- La storia del nivuriddu, Michele Antonio Scigliano figlio del Ras etiope Ubie Manghescià – Antica Biblioteca Corigliano Rossano con video testimonianze
- STORIE CALABRESI – Micael Mangascià di Longobucco – Orsomarso Blues
- il podcast SOTTOTRACCIA: NASCOSTI NELLA STORIA , purtroppo a pagamento , della repubblica \ la stampa Il ras di Longobucco - Michele Scigliano e l'eredità africana
Durante il fascismo a Longobucco vennero confinati 35 personaggi di primo piano del regno di Etiopia. Tra questi il ras Ubie Manghescià, ex ambasciatore etiope a Roma ed ex governatore della provincia Uellega Occidentale. Questo ras ebbe una relazione con una donna di Longobucco, che aveva il marito in guerra, che andava a fare le faccende a casa sua. Dalla relazione nacque un bambino di carnagione nera, che il marito della signora – tornato dalla guerra – riconobbe, Michele Antonio Scigliano. Dopo qualche anno arrivò al comune di Longobucco una lettera dell’ambasciata etiope che chiedeva notizie sul ragazzo. Avutele, il ras richiamò presso di sé in Etiopia il giovane. Di seguito la storia raccontata da testimoni diretti e articoli sui confinati etiopi dal fascismo.
Fra i notabili etiopi inviati al confino in Italia dopo l’attentato, ad Addis Abeba, al viceré Graziani (19 febbraio 1937), vi era pure ras Mangascià Ubié, ricco sfondato e onnipotente, nonché particolarmente caro al negus Selassié che prima lo aveva messo al vertice del tribunale per l’abolizione della schiavitù, poi lo aveva nominato governatore della Uollega occidentale e, infine, lo aveva incaricato di aprire una legazione diplomatica a Roma; incarico, quest’ultimo, che, certo per colpa del ponentino romano inducente al douce vivre, egli aveva assolto consumando i giorni fra case d’appuntamento e tabarins, tanto che il Ministero degli Esteri italiano si era sentito in dovere di «consigliare» alle autorità etiopi di richiamare in patria il dissoluto diplomatico «la cui sola attività è quella d’accumulare debiti».
E anche a Longobucco — sua sede di confino – egli non si smentì, solo che dovette accontentarsi di quel che passava il convento, e, a parte la frequentazione assidua di terragne femmes de chambre, strinse una relazione stabile, col tempo non priva d’una qualche sfumatura d’innamoramento reciproco, con Giuseppina Blaconà, donna che gli sbrigava le faccende di casa, nonché moglie di Vincenzo Scigliano, un contadino che s’era fatto la campagna di guerra in Etiopia ove sognava di ritornare per crearsi un destino meno pidocchioso; e fu, certo, a questo scopo, o, comunque, per poterne ricavare un qualche utile, che egli, lo Scigliano, favorì la stessa relazione, nel pieno rispetto del credere popolare secondo cui ai meschini sono offerte due sole strade per mutar stato: «o travatura o incornatura»” (O il ritrovamento d’un tesoro o la moglie mantenuta da qualcuno); tant’è vero che quando dalla stessa relazione – notoria a tutto il paese e dintorni oltre che alle autorità di polizia – nel febbraio 1939 nacque «’na creatura nira nira», egli non solo ne riconobbe la paternità, ma, dandogli il nome Michele Antonio, «alzò» il nome del proprio padre, così offrendosi «cornuto e contento» alla considerazione paesana.
Poi, dopo l’8 settembre 1943, i confinati etiopi poterono ritornare in patria, e Mangascià chiese insistentemente a Giuseppina d’andarsene con lui o, almeno, d’affidargli il figlio, che lo avrebbe fatto studiare e crescere da gran signore; ma lei oppose un netto rifiuto, dietro il quale non si sa cosa intravedere. E negli anni successivi i destini dei protagonisti di questa strana storia restarono in qualche modo e per qualche tempo cuciti assieme con refe d’ordinaria qualità: Mangascià Ubié si fece ancora vivo con la donna, inviandole denaro e rinnovandole la richiesta di raggiungerlo o di affidargli Michele, ma poi, come dice la canzone, la lontananza e come il vento, anche perché egli teneva pensiero ad altro, s’andava facendo vieppiù ricco e potente (fra l’altro, fu pure ministro delle poste e consigliere della Corona), e finì per sposare la principessa Zauditù, imparentata con l’imperatore, e dalla quale ebbe due figli maschi che si rivelarono la deboscia in persona; Vincenzo Scigliano s’andò consumando nell’acidità e nel rancore verso tutto e tutti, specie verso il figlio-nonfiglio; Giuseppina Blaconà, come voleva la sua cultura, si vestì del ruolo di presenza muta che si trascinava sulle spalle sghembe tutti i peccati del mondo e, forse, pure il ricordo d’una specie d’amore, unica, grama consolazione d’una vita di travaglio in virtù della quale una come lei diventava gozzuta e sdentata a manco quarant’anni; Michele Antonio, lapidato dalle prese in giro dei compaesani, crebbe strànio e selvatico fra i boschi, senza manco un giorno di scuola, consapevole d’essere il «figlio della colpa» per giunta «diverso», ma anche una specie di re, guadagnandosi la campata coi lavori più umili, appartati e solagni – il pastore, il carbonaio, il boscaiolo …-, e ad appena diciott’anni si sposò con una meschina più meschina di lui, pensando, forse, di esorcizzare l’infelicità o, per lo meno di dimezzarla, che aver compagni al duol…, e, invece, da quell’analfabeta che era non sapeva che la matematica non è un’opinione, e infelicità più infelicità fanno un’infelicità doppia; e quando gli nacque un figlio pensò bene di non scontentare nessuno, «alzando» il nome di tutt’e due i suoi padri, chiamandolo Mangascià Antonio.
Finché non si ebbe il colpo di scena tanto colpo di scena da far pensare a William, il Bardo, là dove dice che la vita è una storia raccontata da un ubriaco: nei primi anni ’60 ras Mangascià Ubié, da tempo vedovo, morì lasciando tutti i suoi averi a quel figlio naturale che non sapeva nemmeno come fosse fatto, e lo fece forse perché preso dagli scrupoli, forse per giocare un brutto tiro ai suoi due figli debosciati, forse perché non aveva mai scordato quella sua amante sottomessa, dalle parole in bocca contate e che non gli aveva mai chiesto niente, forse …
Certo è che un giorno i carabinieri di Rossano, attivati dal Ministero degli Esteri, salirono in montagna, ove Michele era a pascolar pecore, e lo informarono che era diventato un miliardario e bastava solo che raggiungesse Addis Abeba per poi poter volare sui tappeti, come i principi delle fiabe ricchi sfondati e, perciò, si potevano permettere cose negate ai cristiani normali, tanto più se miserabili.
E fu come se in cielo fosse apparsa una stella cometa che s’andò a posare sulla cupogna (grotta) d’un novello redentore le cui carni, però, puzzavano di strame e di lecciata: tutti – nobili e plebei, potenti e stracciati, abbienti e non… – ossequiarono e riverirono Michele (quando l’avevano crocifisso fino a un attimo prima!), gli fecero grandi festeggiamenti, programmarono con lui iniziative e intraprese che avrebbero rivoltato da così a così Longobucco; e lui promise, acconsentì, progettò, intanto spendendo e spandendo sulla parola, che nessuno gli negava niente sperando di intingere il pane in quella succulenta minestra (in primis la Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania che gli concesse fido illimitato contando, tramite lui, di aprire una filiale nella capitale etiope) e consentendogli di far debiti per oltre due milioni d’allora.
E un giorno egli partì per Addis Abeba, dopo aver promesso a tutti, famiglia compresa, di sistemar le cose là e ritornare, ma già nel cielo di Roma, sull’aereo su cui era imbarcato, svaporò ogni traccia di Michele Antonio che lasciò il posto a Micael Mangascià (identità che avrebbe preso di lì a poco, non appena rinunziato alla cittadinanza italiana per assumere quella etiope), il quale, buon sangue non mente, nella stessa Addis Abeba si diede subito alla bella vita, rinnovando pari pari i fasti prima romani e, poi, calabresi del genitore, abbandonandosi a una sorta di delirio fottitorio; e quando tempo dopo la moglie, accompagnata dal figlio, andò a trovarlo anche per richiamarlo ai suoi doveri coniugali, egli promise, firmò – ovviamente con una croce – impegni di mantenimento poi tutti disattesi, e la mise pure incinta; e non mosse un dito né scucì un tallero quando il figlio, in palese stato di denutrizione, stette male e gli italiani là residenti dovettero ricorrere a una colletta per poterlo far ricoverare.
Ma l’ubriaco non aveva ancora finito di raccontar la sua storia.
La perfida, intrigante sorella di Mangascià Ubié, non rassegnata al vedere i nipoti esclusi dall’eredità in favore, oltretutto, d’un bastardo mezzosangue, e lei dalla gestione del potere e dei privilegi a nome e per conto loro, fece causa per far annullare il testamento in favore appunto del bastardo, sempre tutto compreso nel suo delirio carnale, e riuscì ad averla vinta – figuriamoci, con le sue relazioni! – e Micael si ritrovò col culo per terra peggio di prima; il quale Micael, secondo alcune fonti finì ucciso da un sicario della controparte – a che prò considerato che l’avevano restituito all’originario stato minimale? Solo per il gusto del coltello sempre nell’ombra? – mentre, secondo quelle più attendibili, preferì scendere sempre più giù nei bordelli di Addìs Abeba, fino a mendicare, letteralmente, un po’ d’amore carnale e fino a consumarsi giorno per giorno l’ossa, piuttosto che ritornare vinto e umiliato e indebitato a Longobucco.
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