Fais (tempiese) per rileggere storia e personaggi del capoluogo della Barbagia con la cifra stilistica di chi faceva gli scatti: il caravaggesco Peppe Coa operaio forestale, monsignor Ottorino Alberti, le donne in costume di Dorgali e Ollolai, uomini in "gambales e billubu", piazza Satta e uno scorcio di Lula, le case mussoliniane e il vecchio Comune raso al suolo nel Corso, per finire (1959) col sindaco Pietro Mastino nel giorno della traslazione dal Verano di Roma alla Solitudine della salma di Grazia Deledda. Essere me stessa. Raccogliere questo testimone non è stato facile. «Volevo essere sempre la figlia di..., ma volevo anche essere me stessa, libera di sbagliare, diventare autonoma. Sempre con la fotografia nel cuore e nella testa, come faceva mio padre». C'è riuscita. Non solo perché è titolare di uno studio affermato. Ma perché ci ha messo il plusvalore della conoscenza. Ha pubblicato un catalogo in quadricromia dove documenta il lavoro dei suoi colleghi artigiani sardi (Maria Carmela Folchetti è anche presidente della Confartigianato nuorese) con una cura monacale dei particolari. Sfogliamo insieme: le ceramiche con i graffiti rupestri di Giampaolo Mameli a San Sperate, il Giardino delle rose Paola di Sabrina Stara di Assemini, i Sinzos della nuorese Laura Puggioni, le ciotole griffate Sa terra pintada di Bitti, per andare all'Officina d'arte di Antonio Maria Scanu a Benetutti, le trachiti e i basalti di Fernando Mussoni a Illorai. Per non dire dello scrupolo nell'individuare e immortalare i dettagli dei lavori in legno di Giuseppe Canudu a Oliena o di Pierpaolo Mandis a Mogoro, i tessuti di Franca Carta e Mario Garau di Samugheo o i geniali arazzi di Vilda Scano sempre a Mogoro, le riproduzioni sacro-etniche di Marcella Sogos a Uri o i raffinati corredi di Giovanna Maria Aresi di Busachi. Catturare i sentimenti. Sono foto parlanti. Perché filtra la capacità di catturare i sentimenti. L'obiettivo della fotografa coglie e propone sfumature, ma con particolari capaci di raccontare il tutto. È come se un lettore si nutrisse di un libro leggendone una sola pagina. La Folchetti è capace di intercettare la pagina giusta. Comunica col dettaglio, afferra il carpe diem del lavoro, restituisce significato all'artigiano, all'artigiana e alle loro manifestazioni, è sociologa e antropologa dei luoghi e degli oggetti che deve immortalare. La teoria e tecnica della ricerca sociale con lei è teoria e tecnica dell'obiettivo, del grandangolo, della calibratura dei colori. Dà valore sacrale al movimento delle mani che fanno. Se guardate le lane, gli scialli, i gioielli in seta di Veronica Usula di Villacidro capite - ammirando matasse, trame e ricami - che Veronica ha studiato Scienze biologiche a Firenze, che ha rappresentato l'Italia al congresso mondiale dei maestri tintori in India col patrocinio Unesco. Ed emerge così una sapienza, una raffinatezza artigiana che dovrebbe far ricca la Sardegna che invece - e siamo davvero al paradosso - importa il 92 per cento dei prodotti artigianali messi in vendita nelle botteghe e nelle bancarelle di casa nostra. «C'è in tutta la Sardegna una manualità elevatissima, in ogni officina c'è un artista, ogni studio è un museo. Questo è un valore aggiunto che dovremmo saper trasformare in ricchezza economica». Dice le stesse cose per le foto che raccontano Autunno in Barbagia, Cortes Apertas . O i lavori su Costantino Nivola per la Ilisso e il Cis. I laboratori didattici con gli scolari. Che, stando con lei in camera oscura, imparano e interpretano. «Così come era successo a me, guardando mio padre in silenzio davanti al bromografo o all'ingranditore». Scuola e docenti. Pratica e teoria. Tanta. E metodo. Diplomata alle magistrali, Maria Carmela vuol varcare il mare e partecipa a due concorsi per la scuola di fotografia a Milano. Punta al top, Scuola del libro e Museo sociale dell'Umanitaria Riccardo Bauer, economista della Bocconi e amico di Ernesto Rossi e Ferruccio Parri. Scuola severa, durata triennale, laboratori e stage, lezioni frontali e lavori sul campo. «Perché la fotografia è chimica e fisica, ottica e fotonica, geometria e geografia. È studio dell'uomo. Ho la fortuna di avere come docenti il ritrattista Enzo Nocera, il fotografo di arredamento Giorgio Majno, professore di stampa Gianfranco Mazzocchi. Mi aveva detto: devi documentare la cultura barbaricina con le immagini, ma per tagliare questo traguardo devi fare l'anamnesi alla Barbagia. A Nuoro, morto babbo, lavoro con la sapienza di mia madre e mio fratello Francesco. Lo studio al civico 3 di piazza Mazzini. Si faceva di tutto. Anche i matrimoni: che vanno interpretati, resi con dignità, ognuno è diverso dall'altro, si usa la falange dell'indice ma è più importante l'occhio vigile, conoscere la storia della coppia, parlarci a lungo prima di fare gli scatti». La svolta nel 1998. «Apro il mio studio, via Sebastiano Satta, 26. Era il 22 maggio, giorno di Santa Rita. Già dal 1996 avevo fatto un lavoro per conto mio, ordinato dalla Fondazione Nivola di Orani. Ero stata a Pietrasanta di Lucca, mica è facile fotografare i marmi bagnati, devi aspettare la luce giusta. E lì avevo conosciuto la moglie di Costantino, Ruth Guggenheim, con la quale ho avuto una fitta corrispondenza. Tra i marmi, dovevo mettere in pratica le cose apprese a Milano. Sono stati insegnamenti fondamentali. Ho capito che ogni forma di artigianato ha bisogno di conoscenze scientifiche. Anche la fotografia. Frequento altri nomi sacri dell'immagine: Viliano Tarabella, fra gli altri. E poi vado a Firenze, altre esperienze e alte professionalità. Al rientro mi tuffo nelle tradizioni popolari. Feste laiche e religiose, donne che pregano, pastori che mungono, perle e bracciali. E poi gli artisti a cominciare da Antonio Corriga nella sua Atzara dove era se stesso più che altrove». Nozze napoletane. Nel 1999 sposa un docente di Italiano e Filosofia, Amedeo Spagnuolo, coreografia nuziale piazza Garibaldi di Napoli. È mamma di un bambino di sei anni, Domenico Carmelo. Viene rapita anche da Mergellina: i colori, la gente, i rioni, i pescatori, il mercato del pesce, il Vesuvio. Tutto il mondo è paese. Tutti i paesi hanno bisogno di un interprete-fotografo. A Nuoro Maria Carmela è nome che conta. Passando dalle foto con una Comet 126 a quelle della Canon 5D Mark 3. Foto digitali, quelle Comet e Voitglander sembrano preistoria. «Si scatta in continuazione, si rischia di allontanarsi dalla osservazione, dallo studio, dallo sguardo indagatorio. Credo che oggi manchi l'educazione all'immagine, il bombardamento dei media crea disorientamento. I messaggi li lanci se hai qualcosa in te, se il crogiolo è anche dentro l'animo. Diversamente non puoi cogliere l'arte di Gino Frogheri che mi ha insegnato il senso fantastico dell'inquadratura». Alle pareti tante immagini. E sotto i nuraghi? Il fotografo di Nuoro. Carmelo Folchetti ieri. Maria Carmela oggi.

"Vajont, lo Stato deve inchinarsi: scusarsi e riparare per quella strage"infatti va tre giorni dopo quando le celebrazioni sono finite e si parlerà d'altro


da repubblica online del 8\10\2013
"Vajont, lo Stato deve inchinarsi: scusarsi e riparare per quella strage"
Disastro del Vajont: Longarone nei giorni successivi alla strage, il 9 ottobre 1963 (ansa)
Alla vigilia della tragica ricorrenza che provocò 1.910 morti a Longarone, interviene la politica. Grasso: la popolazione ha subìto un danno irreparabile. La Boldrini parla di una "ferita aperta". Per il ministro Orlando "la causa non fu l'incuria, la causa fu l'uomo". Il premier in visita sabato 12 ottobre 

"La causa non fu l'incuria. La causa furono l'uomo, le sue colpe e le sue complicità". Le parole sono quelle pronunciate dal ministro Andrea Orlando alla vigilia di una ricorrenza tragica e gravida di dolore: è la strage  del Vajont, che 50 anni dopo continua a lacerare la memoria con i suoi 1.910 morti.  Orlando, intervenuto al Senato in occasione della commemorazione, ha definito quel che accadde alle 22.53 di quel 9 ottobre 1963 a Longarone, in provincia di Belluno, "un simbolo potente dell'Italia che abbiamo costruito, nel bene e in questo caso nel male". Da qui, la sollecitazione allo Stato che deve "chiedere scusa ai propri cittadini. Rispetto a 50 anni fa possiamo forse vantare una maggiore fiducia nella tecnica, non fosse altro per le regole di prudenza che accompagnano ora progressi e sperimentazioni. Non dobbiamo mai abbassare la guardia, ma a tenere alta la guardia sono spesso le popolazioni locali, le resistenze dei cittadini e delle comunità, che non si possono sempre liquidare come 'ambientalismo del no' oppure come 'localismo dei no'". "Il Vajont è sempre attuale perché richiama l'insieme delle questioni intorno alle grandi opere, specialmente in contesti naturali di una bellezza che il mondo ci invidia - spiega Orlando - con la questione delle grandi opere si tocca la questione critica del rapporto tra la tecnica e i suoi progressi e le esigenze di vita e di qualità della vita delle popolazioni". Nei territori "c'è una saggezza antica delle popolazioni, di chi ha esperienza e tradizione dei luoghi, che merita attenzione, fiducia e rispetto. Anche questo ci insegna la famiglia del Vajont", con "le famiglie di Erto che si opposero finché poterono alla costruzione della diga" e con "chi denunciò per tempo ciò che già si sapeva e si poteva evitare".L'aula di Montecitorio ha ricordato con un minuto di silenzio le vittime del Vajont. Ma prima del minuto di raccoglimento, la presidente Laura Boldrini ha voluto sottolineare che "il sentimento di dolore per quella tragedia è ancora vivo nella memoria di tutti gli italiani, compresi molti che quel giorno non erano nati". Secondo la presidente, si tratta "di una ferita ancora aperta" ed anche per questo "non dobbiamo limitarci al ricordo, ma impegnarci affinché le istituzioni si adoperino per mettere in campo azioni concrete in difesa e per la messa in sicurezza del suolo. E necessario per  evitare il ripetersi di tragedie simili".A dire che lo Stato deve inchinarsi dinanzi a questa strage, invece, è stato il presidente del Senato, Pietro Grasso: "Di fronte alla vita spezzata, al deserto di persone, paesi, territori che quel giorno furono schiacciati dal silenzio quasi surreale della devastazione, lo Stato deve inchinarsi, eppure non basta: lo stato deve anche scusarsi. Ma ancora una volta non è sufficiente: lo stato deve innanzitutto riparare. La popolazione colpita ha subìto non solo un danno irreparabile ma anche una vera e propria ingiustizia fatta di negazioni, opacità, tentennamenti e lentezze nel riconoscere i responsabili di quanto accaduto".Domani, aggiunge il presidente del Senato, "sarò in quella terra violata, colpita dal terrore e dalla devastazione", e "sarò lì per portare le scuse dello stato, per riparare".Il premier Enrico Letta ha telefonato al sindaco del paese devastato 50 anni fa, Roberto Padrin, e gli ha assicurato che sarà a Longarone sabato prossimo, 12 ottobre.

7.10.13

Orgosolo, addio al poeta simbolo della giustizia negata

facendo la rqccolta  differenziata  dela  carta  apprendo  solo  ora  (   la news  è  del  27\9\2013 )   ne  avevo parlato precedentemente  qui
antonio bassu  poeta simbolo della giustizia negata


la  nuova  del  28\9\2013

di Paolo Pillonca 

ORGOSOLO L'uomo-simbolo della giustizia negata non c'è più: Antonio Bassu è morto ieri a 91 anni nell'ospedale San Francesco di Nuoro dov'era ricoverato da qualche giorno per l'improvviso aggravarsi delle sue condizioni di salute. In questi ultimi mesi Bassu lavorava alla limatura delle sue memorie in versi. In quel poema doloroso non ci sono soltanto le sue vicende giudiziarie al limite dell'incredibile ma anche una serie di fantastici quadri del pianeta Orgosolo, dalla sua infanzia di servo pastore orfano di padre, il carcere, la libertà, fino al tempo scanzonato dei murales di Francesco Del Casino e Pasquale Buesca, per giungere a questi ultimi anni nostri, "la stagione della decadenza" (definizione sua). Nel maggio scorso, in un'intervista per La Nuova, gli chiesi: in che cosa consiste il degrado? Mi rispose con voce forte e sicura: "Nell'attenuarsi progressivo della solidarietà e nella comparsa di una malattia dello spirito: l'egoismo". Un tempo non era così, in quel di Orgosolo. Sa vidda, il paese natale, l'aveva saputo dal primo momento: Antonio Bassu era innocente e fin da allora la solidarietà comunitaria non gli mancò mai, rinnovellata in ogni occasione idonea. Il 28 agosto del 1950, giorno della strage di Monte Maore (quattro carabinieri uccisi in una rapina alla camionetta dell'Erlas che trasportava le paghe degli operai), lui era a Nuoro, monte Ortobene. Su consiglio del suo avvocato – il senatore democristiano orgolese Antonio Monni – Bassu nel frattempo si era costituito, sicuro di poter dimostrare la propria innocenza di fronte alla gravissima accusa. Una lunga schiera di testimoni più che affidabili –17 professionisti nuoresi – lo disse ai giudici della Corte d'Assise nel processo del 1953. Non furono creduti ma contro di loro non scattò, come sarebbe dovuto essere ovvio, l'accusa di falsa testimonianza. La scena si ripeté nel processo d'appello (il pm era sempre lo stesso: Francesco Coco, poi ucciso dalle Brigate Rosse l'8 giugno del 1976 a Genova) e su Antonio Bassu calò la mannaia del "fine pena mai": ergastolo. Un quarto di secolo della sua vita – 25 anni meno 25 giorni – gli venne rubato senza motivo, né prove né indizi. Ma Antonio Bassu veniva dal cuore della "zona delinquente" e già questo, allora, costituiva una prova. Il pellegrinaggio attraverso vari penitenziari della penisola è raccontato nel poema inedito. Il culmine dell'emozione finale è in un'ottava dedicata al momento della liberazione: "E pro s'ùrtima vorta torro in cella/ cun sa divisa de su galeoto./ In presse mi preparo su fagoto,/ mi retiro sa cosa pius bella:/ dae su muru ch'ispico una foto/ chi fut lughente comente e istella,/ sa chi m'at fatu semper cumpanzia,/ sa figura fut sa de mama mia" (Per l'ultima volta rientro in cella/ con la divisa del galeotto./ Mi preparo in fretta il fagotto,/ ritirando la cosa più bella:/ da una parete stacco una foto/ luminosa come una stella/ che mi aveva sempre fatto compagnia:/ il ritratto di mia madre). Il ritorno in paese fu un trionfo e l'isola intera venne coinvolta nel clima di festa. La mamma dell'ergastolano graziato commentò: "Adesso che sei tornato tu, in casa è ricomparsa l'allegria: quando morirò andrò via contenta". L'antica fidanzata Grazia Ungredda, che gli aveva dato una figlia, Mara, potè finalmente sposarlo. Da ieri pomeriggio Antonio riposa nel cimitero del paese natale. Il suo sarà un sepolcro speciale, di profondo rimando simbolico. Meglio una terra senza pane che una terra senza giustizia.

seconda marea-tiziano sclavi gli anni del mare e della rabbia , intervista al duo secondamarea . \ rinascita del folk o canto del cigno un italia sempre più stanca e moribonda ?


ho  finito  di riascoltare per  la  3  volta  il  cd  Gli anni  del mare  e della  rabbia edito    con XL  di repubblica  di  questo mese  .
Incuriosito  da  come   la poesia  (  di Tiziano Sclavi  )  incontri la musica  (  il duo secondamarea  )   ho scritto   di  getto  questo  post-intervista 

Molto spesso, quando ci sono dei grandi eventi culturali collettivi, la stampa in generale ( eccetto forse quella specializzata ) fa 
da http://youtu.be/is36HOo5B0k
passare in primo piano il protagonista principale ed in secondo piano i co-protagonisti (se non addirittura si limita 

solo a citarli). Ebbene a me, questo andazzo non mi piace, in quanto anche i protagonisti secondari hanno un ruolo fondamentale per la riuscita del progetto . Quindi cari\e amici beccatevi questa intervista ai musicisti di Ballate della notte scura ora  Gli anni del mare e della rabbia

Esso  è  un bellissimo e coraggioso cd che rompe una ormai sempre più sterile ed evanescente e separazione tra le arti, fondono voci e ritmi di chitarre, tastiere, pianoforte, fisarmonica e batteria, e tirano fuori tutta la musicalità delle parole di Sclavi, nelle quali l’orrore quotidiano, più che da mostri, zombie e vampiri, è popolato dai fantasmi comuni e reali della solitudine e dello straniamento.

Il risultato sono queste struggenti e coinvolgenti ballate, che promettono di volare dritte dritte al cuore e di viaggiare con la mente . Questa è la sensazione che si ha (almeno per me è cosi ) ascoltando il cd in particolare ( almeno al primo ascolto ) “Il lungo addio”, come sto facendo mentre scrivo questo pezzo, vedrete, anzi, sentirete, quanto hanno ragione le recensioni che trovate qui sul  sito  della casa editrice  della versione precedente  
Ma ora, facciamoci raccontare dai Secondamarea qualcosa in più su tale progetto e non solo. 

Come è nata la scelta di mettere in musica le poesie di Tiziano Sclavi , un poeta/scrittore ancora in vita, visto che Il vostro affiatatissimo duo non è nuovo a questo genere di progetti. Infatti sempre lavorato a nodo stretto con la poesia. Avete messo in musica Dino Campana, Alda Merini, Erri De Luca, Giorgio Bassani, Edgar Allan Poe, Bukowski ....? 


Tiziano Sclavi ci ha da sempre accompagnato con i suoi fumetti e i suoi romanzi. La nostra vita è stata più felice, più anarchica e consapevole grazie a Tiziano. Abbiamo amato la sua opera e tante volte in passato, da ragazzini, ci è venuta la voglia di cantare le ballate e le filastrocche che contrappuntavano le storie di Dylan Dog. A 18 anni abbiamo messo in musica “…” tratta dall’albo “Il lungo addio”. L’abbiamo inviata alla Bonelli e dopo qualche giorno ci ha chiamato Sclavi in persona per complimentarsi. Da quel momento è nato tutto, soprattutto un’amicizia. 

Secondo voi che differenza c'è fra musica e poesia ?

Ogni forma artistica ha i propri codici, le proprie strutture interne, le proprie leggi. È entusiasmante quindi quando due forme artistiche differenti riescono a entrare in contatto, creando persino un nuovo medium. Quando musica e poesia si incontrano possono nascere delle belle canzoni. 

Quando decideste : << perché non facciamo un intero di disco con i testi di Tiziano? Allora gli telefonammo, lui si mostrò entusiasta all’idea. Ci spedì “Nel buio”, una raccolta di oltre cento testi di ballate, un vero e proprio canzoniere.>> ( da http://poesiabar.wordpress.com/2013/02/12/le-ballate-della-notte-scura-di-sclavi-e-secondamarea/ ) avete sofferto molto nello scegliere le poesie che poi sono confluite poi in “Ballate della notte scura"?

Al contrario, ci siamo divertiti molto! D’altronde siamo stati generosi: “Gli anni del mare e della rabbia”, il disco uscito con XL in questi giorni, contiene ben 20 canzoni. E ci sono già altri brani pronti per il prossimo album...


Come è nata l'idea del cd, in realtà si tratta di un sorta di ristampa del precedente (  foto  a  destra  )  più 4 canzoni , allegato alla rivista XL? 


“Ballate della notte scura” è stato pubblicato da un piccolo editore, con una tiratura limitata e una distribuzione lacunosa. È stata ben accetta quindi la proposta che ci ha fatto Repubblica di rieditare il cd per arrivare a un grosso pubblico. “Gli anni del mare e della rabbia” esce oggi in formato cd, senza libro allegato, come era l’idea originaria nostra e di Tiziano.



Adesso basta parlare solo del vostro ultimo lavoro parliamo un po' di voi 


vostre esperienze artistiche prima della formazione del duo?

Lavoriamo insieme da oltre dieci anni e siamo molto giovani. Parlare di un’esperienza artistica precedente ci sembra forse superfluo e soprattutto non molto interessante. 



È ancora valido quanto diceva  Robeto Leydi   in I SUCCESSI e GLI ERRORI DEL FOLK ITALIANO, DOPO I FURORI DELLA TARANTELLA?





è ancora valido quanto diceva http://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_Leydi in I SUCCESSI e GLI ERRORI DEL FOLK ITALIANO, DOPO I FURORI DELLA TARANTELLA
La stampa, 15 giugno 1979
Non c'è dubbio che uno degli elementi caratterizzanti della vita culturale italiana degli ultimi vent'anni (dalla fine degli Anni Cinquanta) sia stato il progressivo recupero di interesse per la cultura del mondo popolare. E ciò da molti punti di vista, da quello scientifico a quello consumistico. L'arco delle attenzioni che sono state e sono rivolte alle manifestazioni culturali delle classi popolari è molto ampio e va a confondersi quasi, da un lato, con la moda ecologica, mentre, dall'altro, si insinua nella più viva e avanzata ricerca storica. Dal folklore come ambigua realtà «ruspante» al folklore come apertura di nuovi orizzonti anche ideologici al dibattito culturale. Ma se la ricerca e lo studio vanno bene, con un'attività che, ovviamente, ha i suoi dislivelli di qualità ma produce risultati anche importanti e .spesso emozionanti (sullo sfondo di un accademismo da liceo classico finalmente in crisi), in quella fascia che volgarmente viene etichettata come folk, e riunisce molte iniziative sia evidentemente commerciali che ambiziosamente culturali, regna una notevole confusione. Il momento «eroico» degli Anni Sessanta, connotato anche vivacemente soprattutto dal lavoro del Nuovo Canzoniere Italiano e portato alla ribalta di un'attenzione di massa dallo «scandalo» di Bella ciao al Festival di Spoleto, nel 1964, è ormai definitivamente concluso. Fenomeno proprio di fasce giovanili, il folk revival offre ai ragazzi di oggi una memoria molto impallidita (o addirittura svanita) di quei suoi anni cosi lontani sul calendario sempre più veloce dello sviluppo generazionale. E al passato, in fondo, appartengono anche gli eventi e i personaggi del periodo successivo (del periodo, cioè, della prima metà degli Anni Settanta) che ha visto svolgersi il gioco di varie tendenze più o meno vicine o più o meno lontane: l'eredità radicalizzata in senso politico del Nuovo Canzoniere Italiano; lo sviluppo in senso di fedeltà musicale ai modi tradizionali di quella stessa esperienza; la proposta seducente, musicalmente vivissima (e commercialmente fortunata) della Nuova Compagnia di Canto Popolare; le ricerche di contaminazione e di «creatività» del Canzoniere del Lazio. Non è, certo, un elenco completo, ma credo che in questi quattro filoni si possa, emblematicamente, condensare il senso del lavoro del nostro folk revival in quel periodo di transizione. Lasciando perdere, com'è doveroso, i cascami e le avventure banalmente commerciali. Se questo è il «passato», se questo è dietro di noi (magari non tanto dietro di noi cinquantenni, ma certo dietro ai ventenni e ai trentenni), qual è il presente di questo lavoro sulla musica popolare che non appartiene all'ambito dell'impegno scientifico, ma non può esser messo fuori dal panorama degli interessi per il mondo popolare che animano tante fasce di pubblico oggi? Non so se è effetto dell'età (oggi si invecchia, culturalmente, assai velocemente), ma a me il panorama non appare per nulla promettente. Soprattutto non appare ricco di fermenti innovativi, come invece negli anni fra la fine del decennio del Cinquanta e i primi anni degli Anni Settanta. Che cosa ci offre, infatti, il menù? Cerchiamo di esplorarlo insieme. Il «napoletanismo» (lanciato dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare) un po' regge ancora, ma il «furor tarantellistico», distintivo del raduni giovanili di cinque o sei anni fa, a suon di tamburello, è giustamente in forte declino. La NCCP va ancora in giro, certo, e ha tuttora un suo pubblico, ma si tratta di un nobile monumento che va avanti sull'inerzia di una fortuna commerciale che, onestamente, è giusto sfruttare fino in fondo. Ma di nuovo e di vivo ha ben poco da dire. Questo straordinario «strumento» musicale, reso vivo da quell'uomo di genio che è Roberto De Simone, ripete la vecchia sonata. E lo stesso De Simone, del resto, ha trovato una più stimolante strada alla sua ricerca (che è, al tempo stesso, ricerca scientifica e ricerca di spettacolo) nelle realizzazioni teatrali quali La gatta Cenerentola, Mistero napolitano e Li zite 'n galera, un'opera buffa settecentesca che andrà in scena martedì 19 al Maggio Musicale Fiorentino. La bandiera del «napoletanismo» «creativo» è passata a un trasfuga della NCCP: Eugenio Bennato. E cioè a Musica Nova, il gruppo che tenta di saldare modalità popolaresche con ambizioni di creazione musicale urbana, attuale, magari tesa all'«avanguardia». A Bennato e ai suoi estimatori potrà apparire un giudizio grossolano (e un po' grossolano certo lo è, ma bisogna pur intendersi), ma a me la sua Musica Nova non sembra davvero una proposta più avanzata rispetto a quella buttata a suo tempo sul tavolo dal Canzoniere del Lazio. La bandiera (gloriosa e lacera, ma anche stinta per il passare di troppe stagioni e non soltanto per l'infuriare di tante battaglie) del Nuovo Canzoniere Italiano non raccoglie più le masse, né nella sua versione prepotentemente politica, né nella sua versione più mediatamente ideologica. Giovanna Marini offre sempre un saggio di gran temperamento teatrale ogni volta che torna sulla scena, ma il suo talkin' blues all'italiana non accende ormai più sorprese e il suo generoso inseguimento di risultati squisitamente musicali si fa sempre più distanziare da altre ricerche e altre prove, in campi non compromessi con la musica popolare. Caterina Bueno certo trasmette tuttora emozioni quando canta di cose toscane, ma la sua Toscana ci sembra pateticamente remota, datata a giorni perduti. Sandra Mantovani ha smesso di cantare, constatato l'esaurirsi delle motivazioni che, fin dalla fine degli Anni Cinquanta, fra i primissimi, l'avevano spinta a farsi cantante e a promuovere, con pochi altri, l'avvio di un movimento. Se, da un lato, il rifiuto ormai dominante per la canzone politica (non sarà riflusso, ma qualcosa del genere sarà) ha buttato ai margini il folk militante, dall'altro il massiccio arrivo di esperienze straniere, soprattutto francesi e inglesi, ha spinto gli eredi della «scuola del ricalco» (di quanti, cioè, ritenevano che bisognasse rispettare, nella riesecuzione dei canti e delle musiche popolari, i modelli stilistici della tradizione) verso la musica strumentale, più o meno «celtizzata», aspirando anche al coinvolgimento del gran ballo collettivo. Il fenomeno di questi gruppi (alcuni buoni, molti pessimi) è soprattutto vistoso in Piemonte, mentre altrove non sembra trovare sufficienti motivazioni. Ma quest'aria corre un po' dappertutto, nell'ansia di affiancare al «tarantellismo» il «monferrinismo», nell'intento di porre accanto alla riscoperta dei balli meridionali (ballati, per la verità, in modo molto ma molto approssimativo) la riproposta di quelli settentrionali. Un quadro poco allegro? A me pare. Ma forse, sotto sotto, qualcosa di vivo corre. Bisognerebbe distinguerlo. E parlarne ancora.

La musica, in particolare la forma canzone, si deve inevitabilmente nutrire di cultura popolare. Parlare di musica popolare significa parlare della nostra storia, delle nostre radici. Le nostre canzoni, pur spaziando liberamente nei generi e tendendo al cielo, sono intrise di terra e di acqua, sono fradice di elementi. Nei nostri canti c’è tutto il sole e il dramma della musica popolare e ne siamo orgogliosi. 

La rinascita anche se di breve durata fine 90/primi 2000 (materiale resistente, yo yo mundi e affini) e la standardizzazione (modena city ramblers) del folk è sintomo di questa crisi o l'atto finale ?

Siamo davvero all’atto finale. A questo punto auspichiamo un nuovo rinascimento (musicale). Noi lo stiamo portando avanti con tenacia.



Viste le vostre potenzialità , vi fermerete solo a dischi poetici e del canzoniere popolare, o andrete alla ricerca di nuove sonorità e tematiche , magari allargando come avete fatto con il vostro ultimo cd ad altri elementi? 


Siamo sempre alla ricerca, ci sono già molti altri progetti in cantiere. Ci piacciono l’espansione, la novità, la contaminazione. Aspettatevi grandi sorprese dai Secondamarea! 







The Oldest Tattooing Family in the World \ 5 g L'antica tradizione di tatuaggio della famiglia Razzouk

Wasim Razzouk is a tattoo artist in Jerusalem’s Old City. Ink runs deep in his family. The Razzouks have been tattooing visitors to the Hol...