Lo so che basterebbe solo la copertina o l'articolo con le immagini senza commenti e le immagini dell'articolo riportato nel post e che due parole sono poche ed una è troppo . Ma non ho resistito ad indignarmi contro i negazionisti ed il loro vittimismo \ e piagnisteo .
In essa c’è un rasoio a mano libera esso apparteneva a Ernesto Paganini, barbiere siciliano emigrato da ragazzo a Dalmine, in provincia di Bergamo, morto di Covid lo scorso 15 marzo. Una delle oltre 35mila vittime del virus che l’Italia pare aver dimenticato insieme al pericolo ancora costituito dal virus: la grande rimozione appunto . Oltre a quella sanitaria, c'è poi all’orizzonte l’emergenza sociale, economica e istituzionale. Intanto il Paese avanza nell’illusione che nulla sia cambiato, chiudendo gli occhi dietro la mascherina con on il viaggio di Linda Caglioni e Paolo Arnoldi tra gli oggetti lasciati dai morti del Covid nella provincia di Bergamo, la più colpita sei mesi fa. Cappelli, zaini, magliette, occhiali, una macchina da cucire: per non dimenticare le persone che si identificavano con quegli oggetti e che ora non ci sono più. trovate sotto l'articolo .
Non c’è più neppure la ferita, già rimossa, addirittura negata dal popolo no-mask, che sembra ignorare le tante vite umane perdute. on c’è più neppure la ferita, già rimossa, di cui parla Donatella Di Cesare, addirittura negata dal popolo no-mask, che sembra ignorare le tante vite umane perdute. E poi l’emergenza sociale, con il pericolo che ai focolai di epidemia si aggiungano quelli di malcontento con tutte le conseguenze sulla gestione dell’ordine pubblico (ne scrive Fabrizio Gatti), l’emergenza economica, con il piano per il Recovery Fund imminente e i dubbi in aumento, spiegati da Eugenio Occorsio.
Ma anche l’emergenza lavoro: Maurizio Di Fazio denuncia l’impennata di incidenti mortali dalla fine del lockdown e il provvedimento di regolarizzazione dei migranti non ha raggiunto gli obiettivi che si proponeva, anzi ha alimentato un traffico di contratti falsi (lo racconta il collettivo Lorem Ipsum), mentre aumenta ogni giorno la fascia di popolazione sotto la soglia di povertà costretta ad affidarsi al sostegno del mondo dell’associazionismo e delle organizzazioni del terzo settore, come scrive Emanuele Coen. E ancora gli effetti della pandemia sulle città: il virus ne ha mostrato la forza solidale ma anche le vulnerabilità e la violenza di cui parla la sociologa Saskia Sassen, intervistata da Giuliano Battiston, e l’esempio della città di New York, raccontata da Davide Mamone, che sta vivendo un incubo, con il boom di sparatorie, omicidi e aggressioni.Ma prima di lasciarvi all'articolo in questione vorrei definire a tutti quelli che negano la pandemia e non usano le misure di sicurezza minime che oltre a infettare gli altri cosi offendono la memoria di cloro che sono morti o coloro che per curarli si ammalati e sono sopravvissuti . ma ora basta con i pistolotti e palliatone . buona lettura
LA GRANDE RIMOZIONE
Questi oggetti appartenevano alle vittime del Covid. Immortalarli serve a non dimenticare
Occhiali. Zaini. rasoi. Cappelli. E altre cose appartenute ai bergamaschi uccisi dal coronavirus. Un progetto per non fare finta che nulla sia successo. Ma soprattutto perché la tragedia non si ripeta in autunno
DI LINDA CAGLIONI - FOTO DI PAOLO ARNOLDI 26 agosto 2020
Nel vecchio armadio di una casa di Brembate è piegata con cura una maglia dell’Atalanta. Battista Villa la metteva quando andava allo stadio - e quante soddisfazioni quest’anno, col “Papu” Gomez a far impazzire le difese avversarie. Ma Battista quella maglietta la indossava anche quando andava in ferie con la moglie, la sua Nicoletta, per sfoggiarla nei posti più lontani, dalla Giamaica al Brasile, dal Messico alle Maldive. Sì, perché il Villa viaggiava, anche adesso che ormai aveva superato i settanta, e si sentiva forte come sempre. Quando lo hanno portato via in ambulanza si è quasi arrabbiato con gli infermieri, «guardate che a me mica riuscite a trattenermi in ospedale». Il coronavirus lo ha portato via per sempre lo scorso 15 marzo.
Come Battista, circa seimila bergamaschi sono rimasti finora vittime del Covid-19. Come Battista, se ne sono andati soli, senza poter dire addio ai loro cari. Il primo, giusto sei mesi fa, il 24 febbraio. Si chiamava Franco Orlandi, era un ex camionista di 83 anni, il fiato gli è mancato all’ospedale di Alzano. Da tre giorni il governo aveva imposto la zona rossa di Codogno e Vo’ Euganeo, ma di Bergamo e della Val Seriana si iniziava a parlare appena. E nessuno aveva capito la valanga che stava per precipitare.
Di certo non poteva capirlo Giuseppa Nembrini, “la Rina”, 83 anni, costretta sulla sedia a rotelle da quando ne aveva 69. Obbligata ad affidarsi al marito Giovanni per compiere anche il più semplice dei gesti, l’unico strumento che per anni le aveva restituito un frammento dell’indipendenza perduta era la sua macchina da cucire, una Singer del 1994. Ricurva sulle spoline e sugli aghi, nei pomeriggi d’inverno Rina intrecciava in decorazioni di cotone i fili attraverso cui manifestava il suo talento. Fili con cui, al contempo, si teneva legata stretta alla sua libertà. È morta il 16 marzo, una settimana dopo il marito.
Rina è una delle 188 vittime di Nembro, comune tra i più colpiti del mondo. E le case di quel paese oggi rigurgitano di oggetti da conservare, come gesto di rispetto per chi se n’è andato ma anche come monito per noi che siamo rimasti. Tra questi c’è anche il basco di Ilario Lazzaroni, storico presidente degli artiglieri locali. Aveva ricoperto quel ruolo per quasi 30 anni, andava a tutti i raduni, a tutti i pranzi e le cene, sempre indossando quel morbido cappello nero che, prima di uscire di casa, si sistemava sulla testa di sbieco, come da tradizione. Aveva lasciato il ruolo di presidente solo qualche mese prima di andarsene, spinto dalla moglie e dalla figlia, che premevano affinché si arrendesse all’idea di essere ormai vecchio per ricoprire ruoli organizzativi. Ma lui aveva continuato a dare una mano dove serviva. E quando si presentava l’occasione, indossava la divisa completa. Si infilava i pantaloni, la camicia verde. E, da ultimo, quel basco.
Nella Bergamasca il tributo di morti più alto è stato pagato dalla Val Seriana, ma il dolore è profondo anche nel resto della provincia. A Boltiere, una manciata di chilometri dal confine milanese, esiste una casa in cui è conservata una collezione di modellini d’auto che conta circa una ventina di pezzi invidiabili. Sono quelli che il camionista 57enne Gianbattista Federici, “il Giamba”, aveva raccolto in anni di passione. A volte quella dedizione si esprimeva attraverso la pulizia di ogni modellino gelosamente custodito, tanto che nemmeno all’adorato nipotino Christian - nato da meno di un anno - era consentito giocarci.
Altre volte, invece, assumeva la dimensione caotica dei motoraduni a cui andava insieme alla figlia più grande. Il 2020 doveva essere l’anno in cui “il Giamba” sarebbe andato in pensione. E anche se lui non lo ha mai saputo, la moglie e i figli stavano mettendo da parte i soldi per celebrare il traguardo regalandogli una Cinquecento. Volevano trasformare uno dei modellini che tanto amava in una macchina vera, da poter guidare e non più solo guardare. «Stavi per raggiungere il traguardo che desideravi da tempo, fare il nonno a tempo pieno, dicevi sempre che smettevi di guidare il camion e iniziavi col passeggino. Quel bastardo di Covid ti ha strappato via in una settimana da noi, senza più vederti e senza più darti un bacio, un abbraccio, in modo crudele», ha scritto nel suo necrologio on line la figlia Sara.
Anche Ernesto Paganini, 81 anni, amava la cura dei dettagli. Il suo interesse, però, era rivolto a baffi e capelli. Siciliano di origine, a soli 11 anni aveva cominciato a usare il rasoio a mano libera, come garzone di barberia. Poi, come molti in quegli anni, è emigrato al nord, a Dalmine, cittadina a pochi chilometri da Bergamo, dove ha aperto un negozio di barbiere tutto suo. Presto, però, sono arrivati i figli, e con loro la necessità di uno stipendio più stabile. Così l’Ernesto ha preso la decisione di abbassare per sempre la saracinesca per il posto sicuro nella grande azienda di tubi d’acciaio che da più di un secolo sta proprio lì, a Dalmine. Per tutta la vita, però, ogni volta che aveva le mani libere dai macchinari di fabbrica, le ha usate per tornare al suo vero strumento di lavoro: il rasoio a mano libera con cui, a domicilio, ha sfoltito centinaia di barbe ad amici e anziani di paese.
Da quando tutto è cominciato, il conteggio dei morti nella bergamasca (come altrove) si è scontrato con la difficoltà di raccogliere un dato oggettivo, fedele alla realtà. Molte persone nei centri per anziani, oggi si sa, se ne sono andate senza che venisse attestata la vera causa del loro decesso. Tra loro c’è Severina Mariani, una mamma e una nonna di Madone, 90 anni che avrebbe festeggiato il prossimo 12 settembre. Prima che si trasferisse in una Rsa - proprio in quei primi giorni di marzo - la si poteva scorgere nel giardino di casa con le esili spalle avvolte in uno dei suoi tanti scialli. Quei pezzi di stoffa, in cui i fili di lana intrecciati gli uni agli altri parevano comporre mosaici di fiori, erano creazioni che la sorella imbastiva per lei. Nell’armadio, ne conservava di diversi colori, da scegliere a seconda delle sfumature del giorno. Poco importava che facesse caldo o freddo: Severina ci teneva ad averne sempre uno indosso, per difendersi dai possibili soffi di vento. Anche quando il termometro segnava 30 gradi all’ombra.
A Osio Sopra, paesone di cinquemila abitanti a una decina di chilometri da Bergamo, viveva Emilio Cadei, 77 anni, ex operaio della Tenaris - sempre i tubi Dalmine, ma oggi la fabbrica si chiama così. Emilio era, come tanti bergamaschi, un burbero dal cuore buono, un uomo poco avvezzo ai grandi giri di parole e molto più a suo agio quando si trattava di affari pratici. Come quello di accendere la stufa a legna su cui scaldava le patate e preparava le caldarroste per la sua famiglia. E quando a settembre arrivava il momento di uccidere il maiale grasso, Emilio si alzava con i primi raggi di sole, raccoglieva nel silenzio del cortile ceppi e tronchetti, per stiparli in quella vecchissima stufa. Con pazienza, aspettava il momento in cui avrebbe udito la legna cominciare a scoppiettare. Lui se n’è andato il 28 marzo, la sua vecchia stufa è ancora lì a Osio, ma nessuno la farà più funzionare.
Ogni luogo ha i personaggi che tutti conoscono. A Bergamo, il 67enne Giuseppe Rota “il Bepi”, era uno di quelli. Per chi bazzicasse a Monterosso, quartiere in cui viveva, era probabile vederlo camminare a passo spedito col suo zainetto sulle spalle. Quello era l’accessorio che, con i portachiavi che vi aveva appeso e i drappi di stoffa che vi aveva cucito, testimoniava i ricordi dei viaggi che più aveva amato. Lo portava con sé anche per le brevi passeggiate, quando non ci metteva dentro che poche cose, una copia di Repubblica, le caramelle alla frutta. Ma non se ne separava nemmeno per i viaggi più importanti. Era in quello stesso zainetto che l’anno scorso aveva stipato l’indispensabile per affrontare, insieme alla moglie, i 50 giorni di viaggio lungo il cammino di Santiago. Del resto lui era stato un alpino, e come tutti gli alpini lo era ancora. È morto il 30 marzo. «Ciao papo, avevamo ancora troppe cose da dirci e da fare insieme, poche persone hanno avuto la fortuna di aver un papà così speciale», ha scritto il figlio nel necrolgoio sull’Eco di Bergamo.
Sandro Gamba, 73 anni, era il vicepresidente del circolo fotografico di Dalmine. L’espressione assorta che assumeva prima dello scatto era nota a tutti, nella sua cittadina, anche se nessuno ne conosceva le increspature meglio di sua moglie e dei suoi figli. Perché loro vi erano stati abituati da sempre, in occasioni di vita quotidiana come di vita vacanziera. Ed erano abituati al fatto che, al ritorno dalle ferie tutti insieme, Sandro si sarebbe chiuso nel laboratorio fotografico che si era arrangiato a costruire in cantina. Avrebbe passato ore a sviluppare gli scatti fatti alla sua famiglia. Poi avrebbe steso un telo bianco in salotto. Li avrebbe chiamati a raccolta. E avrebbe proiettato davanti ai loro occhi le diapositive di momenti insieme che, con la sua macchina fotografica, era riuscito a fermare nel tempo. Volontario di Anteas, distribuiva i pasti agli anziani e per anni è stato una delle figure di riferimento della parrocchia di San Giuseppe. Amava la luce della primavera - e se n’è andato nell’ultimo giorno dell’inverno più buio di sempre
A Osio Sopra, paesone di cinquemila abitanti a una decina di chilometri da Bergamo, viveva Emilio Cadei, 77 anni, ex operaio della Tenaris - sempre i tubi Dalmine, ma oggi la fabbrica si chiama così. Emilio era, come tanti bergamaschi, un burbero dal cuore buono, un uomo poco avvezzo ai grandi giri di parole e molto più a suo agio quando si trattava di affari pratici. Come quello di accendere la stufa a legna su cui scaldava le patate e preparava le caldarroste per la sua famiglia. E quando a settembre arrivava il momento di uccidere il maiale grasso, Emilio si alzava con i primi raggi di sole, raccoglieva nel silenzio del cortile ceppi e tronchetti, per stiparli in quella vecchissima stufa. Con pazienza, aspettava il momento in cui avrebbe udito la legna cominciare a scoppiettare. Lui se n’è andato il 28 marzo, la sua vecchia stufa è ancora lì a Osio, ma nessuno la farà più funzionare.
Ogni luogo ha i personaggi che tutti conoscono. A Bergamo, il 67enne Giuseppe Rota “il Bepi”, era uno di quelli. Per chi bazzicasse a Monterosso, quartiere in cui viveva, era probabile vederlo camminare a passo spedito col suo zainetto sulle spalle. Quello era l’accessorio che, con i portachiavi che vi aveva appeso e i drappi di stoffa che vi aveva cucito, testimoniava i ricordi dei viaggi che più aveva amato. Lo portava con sé anche per le brevi passeggiate, quando non ci metteva dentro che poche cose, una copia di Repubblica, le caramelle alla frutta. Ma non se ne separava nemmeno per i viaggi più importanti. Era in quello stesso zainetto che l’anno scorso aveva stipato l’indispensabile per affrontare, insieme alla moglie, i 50 giorni di viaggio lungo il cammino di Santiago. Del resto lui era stato un alpino, e come tutti gli alpini lo era ancora. È morto il 30 marzo. «Ciao papo, avevamo ancora troppe cose da dirci e da fare insieme, poche persone hanno avuto la fortuna di aver un papà così speciale», ha scritto il figlio nel necrolgoio sull’Eco di Bergamo.
Sandro Gamba, 73 anni, era il vicepresidente del circolo fotografico di Dalmine. L’espressione assorta che assumeva prima dello scatto era nota a tutti, nella sua cittadina, anche se nessuno ne conosceva le increspature meglio di sua moglie e dei suoi figli. Perché loro vi erano stati abituati da sempre, in occasioni di vita quotidiana come di vita vacanziera. Ed erano abituati al fatto che, al ritorno dalle ferie tutti insieme, Sandro si sarebbe chiuso nel laboratorio fotografico che si era arrangiato a costruire in cantina. Avrebbe passato ore a sviluppare gli scatti fatti alla sua famiglia. Poi avrebbe steso un telo bianco in salotto. Li avrebbe chiamati a raccolta. E avrebbe proiettato davanti ai loro occhi le diapositive di momenti insieme che, con la sua macchina fotografica, era riuscito a fermare nel tempo. Volontario di Anteas, distribuiva i pasti agli anziani e per anni è stato una delle figure di riferimento della parrocchia di San Giuseppe. Amava la luce della primavera - e se n’è andato nell’ultimo giorno dell’inverno più buio di sempre
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