Metti una sera a cena la pera Marzola, il fico Permaloso, la susina Scosciamonaca. "Io faccio con la frutta quello che Pierre Michon fa con la vita degli uomini", spiega Isabella Dalla Ragione, fresca del Premio Nonino sezione "Risit d'aur", dedicato alla civiltà contadina. Il riferimento è a un altro premiato (nella sezione internazionale), autore del toccante Vite minuscole, libro che strappa all'oblio le storie di chi ha vissuto nelle campagne francesi, segnate da emigrazione e povertà. Le mele di Isabella come i paysans di Michon: frutti della terra, dimenticati e negletti.
Il mestiere di Isabella è quello di
archeologa arborea, passione ereditata dal padre Livio: testi, riconoscimenti, documentari, interviste sui giornali di tutto il mondo, una fondazione e un archeo-frutteto a Città di Castello, nel cuore dell'Umbria, testimoniano un'attività instancabile, in equilibrio perfetto tra lo studio di testi medievali e la caccia agli alberi che ancora fruttificano quelle varietà. Una sorta di Indiana Jones dei frutti dimenticati.
È così importante recuperare le vecchie varietà?
"Il frutto è solo la punta di un iceberg. Sotto ci sono territori, tradizioni, esistenze, saperi, appartenenze. Si parla tanto di varietà antiche. Aggiungo "locali". Perché le varietà sono figlie di una terra specifica e hanno uno straordinario valore genetico. Il contrario di quanto succede con l'agricoltura seriale".
Un'operazione culturale, la sua.
"Non solo. Prendiamo le pere, di cui siamo terzi produttori mondiali. Per l'80%, sono Williams, Conference, Abate: trasportabilissime, resistenti, conservabili. Le altre infinite varietà sono finite del dimenticatoio. Eppure, quando nel '600 arrivarono in Italia, le tipologie francesi - Passagrassana, Abate, Decana - convivevano insieme alle nostre. Con il legno del pero si facevano le madie, il mobile più importante della casa: liscio, senza tannini, non poroso, perfetto per conservare i cibi e impastarci il pane. I frati del sacro convento di Assisi la sera mangiavano mandorle, noci e le pere Fiorentine cotte, e il pero Madernassa - che dava il pruss gobb - era un toponimo. In generale, sono scomparse le varietà che non si mangiano crude, visto che cuocerle richiede tempo. Eppure la cottura della frutta è stata a lungo una modalità funzionale, a volte indispensabile al consumo. La frutta cotta era venduta in strada dai più poveri, che non avevano altro da offrire. Dare del peracottaio non era un complimento".
Lei ha studiato arte per supportare la sua ricerca.
"È bellissimo scoprire il rapporto tra frutta e pittura, dal linguaggio simbolico - la cornucopia, trionfo di generosità e benessere - alla documentazione storica. In Piero della Francesca o nel Pinturicchio, i frutti sono testimonianza e la simbologia è potente. Penso al bambino che stringe un mazzetto di ciliegie nel polittico commissionato dalla Badessa del convento di S. Agostino. Oppure i quadri di Francesco Melanzio ospitati nel museo di S. Francesco a Montefalco: uno con una ghirlanda di frutta, l'altro con Madonna, bambino e tre ciliegie bianche, dalla dolcezza straordinaria, totalmente prive di acidità. Poter disporre di tante varietà è fondamentale perché ci permette di attrezzarci contro i cambiamenti climatici. Poi è chiaro che la valorizzazione deve essere a misura, senza pensare di farne dei nuovi oggetti di consumo, che tutti devono avere. Siamo pieni di farro romeno: come viene coltivato pare non interessi a nessuno".
C'è ancora spazio per le buone pratiche agricole?
"La produzione industriale ha fatto dei danni devastanti a tanti livelli, culturale, sociale, paesaggistico, salutistico. L'attività più connessa con la natura è diventata la sua grande nemica. Tornare indietro è difficilissimo, anche perché l'inversione di tendenza è a carico della piccola agricoltura. Chi non fa agricoltura non capisce il legame, il senso di appartenenza, l'identità, valori che invece vanno difesi e promossi".
Un processo faticoso, in controtendenza.
"Abbiamo perso un'occasione enorme con l'Expo, dove non c'è stata nessuna informazione sull'origine del cibo, che è diventato business, più è pornografico più vende e fa audience. La semplificazione del nostro patrimonio vegetale e la superficialità nella comunicazione mi disturbano molto. Personalmente, continuo a studiare, a cercare, ma soprattutto a trovare. È fantastico: malgrado i disastri ecologici di questi anni, resiste una diversità sconosciuta, con stratificazioni storiche e culturali ancora leggibili. È chiaro che ci vuole saggezza per promuovere questo approccio al cibo. Masterchef è più facile, immediato, redditizio, ma va da un'altra parte".
Come supportare i piccoli agricoltori nella vita quotidiana?
"Mai dimenticando quant'è bassa la terra e quanto scotta il sole. Il lavoro della campagna va rispettato".
rispettato".