28.1.14

la guerra vista dagli indiani . gli indiani raccontano la famosa battaglia di little bing

da  la   domenica   di repubblica del 26.1.2014

N,b 
Raccolti in A Lakota War Book
from The Little Bighorn 
(Peabody Museum Press) 
i disegni qui pubblicati
sono stati ritrovati nella tomba 
di un capo indiano sepolto
a Little Bighorn . 
E qui  gli ho   riportati tramite  il cattura immagine  \ Png      se  ai puristi non dovesse piacere come gli ho riportasti    può andare  all'articolo  originale dell'inserto 



Battaglie, libere cavalcate e battute di caccia. Riemergono dopo quasi un secolo di oblio  
le imprese dei nativi americani negli anni di Little Bighorn 
Stavolta non raccontate dalla propaganda dei film americani 
ma disegnate su taccuini rubati ai “visi pallidi” da guerrieri Sioux e Cheyenne

SIEGMUND GINZBERG

Il giornalista ci ricamò  una storia. Mischiò notizie  vere ad altre di sua invenzione. Scrisse che  l’album era stato rinvenuto  in una sepoltura indiana
a Little Bighorn, il sito della battaglia  in cui i Sioux avevano annientato Custer  e il suo Settimo Cavalleggeri. Ed era  vero. Che i disegni erano stati eseguiti sulle pagine di un libro mastro sottratto a un viaggiatore bianco ucciso su uno dei più famosi sentieri per il West, il Bozeman trail. Ed era vero. Che la serie di settantasette disegni rappresentava le
gesta, era l’autobiografia, di un capo di nome Mezza Luna. Era solo verosimile.
Ledger books vengono chiamati gli  album disegnati dagli “indiani” di metà Ottocento sulle pagine già  usate di quaderni e registri contabili (ledger appunto), o addirittura sui
fogli dei ruolini dell’esercito  Usa, spesso sovrapponendoli a quanto vi potesse  già essere scritto. Il “supporto” artistico era preda di guerra,  e ciò ne aumentava enormemente  il valore agli occhi dei possessori. 
Esattamente come per gli indiani delle  praterie i cavalli sottratti ai bianchi, o meglio ancora acquisiti in combattimento, valevano molto più di quelli domati da un branco selvaggio. Era una  questione di status, anzi di logo, di marca, verrebbe da dire. Al punto che, in  mancanza di prede con marchi autentici,i giovani guerrieri solevano dipingere il marchio “US Army” sui propri cavalli.
È il western per una volta raccontato dagli invasi (i nativi) e non dagli invasori (i coloni europei difesi dall’esercito),la guerra raccontata dagli sconfitti e non dai vincitori. Dipingere o farsi dipingere le proprie imprese di guerra e i propri fatti di coraggio, su quaderni e registri sottratti ai bianchi, non era  solo un must, lo status symbol per eccellenza. Era anche possesso  di un oggetto magico,propiziatorio.


Anche se a un certo punto  divenne scomodo, perché gli album  cominciarono a essere usati nei processi come prova di partecipazione a banda armata.
Tra i molti album del genere che si sono conservati,questo le cui immagini qui pubblichiamo è ancora più speciale.
Perché non è opera di un unico autore. È uno scambio di cortesie cerimoniali a più mani. Gli 
artisti, Sioux e Cheyenne, che raccontano le proprie imprese o quelle dei propri amici, in questa raccolta sono almeno sei. E uno di loro potrebbe essere niente meno che il leggendario capo guerriero Nuvola Rossa. Così almeno sostiene l’antropologo Castle McLaughlin  nel suo dotto commento alla riproduzione a stampa dell’album, col titolo A Lakota War Book from The Little Bighorn pubblicato dalla Peabody Museum Press e dalla Houghton Library dell’Università di Harvard che ne detiene l’originale. Il sottotitolo: The Pictographic“Autobiography of Half Moon”,si riferisce al titolo che alla raccolta era stato dato da un reporter del Chicago Tribune, inviato (oggi si direbbe embedded)
al seguito delle truppe dell’esercito impegnate contro le tribù di indiani, che l’aveva fatta rilegare elegantemente,aggiungendovi una sua introduzione in bella calligrafia. Phocion
Howard - questo lo pseudonimo con cui il giornalista firmava dal fronte - sosteneva di aver avuto i disegni da un sergente del Secondo Cavalleria, uno dei reparti arrivati sul campo della battaglia di Little Bighorn in soccorso di Custer quando ormai il generale e il suo reparto erano stati annientati, il 28 giugno 1876. Il quaderno da contabile a righine
con le pagine dipinte faceva parte del corredo funerario di un capo indiano,rimasto ucciso probabilmente in un altro scontro, di appena qualche giorno prima.
Era frequente che i soldati blu recuperassero come souvenir dai cadaveri e dai monumenti funerari degli indiani uccisi album di disegni tipo questo.
Talvolta venivano venduti ai turisti, altre volte considerati carta straccia con scarabocchi. Questo si salvò, anzi fu curato con un eccesso di attenzioni.
Howard lo fece smembrare e ricomporre in modo che sembrasse un’unica narrazione autobiografica.
E si inventò un personaggio  
inesistente. Per sbaglio, perché aveva equivocato come nome proprio un simbolo di mezza luna su uno dei dipinti. 
Oppure perché riteneva che potesse interessare maggiormente se rispondeva ai gusti di una narrazione all’europea.
Oppure forse perché sperava
che potesse riscuotere un successo di pubblico simile a quello di un’altra “biografia per immagini” che fece furore sulla stampa americana proprio nei giorni successivi allo shock per la fine di Custer e dei suoi soldati: quella di Toro Seduto. Era stato il New York Herald a
pubblicare il 9 luglio 1876, giusto pochi giorni dopo Little Bighorn, alcuni dei disegni di «fatti di sangue, crudeltà, ruberie, disumanità,barbarie» tratti dall'autobiografia disegnata di suo pugno del gran capo Sioux. Era un modo per incitare all’odio nei confronti dei “pellerossa” e a farla finita una volta per tutte con quei “selvaggi”, responsabili di tali atrocità. E in effetti l’essersi poi arreso,anzi integrato fino al punto di esibirsi nel circo
di Buffalo Bill, non aveva evitato al vecchio e moderato Toro Seduto di fare la fine di Osama bin Laden. Esattamente come finì ammazzato,quando si era già consegnato,l’irriducibile “testa calda” Cavalo Pazzo.Non a caso era stato lo stesso giornale a condurre una campagna contro la “politica di pace” di Washington nei confronti dei “ribelli”, denunciando —con l’aiuto di Custer, che quasi ci rimise la carriera per l’indiscrezione — lo scandalo di un traffico di licenze sulle riserve indiane in cui era implicato lo stesso fratello del presidente Grant.
L’album, il ledger book di Howard,aveva invece il difetto di evocare al pubblicopiù l’eroismo romantico dell’Ultimo mohicano di Fenimore Cooper che l’orrore per la barbarie del selvaggio.

Illustra le imprese compiute negli  anni delle “guerre di Nuvola Rossa”, nel  corso del decennio precedente i fatti di  Little Bighorn. Fatti militari, certo, ma  anche imprese di caccia, dove l’elemento  principale non è affatto la crudeltà  o la truculenza ma il coraggio. Scorre sangue, vengono uccisi soldati e ufficiali in divisa, anche civili e donne, e soprattutto altri indiani: le odiate guide  Shoshone che accompagnavano la cavalleria  Usa, o membri di tribù avversarie  dei Sioux. Ma l’accento è immancabilmente  sul coraggio, sul cavalcare in  mezzo a nugoli di frecce e proiettili, sul
rubare sotto il fuoco i cavalli e i muli dell’esercito, sull'aiutare i compagni che hanno perso la cavalcatura, sulla pratica del “contare i colpi” sul nemico, semplicemente toccandolo, mentre è ancora vivo o impugna un’arma, con la punta della lancia o dell’arco. Per questi cavalieri della prateria la guerra è un gioco, un rito, una questione di faccia e di onore, un po’ come i romanzi europei ci avevano fatto immaginare dovesse  esserlo per i cavalieri erranti del medioevo.  C’è anche una storia d’amore,
di rapimento della donzella da parte  dell’innamorato, ma solo in un disegno  su settantasette. Ma non è neppure solo un romanzo,  una graphic novel. Il curatore insiste
con dovizia di argomenti, attenzione meticolosa ai particolari (dalle armi al  vestiario, alle finiture dei cavalli e ai colori di guerra) a trattarlo come un eccezionale documento storico, legato a  fatti e protagonisti storici. Eppure nel  suo secolo ebbe notorietà brevissima. Passò di mano in mano prima di arrivare nel 1930 alla biblioteca dell’Università di Harvard. E lì fu dimenticato per  quasi un secolo. Malgrado l’America
avesse nel frattempo riscoperto una nostalgia struggente per la civiltà sottoposta a sterminio etnico dei suoi cavalieri della prateria.


                                L’alfabeto delle grandi pianure                                                               VITTORIO ZUCCONI                                              

In principio era l’immagine. Non erano la parola, il verbo, ma le immagini che accendevano l’universo materiale e spirituale dei popoli delle grandi pianure, che segnavano la loro identità di Piccole Lune, Grandi Alci, Cavalli Pazzi, Volpe Macchiata, che marcavano il tempo e il gelo degli inverni, che ricordavano ai bambini gli eventi straordinari, come “la notte in cui cadde il cielo”, quando centinaia di meteoriti illuminarono il buio della prateria nel 1870. E, naturalmente,le guerre.
Per la nazione che noi chiamiamo, da una storpiatura francofona, Sioux, per i Lakota, come loro si chiamano, per i loro alleati Cheyenne e Arapaho, il 25 giugno del 1876 fu una sequenza di immagini, da narrare per generazioni sulle pelli di bisonte e di daino e da leggere come ai nostri scolari si leggono le imprese di Giulio Cesare o le Guerre d’Indipendenza. Quando i primi distaccamenti del Settimo Cavalleria attaccarono il grande campo estivo nel territorio del Montana, scatenando due giorni di massacri per proteggere dallo sterminio i cinquemila fra bambini,vecchi e donne raccolti là, non c’erano storici con papiri e tavolette di cera per registrare l’ultima vittoria del popolo della prateria e lo sterminio della colonna del colonnello George Armstrong Custer. C’erano uomini, stranamente sempre e soltanto uomini, incaricati d’imprimersi nella memoria quello che avrebbero poi trascritto nei pittogrammi sulle pelli e sulla carta.L’alfabeto dei nativi del Nord America, che non avevano lingua scritta, era quello. In attesa di traslitterare nei caratteri latini degli invasori le loro parole, l’immagine era la storia, il video,la sequenza, a volte lineare, altre volte chiusa nei cerchi concentrici dei calendari, per dare il senso del tempo come nei tronchi d’albero. Segnalavano le rotte, i percorsi, le transumanze dei bisonti, graffiati in permanenza sulle rocce. Avvertivano dei pericoli, di possibili agguati dei “dragoni” in blu, dipinti su pelli fermate da sassi, che gli altri Lakota — ma non i bianchi — sapevano leggere e interpretare, misurando l’imminenza del rischio dalla freschezza delle pelli e dei segni. Non c’è neppure bisogno di essere un Lakota, un Oglala, un Cheyenne per capire la potenza immemore delle immagini. Sulle rive del contorto Little Bighorn, oltre le fila di lapidi bianche che segnalano le tombe dei 263 soldati condotti alla morte da Custer (ma non la sua, che è all'Accademia di West Point), c’è una fossa di terra, come una trincea improvvisata. Fu in quella buca, scavata nella terra soffice dell’estate, che il distaccamento di rinforzo del colonnello Reno, prudentemente rimasto indietro, resistette per due giorni alla furia degli indiani. Sui bordi della buca, nel lato rivolto verso il fiume del sangue, ancora oggi, un secolo e mezzo più tardi, si vedono bene le fossette scavate dai soldati per usarle come cavalletti naturali, per poggiare le loro carabine e mirare meglio, risparmiando le scarse munizioni. Neppure l’erba, che nel gelo del grande nord cresce avara, le ha nascoste. Guardandole, si sentono gli spari, le grida dei feriti,gli ordini, le urla terrorizzanti — e terrorizzate — dei guerrieri lanciati sulla collina. Perché avevano ragione loro, i figli delle grandi pianure. Sono le immagini che ci sanno parlare più forte delle parole.

un altro musicista se ne va Pete Seeger ( 1920-2014)

 e'  morto all'età di 94   il cantore  dei diritti  civili  e  dell'ambiente   Pete  Seeger (   se  non vi dovesse bastare  l'articolo sotto    eccovi  maggiori dettagli  http://it.wikipedia.org/wiki/Pete_Seeger  )  e  sotto  una sua  recente  foto   tratta   da  quest'articolo  da  repubblica  d'oggi


NEW YORK - Pete Seeger, l'autore di "Turn, turn, turn" e "If i had a hammer" è morto all'età di 94 anni. Il cantautore americano, assieme a Woody Guthrie uno dei maggiori esponenti del folk americano, è deceduto in un ospedale di New York dopo una breve malattia. 
Attivista politico, sostenitore dell'area più radicale della sinistra americana, era uno dei massimi autori della canzone di protesta degli anni Cinquanta e Sessanta. Dopo aver conquistato la fama assieme al gruppo The Weavers, fondato nel 1948, continuò come solista nel corso di una carriera lunga sei decenni. Ecologista, fu anche un paladino inarrestabile di tante battaglie in difesa dell'ambiente.
Pete (vero nome Peter) Seeger era nato a New York il 3 maggio del 1919, figlio del musicologo Charles Seeger, uno dei primi ricercatori nel campo della musica orientale. Cresciuto in una famiglia di artisti (anche i suoi fratelli Mike e Peggy erano musicisti e cantanti), nella seconda metà degli anni Trenta lascia l'università (aveva iniziato a studiare a Harvard) e inizia a suonare in maniera professionale abbracciando la strada del folk singer, influenzato sopratutto dal pioniere della riscoperta del blues e della musica popolare americana, Alan Lomax. Ma soprattutto, alla fine degli anni Trenta, incontra Woody Guthrie, con il quale intraprende un lungo viaggio attraverso l'America e durante il quale si confronta con l'anima più popolare della musica americana. 
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Seeger partecipa alla nascita di un'organizzazione chiamata People's Song Inc. (PSI), nata con lo scopo di diffondere le canzoni dei propri associati. Per trovare fondi, il PSI organizza spettacoli folk chiamati "hootenanny", che diventano poi molto celebri nei primi anni 60, in coincidenza con il grande revival del folk. La costante attività politica e la sua dichiarata fede comunista causano a Seeger numerosi problemi nell'epoca del maccartismo (viene anche condannato a un anno di prigione, ma trascorre solo pochi giorni in galera) senza peraltro frenarne l'attività. 
Il successo arriva con il debutto dei Weavers, nel 1949, che diventano un elemento decisivo per il fenomeno del folk revival. Le sue canzoni si trasfromano in autentici inni pacifisti, spesso ripresi da altri artisti: a parte "We shall overcome", la vera colonna sonora delle marce per la pace per tutti gli anni 60, vanno ricordate "Where have all the flowers gone?", portata al successo nel 1962 dal Kingston Trio, e "Turn turn turn", che alla fine del 1965 trascina i Byrds ai primi posti delle classifiche. Rimane celebre il suo attacco al presidente Lyndon Johnson e alla sua politica militare durante il programma tv "Smothers Brothers Show" dove Seeger canta anche quella che è una delle prime canzoni contro la guerra nel Vietnam, “Waist deep in the big muddy“ ("Giù fino al collo nel grande pantano"). 
Le canzoni e l'impegno di Seeger hanno esercitato una grande influenza su molti artisti, da Bob Dylan e Joan Baez fina Bruce Springsteen. Proprio il Boss, nel 2006, ha inciso l'album "We shall overcome. The Seeger sessions", interamente dedicato alle canzoni del grande folksinger. Nel 1996, Seeger era stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame, mentre nel 1997 si era aggiudicato un Grammy. Nel 2009, in occasione del suo novantesimo compleanno, il Madison Square Garden ospitò un grande concerto in suo onore cui presero parte, tra gli altri, Eddie Vedder, Dave Matthews, Ani DiFranco e Bruce Springsteen. Sempre nel 2009, Seeger partecipò al Lincoln Memorial Obama Inaugural Celebration Concert, ancora una volta insieme a Bruce Springsteen





scometto  che sui  giornali  embed   gli faranno due  righe  , scommetto che   se  muore   qualche  cantante   neo melodico    e polpettone  \  melenso  italiano ( ogni riferimento  a  persone realmente  esistenti  :_-)  è puramente  casuale  ed  involontario  )   gli faranno pagine su  pagine e speciali su speciali  
 io  voglio ricordarlo con  l due pezzi celebri  





al prossimo necrologio


Diagnosi preimpianto La contestata legge 40 torna alla Consulta Il tribunale di Roma solleva la questione di costituzionalità Il caso di una donna portatrice sana di distrofia muscolare

  ci sarà da  ridere  se  dovesse risultare incostituzionale  e magari  casi simili  non ripetono 



Gia'  se  ne parlava  ieri su repubblica  




Procreazione assistita, legge 40 alla Consulta
anche per il divieto per le coppie fertili
Il tribunale di Roma ha sollevato la questione di costituzionalità sul ricorso di una coppia in cui la donna, pur portatrice sana di distrofia muscolare di Becker, si era vista negare l'accesso sia alla Pma che alla diagnosi preimpianto. I giudici: "Il diritto ad avere un figlio sano è inviolabile e costituzionalmente tutelato"




ROMA - Torna davanti alla Consulta la legge 40 sulla procreazione assistita. Il tribunale di Roma ha sollevato la questione di costituzionalità sul divieto per le coppie fertili di accedere alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto, anche se portatrici di malattie trasmissibili geneticamente.



E' la prima volta che questa specifica questione arriva alla Consulta. In passato se ne era occupata invece la Corte europea di Strasburgo che nel 2012 aveva condannato l'Italia per violazione di due norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. E aveva sottolineato l'"incoerenza" del nostro sistema che da un lato vieta alla coppia fertile ma portatrice di una malattia geneticamente trasmissibile di ricorrere alla diagnosi preimpianto, e dall'altro, con la legge 194 sull'aborto, le permette l'aborto terapeutico nel caso il feto sia affetto dalla stessa patologia.
Alla prima sezione civile del tribunale di Roma, che ha sollevato la questione, si era rivolta una donna, portatrice sana di distrofia muscolare Becker (malattia genetica ereditata dal padre) e il marito, che si erano visti negare dal Centro per la tutela della Salute della donna e del bambino "Sant'Anna" sia l'accesso alla procreazione assistita, sia la diagnosi preimpianto, sulla base del presupposto che il divieto non è stato cancellato dalla legge.
L'ordinanza del tribunale riconosce il diritto della coppia ad "avere un figlio sano" e afferma che il diritto di autodeterminazione nelle scelte procreative è "inviolabile" e "costituzionalmente tutelato". "Il diritto alla procreazione - si legge nell'ordinanza - sarebbe irrimediabilmente leso dalla limitazione del ricorso alle tecniche di procreazione assistita da parte di coppie che, pur non sterili o infertili, rischiano però concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili, di cui sono portatori. Il limite rappresenta un'ingerenza indebita nella vita di coppia".
L'accesso per le coppie fertili alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto, anche se portatrici di malattie trasmissibili geneticamente, sottolinea Filomena Gallo, legale, insieme ad Angelo Calandrini, della coppia che ha promosso il ricorso, è "l'ultimo divieto, che arriva ora all'esame della Consulta, ancora contenuto nella legge 40 sulla procreazione assistita". "Se la sentenza della Consulta sarà favorevole - rileva Gallo, segretario dell'associazione Luca Coscioni - la legge 40 sarà stata definitivamente cancellata. Confidiamo nei giudici della Corte, visto che il Parlamento è incapace di legiferare nel rispetto dei diritti di tutti i cittadini".
 

  se   ne ha  ulteriore  conferma oggi su la  nuova sardegna  


ROMA Nuovo dubbio di costituzionalità sulla legge 40. Torna, infatti, davanti alla Consulta la normativa sulla procreazione medicalmente assistita dopo che il tribunale di Roma ha sollevato la questione di costituzionalità sul divieto per le coppie fertili di accedere alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto, anche se portatrici di malattie trasmissibili geneticamente. È la prima volta che questa specifica questione arriva alla Consulta. In passato se ne era occupata invece la Corte europea di Strasburgo che nel 2012 aveva condannato l’Italia per violazione di due norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Alla prima sezione civile del tribunale di Roma, che ha sollevato la questione, si è rivolta una donna, portatrice sana di distrofia muscolare Becker e il marito, che si erano visti negare dal Centro per la tutela della Salute della donna e del bambino «Sant’Anna» sia l’accesso alla procreazione assistita, sia la diagnosi preimpianto, sulla base del presupposto che il divieto non è stato cancellato dalla legge. Chiare le motivazioni del tribunale di Roma: il diritto della coppia ad «avere un figlio sano» e il diritto di autodeterminazione nelle scelte procreative sono «inviolabili» e «costituzionalmente tutelati», si legge in uno dei passaggi dell’ordinanza con la quale la prima sezione civile ha sollevato la questione di costituzionalità. Proprio l’accesso per le coppie fertili alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto è «l’ultimo divieto, che arriva ora all’esame della Consulta, ancora contenuto nella legge 40», spiega Filomena Gallo, legale, insieme ad Angelo Calandrini, della coppia che ha promosso il ricorso. All’indomani della decisione della Consulta, «se favorevole - rileva Gallo, segretario dell’Associazione Coscioni - la legge 40 sarà stata definitivamente cancellata». Ora, commenta, «confidiamo nei giudici della Corte, visto che il Parlamento è incapace di legiferare nel rispetto dei diritti di tutti i cittadini». Quanto ai tempi, «speriamo che i termini tecnici ci facciano rientrare nell’udienza dell’8 aprile». Questa decisione del tribunale di Roma, chiarisce Gallo, «non solo va a confermare le summenzionate decisioni evidenziando anche il contrasto della legge 40 con la Carta costituzionale» ma, «se l’8 aprile la Consulta dovrà pronunciarsi sui dubbi di legittimità costituzionale sul divieto di eterologa e sul divieto delle donazioni degli embrioni alla ricerca, ora dovrà calendarizzare anche una udienza per questo ulteriore dubbio di legittimità costituzionale che, rispetto alle decisioni del tribunale di Salerno e della Cedu, avrebbe portata generale, ovvero estendibile a tutte le coppie». Per Gallo sarebbe «come chiudere un cerchio: l’intera legge 40 è costituzionalmente dubbia»

Wilhelm Brasse, fotografo di Auschwitz, cheper lo shock non riuscì più a fare il suo lavoro

 concludo i miei post     sulla  giornata del 27    con questa  storia   , che     vale   per tutti\e  quelle persone  che  hanno  vissuto  orrori simili  di  ideologia malate   ed astruse  
da  http://en.wikipedia.org/wiki/Wilhelm_Brasse
La  storia   che riporto  è quella  del fotografo polacco, deportato ad Auschwitz, a documentare l'orrore nazista,Il suo nome era Wilhelm Brasse foto a sinistra  )  ed era nato nel 1917 a Zywiec. Lo avevano internato perché aveva rifiutato di arruolarsi nell'esercito tedesco. Era destinato alle camere a gas, ma la sua abilità di fotografo lo salvò. I nazisti gli affidarono l'ufficio identificativo e ritrasse migliaia di prigionieri. Fotografò anche esecuzioni, cataste di morti, e soprattutto i risultati degli esperimenti medici di Josef Mengele e Paul Kremer. Rischiò la vita ogni giorno per nascondere parte di quel terribile materiale e portarlo all'esterno, perché il mondo «doveva sapere».
Ebbene l'eccezionale   storia di un uomo temerario, scomparso ultranovantenne nel 2012, ora è un libro. Luca Crippa e Maurizio Onnis, scrittori e consulenti editoriali, hanno ricostruito l'esistenza de“Il fotografo di Auschwitz” (Piemme, 278 pp.14,90 euro).

da  l'unione sarda del  27.1.2014  


Chi era Brasse quando fu deportato?
«Un giovane pieno di vita avviato a una professione rara: era un artista della fotografia. Finì ad Auschwitz e divenne uno dei massimi testimoni dei misfatti del nazismo».
Come avete ricostruito la sua vita?
«Abbiamo incontrato i figli, un medico e una casalinga. Ci hanno confermato molte notizie e fornito documenti inediti. Abbiamo poi lavorato su due importanti interviste nelle quali racconta episodi che non ha mai dimenticato, e sono la trama del nostro libro».
I più interessanti?
«Gli incontri con molti prigionieri, ma anche con kapò e ufficiali delle SS. Svolgeva il suo lavoro con occhio sensibile anche quando documentava gli esperimenti medici».
Materiale scioccante?
«Brasse raccontava in lacrime: quei ricordi lo hanno lacerato. Gran parte delle foto sull'Olocausto, custodite ad Auschwitz e Gerusalemme, le ha scattate lui. Lavorò per la resistenza polacca. Ma la sua azione più importante è stata salvare le fotografie».
Una volta libero?
«Cambiò mestiere e fece il salumiere. Non riuscì più a fotografare»
Francesco Mannoni

27.1.14

Verba volant / Memoria di Luca Billi 27 gennaio 2014


Memoria, sost. f.

Secondo la mitologia greca Mnemosine era la dea della memoria. Si tratta di una divinità molto antica, nata prima di Zeus e degli dei olimpii. Esiodo infatti racconta che era figlia di Urano, il Cielo, e di Gea, la Terra, e quindi sorella diCrono, il padre di Zeus, e dei Titani. Sempre l’autore della Teogonia racconta che Mnemosine – che nella lotta tra gli dei e i Titani si era schierata con i primi – venne amata da Zeus, che le apparve sotto forma di pastore. Da quelle nove notti d’amore sui monti della Pieria nacquero le nove Muse.
Diodoro Siculo, nel libro V della Bibliotheca historica, spiega che Mnemosine aveva scoperto il potere della memoria e che lei stessa aveva assegnato i nomia molti oggetti e alle cose astratte che servono agli uomini per capirisi durante le conversazioni. Per questo, in qualche modo, Mnemosine è anche la dea di questo dizionario.
Mnemosine esercita un potere arbitrario quando assegna i nomi alle cose e infatti la memoria è qualcosa di fondamentalmente arbitrario.
Parlate con uno dei vostri vecchi di casa e vi accorgerete che spesso non sono in grado di ricordare cosa hanno fatto pochi giorni fa, ma vi sanno descrivere – con un’incredibile dovizia di particolari – un episodio capitato cinquant’anni fa; naturalmente non avete nessuna possibilità di verificare quei particolari e non potete far altro che confidare della memoria di chi ve li ha raccontati.
Fondamentalmente è per questa stessa ragione che le memorie sono il genere storiografico più infido e carico di menzogne. Chi scrive a volte mente intenzionalmente, anche se per lo più lo fa inconsciamente: è davvero convinto che le cose siano andate proprio come le lui le ricorda, anche se non è vero.
Io sono uno che cerca di esercitare il più possibile la memoria, ovunque ne ho l’occasione e specialmente attraverso il mio blog e i miei post sui social network, ma anche la mia memoria è deliberatamente e dichiaratamente arbitraria. Ricordo a me stesso e a chi mi legge quello che penso sia importante ricordare e che ritengo ingiustamente dimenticato. Per questo motivo non manco di ricordare le stragi di piazza Fontana e della stazione di Bologna, non perdo gli anniversari della morte di Antonio Gramsci e di Giacomo Matteotti, ricordo lacaduta del muro di Berlino e la fine dell’apartheid in Sudafrica. E molto altro – come avete spesso la pazienza di vedere.
L’importante è essere consapevoli che si tratta di scelte, in questo caso le mie scelte, perché questa è appunto la mia memoria.
Ad esempio, l’11 settembre la memoria mainstrem ricorda l’attentato alle Twin towers; io sono uno di quelli che ricorda invece il golpe americano in Cile e l’uccisione di Salvador Allende. Ci sono memorie più o meno importanti ? Per me sì e mi assumo il rischio di fare queste scelte. Ciascuno di noi lo fa, nella sua vita privata come in quella pubblica. Ciascuno di noi ricorda gli episodi della sua vita che vuole ricordare, magari migliorandoli e trasformandoli un po’, e ne dimentica altri.
Anche per questo io diffido come la peste da chi parla di memoria condivisa. La memoria condivisa è una menzogna: è solo il modo per chi è al potere di imporre agli altri la propria memoria. E per annebbiare – o annullare del tutto – le altre memorie. Infatti è importante dire che la memoria è sempre plurale.
Oggi è il Giorno della Memoria: è un giorno importante, di quelli cheapparentemente ricordiamo quasi tutti, vincitori e vinti, qualunque sia la nostra convinzione etica e politica. Non è assolutamente mia intenzione “rovinare” la festa, penso siano importanti tutte le manifestazioni, anche quelle fatte soltanto per obbligo istituzionale, credo sia importanti tutte le parole dette oggi, anche quelle dette senza convinzione e solo per puro esercizio retorico.


La memoria infatti è sempre più forte di noi, dei nostri tentativi di manipolarla e di usarla. La memoria è una dea, molto antica, più antica degli altri dei, di quelli che tengono il potere e di quelli che presiedono alle altre arti. E quindi si può far beffe di questi piccoli maneggi dei mortali.

26.1.14

adesso anche i cinesi aggiustano tutto a quando gli italiani ?



dall'unione sarda del  26.1.2014





La scommessa di una piccola azienda pronta a lanciare il nuovo prodotto in ItaliaLa rivoluzione del pecorinoIl formaggio senza lattosio per chi ha intolleranze alimentari

OSILO Una pecora da adottare, la ricotta tutto l'anno e il primo pecorino di Osilo senza lattosio. La crisi si evita giocando d'anticipo sul mercato. Con idee e coraggio. L'allevamento ovino ha tradizione plurisecolare nella famiglia Pulinas, ma l'attività di produzione del pecorino di Osilo (o meglio prodotto a Osilo, visto che si attende ancora la denominazione IGP o DOP) si era interrotta tra il 1997 e il 2004 a causa del costo del latte. E l'azienda Truvunittu era finita fuori dal mercato dei formaggi.Ma ha saputo rientrarci prepotentemente. «Abbiamo ripreso nel 2005 con nuove e diverse forme di promozione e produzione», spiega Gavino Pulinas  ( foto sotto al centro preda  insieme all'articolo dall'unione sarda del 26.1.2014  ) , che conduce insieme ai figli Giuliano e Daniele l'azienda agricola, a metà strada tra Sassari e Osilo.



Con la consulenza della figlia Giulia, neo laureata in Veterinaria che sta seguendo la specializzazione in Igiene degli Alimenti. Quattro lavoratori per una piccola aziende a conduzione familiare con un fatturato annuo di 110mila euro. «La prima scelta è stata quella di avere un gregge meno numeroso, da 550 a 400 pecore, sempre di razza sarda selezionata, per poter sfruttare un pascolo naturale di quasi quaranta ettari. Poi siamo riusciti a spostare il parto delle pecore, in avanti e indietro nel tempo, in modo da avere latte e formaggio di qualità per tutto l'anno. Riusciamo a produrre la ricotta artigianale già a settembre».Sul piano della commercializzazione, niente intermediari, ma solo vendita diretta e promozione: metà della produzione in Sardegna, metà in Italia. Nel 2009 è stata proposta con successo l'iniziativa “adotta una pecora a distanza” che consente di ricevere in cambio formaggio e ricotta versando una quota annuale per coprire parte delle spese di mantenimento. «Abbiamo anche un punto vendita estivo a Portobello di Gallura che è servito ulteriormente per farci conoscere fuori dalla Sardegna». Risultato: dei 120 quintali di pecorino di Osilo (tre prodotti: fresco da gustare arrosto, semistagionato e stagionato) la metà soddisfano il mercato di Sassari, Alghero e Castelsardo, l'altra metà viene venduto in Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte. «Il prodotto artigianale, lavorato a latte crudo garantisce un sapore migliore e che non stanca mai. A Nord preferiscono in genere il pecorino fresco o semistagionato, perché sono abituati al formaggio dolce vaccino. Invece in Puglia hanno palati in grado di apprezzare anche il nostro pecorino stagionato».Ma il vero boom è per la ricotta: «Ne vendiamo circa 100 quintali ma siamo in difficoltà a soddisfare la domanda. A Sassari abbiamo il 90% di prenotazioni, addirittura per la ricotta “mustia” abbiamo prenotazioni sin da novembre». Una specialità riconosciuta e premiata: l'Azienda Truvunittu ha avuto la valutazione massima (tre spicchi) nella guida del Gambero Rosso, “Formaggi: i migliori d'Italia 2012”.Ma avere successo non basta, bisogna prevenire il mercato. Da qui l'idea di sperimentare un pecorino senza lattosio. Ma non con il già testato sistema del fungo che consente di avere un caglio vegetale anziché animale. «Vengono utilizzati degli enzimi che trasformano il lattosio in zucchero e quindi il formaggio è destinato anche a chi ha intolleranze alimentari. In Sardegna non è mai stato fatto per il pecorino di Osilo. Inoltre si punta anche sul “toscanello”, un pecorino con pasta tagliata più grossa, da consumare fresco e pure sulla ricotta senza lattosio. La sperimentazione viene seguita da un tecnico caseario, Bastianino Piredda, e dall'Università di Sassari per le analisi e i test».È un prodotto di nicchia, che necessita di una lavorazione leggermente più lunga e di particolare cura nella separazione del latte depurato dal lattosio da quello normale. Inizialmente la famiglia Pulinas pensa di destinare non oltre il 10% della produzione annuale e quindi intorno ai 10-12 quintali. «Ma bisogna prevenire il movimento del mercato, non seguirlo: le intolleranze sono in aumento. Se tutto va bene, contiamo di portarlo sui banconi in Primavera». Una sfida alla crisi tre le piccole imprese dell'Isola felice.
Giampiero Marras

Commento

Il ruolo vitale della piccola impresa di famiglia

Camaleonti al contrario in un mondo di grandi predatori. Le aziende a conduzione familiare di cui è ricca la Sardegna cambiano il colore della pelle per distinguersi, non per mimetizzarsi. Piccolo è bello. Ma anche meno difficile se la crisi si combatte con armi collaudate: materie prime a chilometri zero e qualità. Con un pizzico di fantasia. E il coraggio di saper scegliere in corsa nuove strategie di vendita, mercati di riferimento e prodotti. Senza mai rinunciare al valore aggiunto della tradizione. Per ritagliarsi uno spazio vitale nel settore agroalimentare.Tre dipendenti, un consulente, 120 quintali di formaggio, 110 mila euro di fatturato all'anno con 400 pecore, formaggi senza lattosio destinati a chi soffre di intolleranze alimentari. Non servono grandi capitali o capitani d'industria per superare un momento difficile. Nella Sardegna dell'autocommiserazione, Gavino Pulinas sembra un marziano, un imprenditore venuto da un altro pianeta. In realtà, non è l'unico rappresentante di quell'Isola felice capace di arginare la crisi con intelligenza e senza le stampelle economiche della Regione. Lui, come tanti altri piccoli imprenditori sardi, rischia di suo, ci mette soldi e faccia.Tre posti di lavoro, pochi, tanti? Dipende dal punto di osservazione. Se il mercato del lavoro non offre niente di meglio, forse sarebbe il caso di fare un pensierino al settore agroalimentare. Per non finire in pasto ai call center, i nuovi predatori di giovani disoccupati in una regione disperata. ( st. sa. )



Ecco le Auschwitz italiane di cui non sappiamo nulla o quasi o quasi perchè noi italiani gli ignoriamo o li abbiamo ( salvo eccezioni ) rimossi




Quest'anno voglio ricordare il  27  gennaio  lontano dai  crismi  della retorica   e dell'ufficialità   di  stato . Smentendo cosi il mito d'italiani  buona  gente  e  del fatto che la legislazione razziale italiana  fu solo blanda o applicata  all'acqua  di  rose  e  no dal regime  fascista  ma dalla R.S.I  e\o passivamente  come  servi  della  Germania  nazista (  vedere  i campi    di Fossoli e  la  Risiera di san saba  ) 
Ho messo come tag   10 febbraio  perchè  è  a  causa  di siffatte  violenze e brutalità che ebbe origine l'altrettanto brutale ed abberrante pulizia etnica delle foibe e poi del regime di Tito . Infatti : << [...] la storia va raccontata “a parte intera” e “tutta intera”. Questo non ha fatto gran parte del sistema culturale italiano, soprattutto nei suoi organi di diffusione di massa (ovvero televisione e stampa a grande tiratura).[....] >>  ( da   giorno del ricordo o  del mezzo ricordo ?  di David Bidussa - 9 febbraio 2013 http://www.linkiesta.it/  ) 

E sempre dallo stesso sito due interessantissimi articoli sulla shoa ed olocausto commessi dagli Italiani




Rab, la Auschwitz dimenticata dagli italiani

Alzi la mano chi ha mai sentito parlare del campo di internamento di Arbe (oggi Rab). Oppure di quelli di Gonars, Monigo, Renicci. Nel 1941 l'Italia invade la Jugoslavia e si annette una parte del territorio, nelle attuali Slovenia e Croazia. Fu creata una rete di campi d’internamento. A Rab morirono circa 1.500 sloveni, diecimila furono gli internati. Nessuna istituzione italiana, dal 1945 a oggi, è mai andata a deporre una corona di fiori, prendendo le distanze dalle efferatezze dell’Italia fascista nei Balcani.

                                                         campo  di Rab

Alzi la mano chi ha mai sentito parlare del campo di internamento di Arbe (oggi Rab  foto  a  destra  ). Oppure di quelli di Gonars, Monigo, Renicci. Nel 1941 l'Italia invade la Jugoslavia e si annette una
parte del territorio, nelle attuali Slovenia e Croazia. Fu creata una rete di campi d’internamento. A Rab morirono circa 1.500 sloveni, diecimila furono gli internati. Nessuna istituzione italiana, dal 1945 a oggi, è mai andata a deporre una corona di fiori, prendendo le distanze dalle efferatezze dell’Italia fascista nei Balcani.
Mettiamola così: se un Paese mettesse in piedi un campo di concentramento rinchiudendovi in meno di 14 mesi circa 10mila persone, e facendone morire 1.500, passerebbe alla storia come aguzzino (il tasso di mortalità, del 15 per cento, è pari a quello del lager di Buchenwald). Se lo fa l'Italia, invece, niente.

Alzi la mano chi ha mai sentito parlare del campo di internamento di Arbe.
Oppure di quelli di Gonars, Monigo, Renicci e vari altri. Probabilmente quasi nessuno. Eh già, perché l'Italia preferisce l'oblio quando il passato è imbarazzante. E invece bisogna ricordare. Anche gli italiani hanno commesso efferatezze, hanno ammazzato, hanno rinchiuso nei campi vecchi, donne e bambini facendoli morire di fame e di malattie.

Nel 1941 l'Italia invade la Jugoslavia e si annette una parte del territorio, nelle attuali Slovenia e Croazia. Alle popolazioni locali l'idea di essere dominati da una potenza straniera non piace granché e dopo quasi un anno di situazione relativamente tranquilla, comincia una furiosa guerriglia partigiana. La reazione italiana è durissima: rastrellamenti, fucilazioni, deportazione delle popolazioni civili dai villaggi delle zone dove sono attivi i partigiani. 
Viene creata una rete di campi di internamento (per chi volesse approfondire: Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce, Einaudi) dove sistemare le popolazioni deportate. Uno di questi campi sorge sull'isola di Arbe, nel golfo del Quarnero (oggi Rab, Croazia). Rispetto agli altri ha avuto un triste primato: quello di essere il più duro, quello dove sono morte più persone. È gestito dal Regio esercito, non da camice nere, milizie o quant'altro; non è un campo strettamente “fascista”, è un campo “italiano”.

                                                   Bambini internati a Rab

                                      
Il primo gruppo di internati (240) ci arriva esattamente settant'anni fa, nel luglio 1942, poi ne giungono altri a gruppi, a fine agosto arrivano mille minori di 16 anni, tutti assieme. Quasi tutti sono vittime dei rastrellamenti in Slovenia, pochi i croati. Il campo sorge nel vallone di Sant'Eufemia, sul fondo della baia di Campora (Kampor), su un terreno paludoso, sottoposto all'azione dell'alta marea e a rischio inondazione (Arbe, contrariamente al resto della Dalmazia, è ricchissima d'acqua dolce).
Gli internati, come detto soprattutto vecchi, donne e bambini, vengono sistemati all'interno di tende. Le condizioni di vita sono durissime: «Campo di concentramento non significa campo di ingrassamento», annota il generale Gastone Gambara, comandante dell'XI corpo d'armata che aveva giurisdizione sulla zona (naturalmente è morto senza mai dover rispondere delle sue azioni nei Balcani, e dopo esser stato reintegrato nell'esercito nel 1952). Condizioni di vita aggravate dal sadico comportamento del comandante del campo, il tenente colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli (condannato a morte dai partigiani, si taglierà le vene la notte prima dell'esecuzione). Gli interrogatori degli internati, dopo la liberazione del campo da parte degli jugoslavi, l'8 settembre 1943, sottolineeranno anche la crudeltà del cappellano, don Enzo Mondini, mentre rimarcheranno i tentativi messi in atto dagli ufficiali medici per alleviare almeno di un po' le pene.





                                                 Internati nel campo di Rab


Gli internati di Arbe muoiono per denutrizione (la razione era 80 grammi di pane al giorno, più una brodaglia cucinata in ex bidoni di benzina), per malattie (il generale Gambara, enuncia il principio «internato ammalato uguale internato tranquillo» e fa distribuire paglia infestata dai pidocchi) e per calamità naturali. L'episodio più grave avviene nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1942 quando un furioso temporale provoca un'inondazione alta un metro che devasta il settore femminile, trascinando in mare tende, donne e bambini. Il giorno dopo vengono recuperati dalla baia decine di corpicini galleggianti. La sezione femminile e quella maschile sono divise da un ruscello che però è talmente infestato dai pidocchi da rendere impossibile non solo berne l'acqua, ma persino usarla per lavarsi. 
Gli internati inscheletriti dalla fame, cotti dal sole, sporchi all'inverosimile, suscitano l'intervento del Vaticano che cerca di alleviarne le spaventose condizioni, viene costruita qualche baracca, ma nulla più. Herman Janez, allora un bambino di sette anni, ricorda il terribile inverno passato sull'isola: «Le guardie ogni giorno facevano l’appello di noi ragazzini per poi portarci nella rada di mare antistante al campo e farci fare il bagno. Ci nascondevamo, ma poi questi ci stanavano e ci costringevano ad andare in acqua. Eravamo già deboli, pieni di zecche e di pidocchi, di piaghe purulente, puzzavamo di sterco nostro e altrui, e dopo questi bagni un semplice mal di gola ha portato tanti di noi al camposanto». La mortalità maggiore si registra quando il freddo pungente della bora porta via gli internati a grappoli. 

80 grammi di pane al giorno
                                      80 grammi di pane al giorno

Non si sa esattamente quanti siano stati gli internati. Le stime vanno da 7.500 a 15.000. Teniamoci su una prudente via di mezzo e diciamo attorno ai 10mila. I morti accertati, con nome e cognome, sono 1.435, ma quasi certamente sono di più perché i sopravvissuti hanno testimoniato che poteva capitare di seppellire due salme in una tomba e che gli internati nascondessero il corpo di qualche deceduto per dividersi la sua porzione di brodaglia.
Gli ebrei, per lo più scampati agli ustascia croati, erano trattati meglio perché il Regio esercito non li considerava nemici, come invece accadeva per gli sloveni. Per esempio vivevano in baracche e non in tenda e non subivano le persecuzioni riservate agli altri. Evelyn Waugh li menziona in un suo racconto, “Compassione”: «Con improvvisa veemenza la donna, la signora Kanyi, tacitò i consiglieri e si mise a raccontare la sua storia. Quelli là fuori, spiegò, erano i sopravvissuti di un campo di concentramento italiano sull'isola di Rab. Per la maggior parte erano cittadini jugoslavi, ma alcuni, come lei, erano rifugiati dall'Europa centrale. Alla fuga del re, gli ustascia avevano cominciato a massacrare gli ebrei. E gli italiani li avevano radunati trasferendoli sull'Adriatico. Con la resa dell'Italia, i partigiani avevano tenuto la costa per qualche settimana, riportando gli ebrei sul continente, reclutando tutti quelli giudicati utilizzabili, e imprigionando il resto».





Rab, il cimitero

Dal 1945 a oggi, mai un rappresentante ufficiale dello stato italiano è andato ad Arbe a deporre una corona di fiori, mai il console italiano della vicina Fiume (Rijeka) è andato a pronunciare un'orazione funebre, mai l'ambasciatore italiano a Zagabria ha sentito il dovere di chiedere scusa. Soltanto una volta un rappresentante dell'allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, è andato in forma ufficiale alle commemorazioni del campo di Gonars, in provincia di Udine. Ma mai l'Italia repubblicana ha preso definitivamente le distanze da quanto commesso ad Arbe e nei Balcani dall'Italia fascista.

                                                  Renicci ( Toscana  )
                                        renicci prigionieri in marcia

I campi di internamento allestiti dagli italiani per i civili rastrellati nei territori jugoslavi annessi nel 1941 (provincia di Lubiana e di Dalmazia) e per gli “allogeni” cioè sloveni e croati della Venezia Giulia,  erano in totale 28. Dei quali 14 in Italia, tra Friuli, Umbria, Veneto, Toscana, Liguria e Sardegna, dove gli internati morivano di fame e freddo. A parte il lavoro di pochi storici, su questi lager è calata un’impenetrabile cortina di silenzio. 

Non solo Arbe. Quello dell'isola dalmata che oggi si chiama Rab, aperto esattamente settant'anni fa, nel luglio 1942, è stato il più terribile e mortale fra i campi di internamento “per slavi” messi in piedi dall'Italia (soprattutto dal Regio esercito) durante l'occupazione della Jugoslavia. Ma certo non era l'unico. Già il termine “per slavi” la dice lunga. Il fatto che sia un concetto sbagliato (slavi infatti sono tutti i popoli che parlano lingue slave, dai russi ai bulgari) probabilmente non occupava le menti di chi ha concepito quei lager. È invece molto probabile che fossero ben consci dell'accezione negativa e velatamente razzista che la parola ha assunto – allora come oggi – in seguito all'uso e all'abuso fattone dai nazionalisti italiani (e che in precedenza invece non aveva, basti pensare alla veneziana riva degli Schiavoni, uno dei luoghi più prestigiosi della città).
I campi di internamento allestiti per ricevere i civili rastrellati dalle territorio jugoslavi annessi nel 1941 (provincia di Lubiana e di Dalmazia) e “allogeni” (sloveni e croati della Venezia Giulia, divenuti cittadini italiani dopo la Prima guerra mondiale) erano in totale 28: 14 in Italia e altrettanti nel territorio annesso. L'elenco è ricavato dal libro di Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce (Einaudi). Il Friuli-Venezia Giulia ospitava sei campi: Cighino, Gonars, Visco, Fossalon, Poggio Terzarmata (Zdravščine) e Piedimonte (Podgora); tre l'Umbria: Colfiorito, Pietrafitta e Ruscio; due il Veneto: Monigo e Chiesanuova; uno ciascuno la Toscana, la Liguria e la Sardegna: Renicci, Cairo Montenotte e Fertilia. I campi nei territori annessi si trovavano tutti nell'attuale Croazia, con l'eccezione di quello sull'isola di Mamula, oggi in Montenegro.
Oltre al già citato campo di Arbe (Rab), ce n'erano a Buccari (Bakar), Portoré (Kraljevica), Fiume (Rijeka), Melada (Molat), Zlarino (Zlarin), Scoglio Calogero (Ošljak), Morter (Murter), Zaravecchia (Biograd), Vodizza (Vodice), Divulje, Prevlaka e (Uljan). Ques'ultimo è stato aperto nell'agosto 1943 e ha ospitato 300 persone solo per pochi giorni, fino all'armistizio dell'8 settembre 1943, quando tutti gli internati sono stati liberati (ma non tutti i lager hanno cessato di funzionare). I primi campi erano stati aperti tra l'inverno e la primavera 1942, per deportarvi la popolazione civile delle zone dov'era maggiore l'attività partigiana.
Le condizioni di vita variavano da campo a campo e da periodo a periodo, potevano andare dal sopportabile al disumano. Il numero maggiore di vittime si è registrato ad Arbe (1435 vittime accertate su 10mila internati); dieci volte minore è la mortalità di Renicci (in provincia di Arezzo), con 159 deceduti su un numero di internati più meno uguale; mentre a Gonars (Udine) si contano 453 morti su 7mila internati. Abbiamo una documentazione abbastanza completa solo per i campi più grandi (Arbe, Gonars, Monigo, Chiesanuova, Renicci e Visco) mentre su altri sappiamo piuttosto poco. La maggior parte dei campi era gestita dal Regio esercito, alcuni ricadevano sotto la giurisdizione del ministero dell'Interno e in questi secondi le condizioni di vita erano generalmente migliori.
Diciamolo subito: non c'era un disegno esplicito né di torture o maltrattamenti fisici, né tantomeno di sterminio (certo, è vero che affamare i reclusi equivale a una tortura). I regolamenti non prevedevano punizioni corporali, ma in alcuni campi venivano praticate: a Gonars era stato issato un palo dove legare i puniti. Si sono registrate alcune uccisione arbitrarie (sempre a Gonars Rudolf Kovač fu ucciso dalla fucilata di una sentinella senza apparenti motivi, a Renicci l'anarchico Umberto Tommasini venne ammazzato a colpi di pistola da un ufficiale per aver intonato l'Internazionale dopo la caduta di Mussolini). Non c'erano lavori forzati, solo qualche internato era occupato in attività d'ufficio e infermieristiche. Tuttavia erano stati costituiti tre campi di lavoro, uno per “ex jugoslavi” e uno per “allogeni” dove le condizioni di vista erano generalmente migliori che nei campi d'internamento.
Gli internati, invece, morivano di fame, di malattie e di freddo. «Caratteristiche pressoché costanti in questi campi furono la fame e la denutrizione generalizzate che determinarono l'alto tasso di mortalità», scrive Capogreco. Le razioni erano volutamente insufficienti e gli internati venivano alloggiati in tende senza tavolacci e quindi costretti a dormire sulla nuda terra, il che innalzava in modo consistente l'incidenza di malattie, soprattutto tra gli anziani. Arbe, Melada e Zlarin erano collocati in riva al mare, il primo addirittura su un terreno paludoso.
In Italia furono allestiti anche altri tipi di campi – per prigionieri di guerra o per internati politici o quant'altro – ma Capogreco sottolinea che le tendopoli adriatiche dei campi “per slavi” sono lontane «anni luce» dalle strutture per internati gestite dal ministero dell'Interno. Il modello era piuttosto costituito dai campi di prigionia in Libia. I reclusi vestivano e calzavano indumenti propri e, poiché l'arresto li aveva colti di sorpresa, buona parte di loro non disponeva d'altro che degli abiti indossati al momento del fermo. Solo ad alcuni più bisognosi, a inverno inoltrato, vennero forniti indumenti e scarpe di tipo militare. Si potevano ricevere pacchi, ma i disservizi e l'ostruzionismo rendevano la possibilità solo teorica: quando i pacchi arrivavano, e se arrivavano, il cibo era ormai immangiabile per la lunga giacenza nei magazzini. Da registrare un'eccezione: il servizio pacchi nella Dalmazia meridionale, organizzato dal 120° fanteria della Divisione Emilia che consegnò oltre 10 mila pacchi nei due campi di Mamula e Prevlaka.
Il racconto di un ex internato di Renicci ricostruiva le precarie condizioni di vita nelle tende: «La terra era molto umida e così abbiamo cercato delle frasche da sistemare sul fondo, per poi poggiarvi le coperte. Ma i guardiani non ce l'hanno permesso e chi veniva sorpreso a spezzare rami dalle querce passava dei guai molto seri con loro. Così, la maggior parte di noi ha dovuto mettere direttamente sul fango le proprie coperte e, in poco tempo, si è così ammalata. Io ho vissuto sotto una tenda sino alla primavera del '43: in ogni tenda stavamo quindici o venti persone, ma poi hanno allestito anche tendoni per sessanta internati».
La fame era accentuata dall'antica, e non interrotta, tradizione italica di fare la cresta sulle provviste. Ivan Branko, evaso da Gonars il 30 agosto 1942, riferiva che le razioni erano forse sufficienti per sopravvivere, ma «prima di arrivare agli internati, finivano per ridursi a un quarto, poiché dovunque veniva rubato, al comando e poi lungo le tappe intermedie della gerarchia del potere».
Parecchi morti nei vari campi erano internati trasferiti da quello di Arbe quando ormai si trovavano in condizioni disperate. È il caso dei 232 reclusi deceduti della caserma “Cadorin”, di Monigo (Treviso). «I medici dell'ospedale di Treviso, dove venivano ricoverati gli internati quando erano ormai allo stremo, restavano esterrefatti davanti al quadro clinico di completa denutrizione», sottolinea Capogreco. Il professor Menenio Bortolozzi, al tempo primario anatomo-patologo, osservava: «Dal campo li mandavano al nosocomio quando ormai era troppo tardi: si è riusciti a salvarne pochi, sono morti anche bambini di un anno, di pochi mesi, vecchi ottantenni, persino uno di 92 anni. Morti di fame».
E Mario Cordaro, ex ufficiale medico a Gonars, riferiva: «Il nostro lavoro era divenuto bestiale, ma purtroppo non potevamo fare altro che constatare la nostra impotenza. Il cimitero di Gonars non poteva più contenere i morti che si contavano a varie decine ogni giorno e così fu in fretta costruito un nuovo cimitero». Camillo Croce, medico a Melada, ancora nel 2001 testimoniava: «Quando le condizioni di salute erano molto gravi, proponevo il ricovero all'ospedale San Demetrio di Zara, al quale facevamo capo per le varie emergenze».
  Il campo di Gonars
Le condizioni di vita furono un po' alleviate dall'intervento ecclesiastico. Il vescovo di Lubiana e quello di Veglia (sloveni e croati sono cattolici) andarono personalmente da Pio XII che fece pressioni sul governo italiano. Nella sua risposta il generale Mario Roatta, comandante militare dei Balcani, non negava la mortalità, ma cercava di farla apparire casuale. Comunque l'intervento vaticano ottenne il trasferimento dei bambini e di gran parte delle donne da Arbe a Gonars. Dal febbraio 1943 operò a Cairo Montenotte (Savona) un campo riservato alla minoranza slovena e croata della Venezia Giulia. Per fortuna fu un campo a bassa mortalità, ma la situazione non era di certo facile.



 Monumento in ricordo delle vittime a Gonars
Gonars, internati appena arrivati
Il vescovo di Trieste e Capodistria, Antonio Santin, andò a visitare quelli che erano in buona parte abitanti della sua diocesi. Si scontrò con un generale che li considerava tutti delinquenti. «Pregai il generale di segnalare in alto la scarsità di cibo: avevo visto coi miei occhi e appreso dal colonnello quanto ricevono. Hanno fame», scrisse il vescovo.
Su tutto questo, nel dopoguerra, è scesa un'impenetrabile cortina di silenzio. Solo il caparbio lavoro di pochi storici e ricercatori ha permesso di conoscere almeno in parte le atrocità di cui si sono macchiati gli italiani nei Balcani.

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