Sorelle e fratelli d'Italia. Così sui diritti lo sport supera la politica


repubblica   16 SETTEMBRE 2022 ALLE 09:05 


Sono più di un milione, hanno meno di 18 anni, e anche se nati qui per la legge restano degli stranieri. Tranne in un caso: quando mettono le scarpette e corrono più veloci degli altri. Inchiesta
  
                                               di Angelo Carotenuto

L'ultima cosa di cui avevano bisogno, era che diventassero materia di campagna elettorale, una polpa nel mercato dei voti. La penultima è che di loro non si parli affatto. Sono i teenager che finiscono dentro una formula, lo ius soli, lo ius scholae, c'è sempre uno ius qualcosa sulla carta, solo la carta che le rende italiane e italiani non c'è mai. Sono le nostre figlie o le loro compagne di classe, sono i nostri vicini di casa, si spogliano in piscina e in palestra sulla panca accanto. Qualche volta suonano la chitarra nelle nostre parrocchie, in qualche altro caso hanno dato un nome diverso a Dio. Parlano con l'accento di uno
Le azzurre della staffetta 4x100 che ha conquistato il bronzo agli ultimi Europei di atletica.
 Da sinistra: Zaynab Dosso, Anna Bongiorni, Dalia Kaddari e Alessia Pavese. 
Getty Images for European Athle


dei nostri dialetti, studiano sugli stessi testi comprati nelle stesse librerie. Hanno passioni e sogni uguali. Ma sono fantasmi.
Più di un milione di loro sotto i 18 anni abita nel nostro Paese senza cittadinanza, circa l'11 per cento del totale della popolazione in quella fascia d'età. Tre su quattro sono nati qui. Secondo il report Istat dell'ottobre 2021 sono concentrati per il 73 per cento in sei regioni: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Lazio e Toscana. Nella sola Lombardia risiede un quarto di loro. Non possono andare a studiare all'estero, compiranno 18 anni senza la certezza di avere diritto al voto. Tecnicamente: degli stranieri. Nella sostanza: degli invisibili. Tranne in un caso. Quando mettono un paio di scarpette e corrono più veloci degli altri, quando schiacciano la palla più forte saltando a tre metri d'altezza sopra la rete, quando con i guantoni, dentro le corde di un ring, danzano e picchiano, picchiano e danzano.
Lo sport è quel settore della società che riconosce i minori nati in Italia come italiani, prima ancora che abbiano preso il passaporto. La politica è stata messa dinanzi al fatto compiuto. Nel gennaio 2016 il Parlamento è stato spinto a riconoscere con una legge ciò che esisteva già, "le disposizioni per favorire l'integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia, mediante l'ammissione nelle società sportive". Questa specie di ius sportis consente di essere tesserati dall'età di 10 anni con le stesse procedure previste per i cittadini italiani. Non permette ancora di vestire una maglia azzurra: sono i regolamenti internazionali a negarlo. Ma quando finalmente arriva insieme al passaporto, il principio coltivato dall'Italia della mescolanza diventa abbagliante.
Sentiamo ancora la necessità di dare a questa società che muta un nome che operi un distinguo, ma facciamo fatica a trovarlo. Li chiamiamo italiani di seconda generazione, la formula sulla quale già 25 anni fa rifletteva Tahar Ben Jelloun nel suo libro Nadia, scrivendo a proposito della Francia: "Non siamo immigrati. Non abbiamo fatto il viaggio. Non abbiamo attraversato il Mediterraneo. Siamo nati qui, su questa terra, con facce da arabi, in periferie abitate da arabi, con problemi da arabi e un avvenire da arabi. Siamo figli di città in transito; siamo qui a chiederci cosa ci stiamo a fare".

Yeman Crippa, nato in Etiopia nel ’96, nel 2001 è stato adottato da una coppia milanese. Agli Europei ha vinto l’oro nei 10 mila metri. Matthias Hangst/Getty Images


Agli ultimi Europei di atletica leggera, un terzo della squadra apparteneva a questa nuova Italia che chiede di veder cancellati aggettivi e specificazioni. Yeman Crippa, oro sui 10 mila metri, è stato adottato in un orfanotrofio etiope, con fratelli e cugini, da una famiglia milanese. Sul podio dei 3 mila siepi, secondo e terzo, sono saliti Ahmed Abdelwahed (che però pochi giorni fa è risultato positivo al test antidoping effettuato proprio durante la manifestazione) e Osama Zoghlami, il primo romano, famiglia egiziana, il secondo nato con il gemello Ala in Tunisia, giunto in Sicilia a due anni con i suoi. La staffetta di bronzo ha avuto le sue colonne in Zaynab Dosso e Dalia Kaddari, una nata in Costa d'Avorio, arrivata in Emilia per ricongiungimento familiare, l'altra sarda, con un papà di origini marocchine. A Emanuela Audisio che lo intervistava a metà agosto per Repubblica, il direttore tecnico Antonio La Torre diceva: "Ormai colore della pelle e origini diverse non dovrebbero più fare notizia. Mi auguro che sarà così anche dopo le elezioni. L'atletica mi sembra lo sport che più accoglie, molti Paesi si sono mossi prima di noi, ma ora anche l'Italia è squadra integrata".

Ahmed Abdelwahed (a sinistra) e Osama Zoghlami, argento e bronzo europei nei 3000 siepi. Matthias Hangst/Getty Images



Nei posti dove le cose accadono con naturalezza, succede che alla fine vinca l'ovvietà. Quattro anni fa, la staffetta 4x400 di Maria Benedicta Chigbolu, Ayomide Folorunso, Raphaela Lukudo e Libania Grenot si mise in posa con la bandiera tricolore dopo l'oro vinto ai Giochi del Mediterraneo. Era il giorno del raduno leghista di Pontida. Mentre venivano un po' strattonate per la canottiera come simbolo dell'Italia multirazziale, il compagno di squadra Filippo Tortu disse. "Sono tutte nere? Non ci avevo fatto caso". In genere ci fa più caso chi le barriere le alza. Bruno Barba, antropologo, ultimo libro Il corpo, il rito, il mito (Einaudi, 2021), dice che "l'identità è spesso una finzione, una costruzione strumentale, opportunistica. Ne abbiamo bisogno, ma andrebbe vissuta con la consapevolezza che non è immobile né inequivocabile. Segue le tracce delle nostre storie, nelle quali la cultura agisce più del dna. Non si fa che parlare di sport come metafora della vita e specchio della società. Sarebbe il momento di dimostrarlo. I successi dei nuovi italiani non fanno che indicare come la società vada verso una profonda ibridazione. Qualunque tipo di pensiero opposto è destinato al fallimento. Parlo da antropologo, ma su questo aspetto dovrebbe riflettere la politica. Il mondo è andato avanti grazie al contatto e alla mescolanza, alla parola 'meticciato' che mi sta a cuore. Ci stupiamo di un cambiamento che è invece il timbro dell'umanità e dell'Italia stessa, mediterranea. Le giovani generazioni sono più pronte delle precedenti a sintonizzarsi su certi principi, la tanto criticata scuola rende tali contesti fruibili ogni giorno".

Paola Egonu, opposto della Nazionale di volley, nata in Italia da genitori nigeriani. Toru Hanai/Getty Images



Gli sport più presenti nelle scuole sono quelli in cui l'Italia della mescolanza è più spiccata. Con una serie di progetti negli istituti di elementari e medie, la Federazione hockey ha offerto un terreno d'incontro per le figlie degli immigrati d'area asiatica e le figlie di italiani. La Nazionale femminile se ne sta giovando. Il tennis invece fa più fatica a uscire dalla condizione e dalla percezione di sport d'élite. Vive un suo boom di risultati e di popolarità, ma non ha ancora sfondato quella porta.
La prima federazione a intuire dove si potesse arrivare, fu quella di pugilato. Alberto Brasca, suo presidente tra 2013 e 2016, racconta: "Non siamo più lo sport del sottoproletariato tradizionale, le palestre sono frequentate a livello amatoriale anche da studenti universitari. Tuttavia non siamo il golf. Restiamo un polo di inclusione nelle periferie e nelle aree del degrado. Quando ero assessore allo Sport a Firenze, si faceva fatica a mandare i figli dei residenti nei campi rom a giocare in una squadra di calcio o in piscina. I genitori degli altri ragazzini resistevano. Le palestre erano gli unici luoghi in cui invece venivano accettati. Questa vocazione all'accoglienza ci fece deliberare in Federazione il via libera al tesseramento come italiani per gli stranieri sotto i 16 anni, con certificato di residenza". La boxe è stato così il primo sport ad avere per campioni d'Italia degli italiani senza passaporto.
La pioniera fu Dorota Kusiak, polacca, titolo nella categoria dei 57 kg, arrivata alla Costantino Boxe di Ferrara da minorenne, per seguire i genitori che cercavano un lavoro in Italia. Oggi ha la cittadinanza, ma vive qualche imbarazzo a parlare del tema. È diventata assessora alla Pubblica istruzione e alle Politiche familiari in quota Lega. "Ho vinto un titolo italiano nel 2014" dice. "Grazie a una apertura della Federazione verso atleti non cittadini italiani. Ciò premesso, ritengo che un conto sia lo sport un altro la cittadinanza italiana, un tema assai più ampio. E lo dico a ragion veduta: per anni sono stata in Italia senza esserne cittadina, ho frequentato le scuole, avuto accesso ai servizi, non mi sono mai sentita discriminata. Ritengo giusto che si possa accedere alla cittadinanza dopo un percorso che culmina nella maggiore età, un percorso consapevole, con i tempi necessari per acquisire piena coscienza di ciò che vuol dire essere cittadini di un Paese, tra diritti e doveri".
La prossima settimana inizia il suo cammino ai Mondiali la Nazionale femminile di pallavolo, la squadra azzurra più aperta alla contemporaneità. In una ricerca dello scorso anno a cura dell'Istat, dal titolo Identità e percorsi di integrazione delle seconde generazioni in Italia, emergeva la centralità di bagher e schiacciate tra le figlie degli immigrati, come strumento di espressione di sé e di inclusione. Si gioca a pallavolo per appartenere, mentre tra i maschi i numeri segnalano un legame che rimane stretto con gli sport dalle radici familiari: i ragazzi della comunità albanese giocano a calcio, i filippini e i cinesi a basket, dall'Europa dell'Est scelgono sport di combattimento.
L'Italia con più figlie dell'immigrazione, sotto rete, è già campione d'Europa. Sono così avanti, beate loro, che si sono stufate di parlarne

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