Impiego pubblico e industria di Stato non garantiscono
più lavoro. Si vive di sussidi e reddito di cittadinanza. Resta la
speranza di una rivoluzione digitale
di Sergio Rizzo
Con la politica Renato Soru ha chiuso, ma non può dimenticare: «Ci avevo creduto. Convinto che il futuro fosse nel mondo digitale pensavo che quell’esperienza potesse contaminare tutta la Sardegna. Non è andata così». È passato un quarto di secolo da quando Nicola Grauso, l’editore dell’Unione Sarda, aveva lanciato da Cagliari la sfida della rete, aprendo il primo internet provider italiano. Video on line era il terzo al mondo. In Italia, nel dicembre 1994. E in una regione depressa in mezzo al mare, poi.
Ma si guardava sbalorditi, di lì a poco, anche a un quarantenne di Sanluri, paese di 8 mila anime nella Sardegna profonda, che avrebbe sconvolto la Borsa con la sua Tiscali. Soru arrivò a capitalizzare più della Fiat con un giro d’affari di oltre un miliardo. Era un marziano, nonni analfabeti e genitori con la terza media. Che forse avevano sognato per lui un impiego alla Regione.
L’alternativa al posto pubblico, all’epoca, era l’industria. Pubblica anch’essa. Era arrivata anche in Sardegna, a una sessantina di chilometri da Sanluri, dove c’era il polo dei metalli non ferrosi: alluminio, piombo e zinco. Ma prima c’era stato il carbone. La risposta autarchica di Benito Mussolini alle sanzioni imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia fu la creazione di una città mineraria nel Sulcis. Tre chilometri più a sud si scoprì un enorme giacimento e un anno e mezzo dopo (un anno e mezzo!) ecco la città di Carbonia.
La piazza principale sembra un quadro del grande pittore metafisico Giorgio De Chirico, ma in tre dimensioni. E metafisica si rivelò anche, finita l’autarchia, la suggestione del carbone. In Aria Fritta, un saggio ustionante del 1955, Ernesto Rossi, scrisse che la Carbosarda avrebbe perfino risparmiato «se avesse potuto tener chiuse, senza spesa, le miniere, e avesse pagato 40 mila lire al mese a ognuno purché tutti rimanessero a casa».
Non stava in piedi, anche alla luce delle risorse immense che erano state investite: 100 miliardi di lire dal ‘37 al ‘55, oltre un miliardo di mezzo di euro attuali. E si corse ai ripari con il sistema in voga allora. Altri investimenti pubblici, altre fabbriche. La Safim, quindi l’Efim. «Ma va ricordato che allora certe parti della Sardegna erano peggio dell’Afghanistan di oggi. Le industrie portarono crescita, sviluppo e formazione - dice Soru. - Il problema è che non si sono portate dietro uno straccio d’imprenditoria». Niente a valle della produzione metallurgica, nessun indotto industriale, zero attività di trasformazione. Mentre i costi dell’energia e del lavoro, con una gestione dettata da interessi politici mandavano l’alluminio sardo sempre più fuori mercato.
Il presidente dell’Efim Gaetano Mancini, già senatore socialista e cugino del potentissimo leader psi Giacomo, confessò nel 1990 che per ogni chilo di alluminio prodotto si perdevano 1.500 lire. Da allora si è cercato di mantenere in vita quei cadaveri con la respirazione bocca a bocca. Anche a suon di sussidi energetici. Finché, nel 2009, complici le bastonate di Bruxelles sugli aiuti di Stato, non è arrivata la morte cerebrale.
E l’Alcoa, che aveva comprato nel 1995, ha gettato la spugna. Ma i tentativi di rianimazione non si sono arrestati. Con altri fondi pubblici e l’intervento di Invitalia al fianco del nuovo azionista, il gruppo svizzero Sider Alloys. Finché il piano è stato messo in crisi dal primo governo Conte ed è tutto di nuovo praticamente in alto mare. Mentre dal 2012 le miniere di carbone sono ferme, anche se la società della Regione Carbosulcis ha ancora a busta paga qualche centinaio di dipendenti. Dopo aver bruciato una valanga di denari pubblici.
Tore Cherchi è stato per dieci anni sindaco di sinistra di una città che per sessant’anni ha sempre votato a sinistra. Lui ha voluto il Museo del Carbone lì dove c’era la miniera Serbariu. Ventimila visitatori l’anno, in gran parte scolaresche. E si sapeva, dice Cherchi, che il vecchio modello di sviluppo era irrimediabilmente entrato in crisi. Tanto che era stato predisposto «un secondo motore», come lo chiama, alimentato dal “Piano Sulcis”.
Ma insiste sul fatto che comunque non si può abbandonare l’industria a una lenta consunzione: «L’alluminio vale 2.600 posti di lavoro». Incontestabile. Però è un fatto che da almeno dieci anni qui si va avanti soltanto con i sussidi. Come spiega crudamente Soru: «La verità? Non abbiamo difeso la fabbrica, ossia il lavoro. Ma la cassa integrazione, il reddito».
E allora ogni qualvolta si avvicina la scadenza degli ammortizzatori sociali, partono le proteste. Per assicurarsi un altro giro di cassa, e via così. Il problema è che quel secondo motore, annunciato nel novembre 2012 con le autorità che dovettero fuggire in elicottero, continua a perdere colpi. Il risultato è che in sette anni, di 1,2 miliardi di investimenti previsti, sono stati spesi forse 200 milioni.
Del resto, qui la classe dirigente si è rivelata incapace perfino di gestire il pasticcio delle Province, raddoppiate nel 2001 in quella fase concitata fra i governatori Mauro Pili e Mario Floris, con la creazione fra le altre della Provincia di Carbonia-Iglesias. Quattro mesi prima era passato il referendum che cancellava il raddoppio del 2001. E da allora le Province sono ancora tutte commissariate. Sette anni! A Sassari il centrodestra ha appena nominato Pietro Fois: pensate, proprio colui che promosse quel referendum...
C’era da aspettarselo che un bel giorno a Carbonia la gente si sarebbe stufata di promesse e illusioni. Così nel 2016 ecco l’affermazione di una grillina: Paola Massidda. Secondo sindaco del M5S in Sardegna, prima donna. In un Comune che dal dopoguerra votava a sinistra, Carbonia “la rossa”. Ma la svolta non c’è, e date le condizioni di partenza sarebbe comunque impensabile. A via Gramsci, la strada più commerciale della città, è una desolazione: i negozi hanno quasi tutti le serrande abbassate. Nemmeno il reddito di cittadinanza ha cambiato le cose. Mentre in 310 sono assistiti dai servizi sociali per depressione. Il triplo rispetto alla media della Sardegna.
E chi può se ne va. Negli ultimi quattro anni Carbonia ha perso più di 1.000 abitanti, il 3,4% della popolazione. Non tutti, è vero, si arrendono. Nino Flore, per esempio. Un signore che ha radunato 350 ex operai e si è inventato imprenditore: ha quattro alberghi e un’azienda agricola biologica. Ma quando ha voluto allargare il campo d’azione alla pesca ha scoperto che i pescatori preferiscono vivere di sussidi. Così, dopo tre anni di amministrazione grillina, ammette Massidda, «tira già aria di centrodestra». Alle politiche del 2018 il Movimento 5 stelle aveva sfondato il 45%. Un anno dopo, alle europee, i grillini sono scesi al 29,3%, con la Lega salita al 24,1%. Ma a febbraio 2019, quando è stato eletto governatore per il centrodestra Christian Solinas, in tutta l’isola non erano andati oltre il 9,74%.
Dal sogno di Soru sembrano passati mille anni. «Non si è spento», dice l’ex presidente della Regione ora tornato a Tiscali. «Vive ancora sottotraccia, quell’idea. Non c’è più la grande Tiscali, ma decine di società, con ragazzi sardi. Piattaforme come Facile.it. O Mutui online, i bancari del terzo millennio. A Cagliari lavorano nel digitale 15 mila persone: tre volte gli occupati di Porto Torres nel momento d’oro del polo chimico». Ci vorrebbe solo una classe politica lungimirante. Soru parla di un «piano di rinascita» per investire nella fibra ottica, in un grande data center regionale, ma soprattutto nel capitale umano. Per tutta risposta la Regione Sardegna si appresta ora a inglobare 6 mila forestali: l’ha deciso la sinistra, lo farà la destra.
Con la politica Renato Soru ha chiuso, ma non può dimenticare: «Ci avevo creduto. Convinto che il futuro fosse nel mondo digitale pensavo che quell’esperienza potesse contaminare tutta la Sardegna. Non è andata così». È passato un quarto di secolo da quando Nicola Grauso, l’editore dell’Unione Sarda, aveva lanciato da Cagliari la sfida della rete, aprendo il primo internet provider italiano. Video on line era il terzo al mondo. In Italia, nel dicembre 1994. E in una regione depressa in mezzo al mare, poi.
Ma si guardava sbalorditi, di lì a poco, anche a un quarantenne di Sanluri, paese di 8 mila anime nella Sardegna profonda, che avrebbe sconvolto la Borsa con la sua Tiscali. Soru arrivò a capitalizzare più della Fiat con un giro d’affari di oltre un miliardo. Era un marziano, nonni analfabeti e genitori con la terza media. Che forse avevano sognato per lui un impiego alla Regione.
L’alternativa al posto pubblico, all’epoca, era l’industria. Pubblica anch’essa. Era arrivata anche in Sardegna, a una sessantina di chilometri da Sanluri, dove c’era il polo dei metalli non ferrosi: alluminio, piombo e zinco. Ma prima c’era stato il carbone. La risposta autarchica di Benito Mussolini alle sanzioni imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia fu la creazione di una città mineraria nel Sulcis. Tre chilometri più a sud si scoprì un enorme giacimento e un anno e mezzo dopo (un anno e mezzo!) ecco la città di Carbonia.
La piazza principale sembra un quadro del grande pittore metafisico Giorgio De Chirico, ma in tre dimensioni. E metafisica si rivelò anche, finita l’autarchia, la suggestione del carbone. In Aria Fritta, un saggio ustionante del 1955, Ernesto Rossi, scrisse che la Carbosarda avrebbe perfino risparmiato «se avesse potuto tener chiuse, senza spesa, le miniere, e avesse pagato 40 mila lire al mese a ognuno purché tutti rimanessero a casa».
Non stava in piedi, anche alla luce delle risorse immense che erano state investite: 100 miliardi di lire dal ‘37 al ‘55, oltre un miliardo di mezzo di euro attuali. E si corse ai ripari con il sistema in voga allora. Altri investimenti pubblici, altre fabbriche. La Safim, quindi l’Efim. «Ma va ricordato che allora certe parti della Sardegna erano peggio dell’Afghanistan di oggi. Le industrie portarono crescita, sviluppo e formazione - dice Soru. - Il problema è che non si sono portate dietro uno straccio d’imprenditoria». Niente a valle della produzione metallurgica, nessun indotto industriale, zero attività di trasformazione. Mentre i costi dell’energia e del lavoro, con una gestione dettata da interessi politici mandavano l’alluminio sardo sempre più fuori mercato.
Il presidente dell’Efim Gaetano Mancini, già senatore socialista e cugino del potentissimo leader psi Giacomo, confessò nel 1990 che per ogni chilo di alluminio prodotto si perdevano 1.500 lire. Da allora si è cercato di mantenere in vita quei cadaveri con la respirazione bocca a bocca. Anche a suon di sussidi energetici. Finché, nel 2009, complici le bastonate di Bruxelles sugli aiuti di Stato, non è arrivata la morte cerebrale.
E l’Alcoa, che aveva comprato nel 1995, ha gettato la spugna. Ma i tentativi di rianimazione non si sono arrestati. Con altri fondi pubblici e l’intervento di Invitalia al fianco del nuovo azionista, il gruppo svizzero Sider Alloys. Finché il piano è stato messo in crisi dal primo governo Conte ed è tutto di nuovo praticamente in alto mare. Mentre dal 2012 le miniere di carbone sono ferme, anche se la società della Regione Carbosulcis ha ancora a busta paga qualche centinaio di dipendenti. Dopo aver bruciato una valanga di denari pubblici.
Tore Cherchi è stato per dieci anni sindaco di sinistra di una città che per sessant’anni ha sempre votato a sinistra. Lui ha voluto il Museo del Carbone lì dove c’era la miniera Serbariu. Ventimila visitatori l’anno, in gran parte scolaresche. E si sapeva, dice Cherchi, che il vecchio modello di sviluppo era irrimediabilmente entrato in crisi. Tanto che era stato predisposto «un secondo motore», come lo chiama, alimentato dal “Piano Sulcis”.
Ma insiste sul fatto che comunque non si può abbandonare l’industria a una lenta consunzione: «L’alluminio vale 2.600 posti di lavoro». Incontestabile. Però è un fatto che da almeno dieci anni qui si va avanti soltanto con i sussidi. Come spiega crudamente Soru: «La verità? Non abbiamo difeso la fabbrica, ossia il lavoro. Ma la cassa integrazione, il reddito».
E allora ogni qualvolta si avvicina la scadenza degli ammortizzatori sociali, partono le proteste. Per assicurarsi un altro giro di cassa, e via così. Il problema è che quel secondo motore, annunciato nel novembre 2012 con le autorità che dovettero fuggire in elicottero, continua a perdere colpi. Il risultato è che in sette anni, di 1,2 miliardi di investimenti previsti, sono stati spesi forse 200 milioni.
Del resto, qui la classe dirigente si è rivelata incapace perfino di gestire il pasticcio delle Province, raddoppiate nel 2001 in quella fase concitata fra i governatori Mauro Pili e Mario Floris, con la creazione fra le altre della Provincia di Carbonia-Iglesias. Quattro mesi prima era passato il referendum che cancellava il raddoppio del 2001. E da allora le Province sono ancora tutte commissariate. Sette anni! A Sassari il centrodestra ha appena nominato Pietro Fois: pensate, proprio colui che promosse quel referendum...
C’era da aspettarselo che un bel giorno a Carbonia la gente si sarebbe stufata di promesse e illusioni. Così nel 2016 ecco l’affermazione di una grillina: Paola Massidda. Secondo sindaco del M5S in Sardegna, prima donna. In un Comune che dal dopoguerra votava a sinistra, Carbonia “la rossa”. Ma la svolta non c’è, e date le condizioni di partenza sarebbe comunque impensabile. A via Gramsci, la strada più commerciale della città, è una desolazione: i negozi hanno quasi tutti le serrande abbassate. Nemmeno il reddito di cittadinanza ha cambiato le cose. Mentre in 310 sono assistiti dai servizi sociali per depressione. Il triplo rispetto alla media della Sardegna.
E chi può se ne va. Negli ultimi quattro anni Carbonia ha perso più di 1.000 abitanti, il 3,4% della popolazione. Non tutti, è vero, si arrendono. Nino Flore, per esempio. Un signore che ha radunato 350 ex operai e si è inventato imprenditore: ha quattro alberghi e un’azienda agricola biologica. Ma quando ha voluto allargare il campo d’azione alla pesca ha scoperto che i pescatori preferiscono vivere di sussidi. Così, dopo tre anni di amministrazione grillina, ammette Massidda, «tira già aria di centrodestra». Alle politiche del 2018 il Movimento 5 stelle aveva sfondato il 45%. Un anno dopo, alle europee, i grillini sono scesi al 29,3%, con la Lega salita al 24,1%. Ma a febbraio 2019, quando è stato eletto governatore per il centrodestra Christian Solinas, in tutta l’isola non erano andati oltre il 9,74%.
Dal sogno di Soru sembrano passati mille anni. «Non si è spento», dice l’ex presidente della Regione ora tornato a Tiscali. «Vive ancora sottotraccia, quell’idea. Non c’è più la grande Tiscali, ma decine di società, con ragazzi sardi. Piattaforme come Facile.it. O Mutui online, i bancari del terzo millennio. A Cagliari lavorano nel digitale 15 mila persone: tre volte gli occupati di Porto Torres nel momento d’oro del polo chimico». Ci vorrebbe solo una classe politica lungimirante. Soru parla di un «piano di rinascita» per investire nella fibra ottica, in un grande data center regionale, ma soprattutto nel capitale umano. Per tutta risposta la Regione Sardegna si appresta ora a inglobare 6 mila forestali: l’ha deciso la sinistra, lo farà la destra.
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