di cosa stiamo parlando
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Eppure Sono trascorsi 251 anni da quando il Capitano Cook annotò in Polinesia
la consuetudine degli abitanti di quelle isole di ricoprire il proprio
corpo di segni, per cui tradusse l'espressione tau-tau, usata a Tahiti,
nell'inglese tattoo, da cui viene la parola tatuaggio. Vero che nel
corso dell'Ottocento a disegnare sulla propria pelle sono stati prima di
tutto le fasce borderline e marginali della popolazione occidentale,
marinai, soldati, carcerati, prostitute, ma questo accadeva
oltre un secolo e mezzo fa. Poi, a partire dagli anni Cinquanta del
Novecento, settori sempre più ampi della popolazione giovanile hanno
trasformato il proprio corpo in una superficie su cui scrivere. Il
corpo, ha sottolineato l'antropologo Marc Augé, è insieme la nostra
parte più intima e quella più pubblica, racchiude l'interiorità ed
espone l'esteriorità. Per dirla con un termine in voga, è
un'interfaccia reale non telematica \ virtuale .Da sempre su questa superficie le società umane hanno scritto, lasciato
marchi, come mostrano le tracce incise sul corpo di un uomo di 5300 anni
fa, ribattezzato Otzi, ritrovato sulle Alpi alcuni decenni fa. Sovente
si è trattato di pratiche di dominio, cui gli uomini e le donne
cercavano di sottrarsi. Oggi invece sono i giovani stessi a marchiare il
proprio corpo, a segnare come su un foglio momenti salienti della
propria vita: esperienze, incontri, amori, dolori, fantasie, sogni,
immaginazioni. Scrivere sulla propria pelle è oltre che una moda un modo per manifestare
una forma di possesso, sentire e far sentire agli altri la propria
esistenza, e dunque la propria identità.
Lo psicoanalista francese
Didier Anzieu sostiene che si tratta di una forma di ridefinizione del
proprio confine estremo, un modo con cui si differenzia il proprio sé
rispetto agli altri, per far percepire che dentro il corpo c'è qualcosa e
non il nulla. Nella nostra società l'idea della pelle come confine
inviolato è tramontata. Tatuandosi i giovani esprimono un'appropriazione
di se stessi, o meglio di quel corpo che possono sentire, di volta in
volta, brutto, imprigionato, impotente, abusato, inadeguato, controllato
da altri.Scrivere sulla propria pelle è un modo per manifestare una forma di
possesso, sentire e far sentire agli altri la propria esistenza, e
dunque la propria identità; e a volte persino per sedurre: il tatuaggio
rende "particolari". Per cui appare retrograda la decisione di escludere
una giovane donna dal corpo della Polizia di Stato per un tatuaggio,
che per altro ella stessa ha cancellato con il laser.Ecco quindo che la decisione di punire colei che si fatta , poi rimosso perchè ligia alle leggi , il tatuaggio appare singolare ed anacronistica . Infatti la decisione della punizione ( e il regolamento che li vieta ) appare oggi dal punto di vista culturale ed antropologico si presenta
arretrata rispetto al costume contemporaneo, alle consuetudini e alle
azioni delle giovani generazioni, frutto di una mentalità che non tiene
conto delle trasformazioni avvenute nel costume. Arianna, questo il nome
della giovane poliziotta, come riferiscono le cronache aveva tatuato a
diciotto anni un cuore sul polso e per questa ragione, e non per altro, è
stata esclusa dal corpo di polizia, come se questo costituisse un
marchio d'infamia o qualcosa di vergognoso ed esecrabile . I tatuaggi dei ragazzi e dei giovani non lo sono più
da parecchio tempo. Forse ad alcuni possono non piacere, ma si tratta di
una preferenza individuale e non un giudizio che può assumere un
rilievo sociale. Per questo anche la sentenza favorevole all'esonero del
Consiglio di Stato stupisce. Non sarà che proprio l'essere donna
tatuata - tatuaggio minimo per altro - costituisce ancora un marchio
d'esclusione ed infamia ? concludo con questa citazione dela protagonista : << il tatuaggio mi è costato la divisa. Ma quando salvi qualcuno non è la tua
pelle che conta >>
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