9.12.24

MOLTE PERSONE SI ROVINANO CON LA CHIRURGIA: PERCHÉ LO FANNO ?

N.b
non voglio fare il censore o il bacchettone perchè ogni uno di noi è libero di fare del proprio corpo , se consapevole , fare quello che vuole , purché non danneggi gli altri e non si lamenti se poi alcuni  la criticano e la giudicano .Ma  Soprattutto  non dicano  a  gli altri  che  non  capiamo ....  niente . Rivendico     il  diritto  di essere  brutti   e  piacersi  lo stesso ovvero la bellezza    naturale     non artificiale ed  imposta   


stavo  cercando  dei giornali  per  accendere il  fuoco   ed   ho  trovato mi pare sul  settimanale  giallo  delle  scorse  settimane    questo botta    è risposta  tra  Carmen  (  nome reale  ? )   e  psicoterapeuta    Valentina Marsella




Come si spiega il comportamento di chi ricorre alla chirurgia estetica in modo massiccio, fino
a deturpare il proprio aspetto senza rendersene conto? Sono persone che non riescono a fare pace con il proprio  corpo?
                           Carmen

È una questione complessa che coinvolge l'immagine di sé, andando oltre la naturale insoddisfazione che può trovare una soluzione nel “ritoccare” solo gli inestetismi che non piacciono.La società moderna promuove ideali di bellezza spesso irrealistici, che alcuni inseguono incessantemente. In quest ottica la chirurgia estetica può creare dipendenza psicologica e ogni intervento può dare un sollievo momentaneo, che ne richiede altri per essere nuovamente sperimentato. Seppure con sfumature molto diverse per ciascuno, un senso di sé fragile può portare a considerare la chirurgia come la soluzione a difficoltà più profonde che toccano temi come il sentirsi amati o accettati e la difficoltà di fare pace con sé stessi. È difficile accettare le imperfezioni come parte della propria unicità, ma essere aiutati permette spesso di trovare un equilibrio.

Esso  ha    insieme  a    questi due video  bellissimi




 e     formativi   ciascuno  a  modo  suo   

 

confermano  quanto penso e  ho  scritto  d'anni  sui   guasti  e  abbruttimento   spesso letali  come dimostrato da recenti fatti  di cronaca   , ovviamente  senza  generalizzare  perchè  c'è  chi ricorre  alla  chirurgia estetica  non per  problemi psicologici   gravi citati prima   ma    anche per  motivi di  salute,   dell'uso massiccio ed acritico  ( vedi una delle  protagoniste del secondo  video )  della chirurgia  estetica   \  plastica.  Infatti  leggo    sul Fq   d'oggi l'intervista  a  Roberta Lovreglio, coordinatrice nazionale dei centri di medicina rigenerativa della Lilt (Lega per la lotta ai tumori) 

Le giovanissime sono schiave di tik tok  l’intelligenza artificiale le manda a questa specie di macero

corporale
A tredici anni le labbra alla russa, a quattordici gli occhi a coda di volpe. quindici - con le prime paghette - una siringa con le amiche di acido ialuronico. E poi a diciotto anni, finalmente, il seno.
Ci sono date e date. Compleanni e ricorrenze. C’è il regalo di Natale e il diciottesimo. C’è da scegliere se essere belle o bellissime. Addirittura perfette. Ci sono ragazzine e ragazzine.
Nello studio di Roberta Lovreglio,  c’è un via vai di mamme.
È l’effetto collaterale di un fenomeno enorme che coinvolge le quasi bimbe e le rende drammaticamente adulte, trasformando la pubertà nella via disgraziata a quel che si ritiene sia la felicità.

La corsa all’ingiù verso il felicemente rifatto.

Le nuove schiave di tik tok, di instagram, dei filtri fotografici. La folla ansiosa di giovanissime che l’intelligenza artificiale manda a questa specie di macero corporale.

Nel suo studio vengono e chiedono.

Noi non rispondiamo alle loro esigenze, chiamiamole estetiche e fermiamoci qui, ma con trentadue anni di esperienza vuole che non abbia sentito, visto, diagnosticato i più tristi fenomeni di rimodellamento?

La mamma per il diciottesimo compleanno della figlia.

Dottoressa, avevo promesso che con la maggiore età le avrei regalato il seno e non mi sento di negarglielo.

Il seno d’oro.

Il seno costicchia: siamo sui diecimila euro. Ambisce al senso rifatto quella figliolanza del ceto medio alto, le figure femminili che la pubertà le ha trasformate in piccole donne. Mai state bambine, mai interessate a studiare, poco amanti dello sport. Tanto tempo libero e tanto computer.

Lei prima diceva: ci sono ragazze e ragazze.

Esattamente: c’è la generazione botox, dove l’apparenza è la più cospicua forma di gratificazione, e il resto del mondo femminile che studia, fa sport, s’innamora e non pensa al rinofiller.

Il naso coi fiocchi.

Ieri la figlia di un carrozziere è venuta da me a espormi il suo dramma. Dopo essersi fatta rifare il naso ha notato, guardandosi per settimane intere allo specchio e credo perdendosi in esso, dei millimetri di differenza tra la narice destra e quella sinistra. Un fatto invisibile agli altri umani, a chiunque l’avesse osservata, e invece una dismetria sconvolgente per lei. Che l’ha portata a chiedere una seconda prova di rimodellamento, a infliggere un’ulteriore pena al suo corpo. La tristezza sa

qual è stata?

Il padre accondiscendente.

Quel papà che piegava il capo, assicurandole ogni comprensione.

I papà fanno queste cose?

In genere no, sono le mamme.

Soprattutto quelle mamme che hanno trovato già gratificante per se stesse un bel paio di labbra.

Oggi per le più piccine vanno di moda le labbra alla russa.

Sul web si vendono queste fiale di acido ialuronico, si fanno le collette settimanali per farsele iniettare. Pochi soldi, tanti rischi.

Come se ne esce?

Solo entrando nelle scuole a spiegare, illustrare, confortare. Forse bisognerebbe prima entrare nella testa delle mamme.

Le mamme di quelle ragazze che non trovano sicurezze nello studio, non

Fanno le collette per comprare sul web acido ialuronico: pochi soldi, tanti rischi

hanno un lavoro né un hobby qualunque.

Non studiano, escono poco.

Stanno davanti allo specchio nei pochi momenti di libertà dall’assillo del telefonino.

È lì il processo ricostituente.

Lì guardano le bellissime, quelle che i filtri magici rendono così perfette da essere inimitabili e decidono la scalata verso il paradiso.

Mamma, per Natale voglio farmi all’occhio l’effetto a coda di volpe. Allungarlo, a mo’ di giapponesina.

L’occhio per Natale per le più piccine.

Soprattutto le labbra per Natale.

Il seno al compleanno. Piccola, la mamma ti promette che a diciotto anni ti regalerà il seno.

E a venticinque? Liposuzione, eccetera.


Sono cose nostre Fiaba semiseria: la mafia, le scimmiette e le rane dalla bocca larga , femminicidi

 



La cassiera parlava, parlava. A voce alta. Le due persone davanti a lei chiedevano affabilmente, a voce più bassa. Alla signora sembrava di non essere all’altezza se non rispondeva a tutte le domande. Quasi volesse dire: e credete che io, regina di questo bar, non sappia quel che mi state chiedendo? Regalava a ignoti (figurati mai se può essere la mafia, che c’entra mai la mafia?), la classica “spalla” innocente. Ne impersonava una decisiva sottospecie: la rana dalla bocca larga. Ho assistito alla scena sempre più incredulo in un bar accanto al Palazzo di giustizia di Milano. Per almeno un quarto d’ora. E sono così riandato alla domanda regina, quella che da decenni sento alla fine degli incontri a cui partecipo: ma io che cosa posso fare contro la mafia? La domanda reca timbri di voce diversi, dell’adolescente curiosa come dell’anziano scettico verso le cose del mondo. In una scuola, al convegno di un ordine professionale, a un circolo di partito.

Già, che cosa possiamo fare?, fa eco un altro. A quel punto fioccano progressivamente le risposte. Niente, sono troppo forti. Bisogna informarsi, leggi X, in televisione senti Y, che dice le cose come stanno. Schierarsi con in magistrati, contro il governo che li vuole zittire. Vota le persone giuste, non mandiamo complici nelle istituzioni. Dobbiamo sostenere i prodotti dei beni confiscati. Bisogna iscriversi tutti a un’associazione antimafia. Ci vuole il monitoraggio civico, per fermarli pripensato ma, dice il più istruito di tutti.

Ecco, vedendo e sentendo la cassiera, e ripensando al suo servizio di assistenza gratuito, mi sono rafforzato in una convinzione: che a queste risposte, che sono tutte dotate di senso tranne la prima, ne va aggiunta una fondamentale che vi sembrerà sorprendente: parlare di meno, e a voce più bassa. Questo possiamo fare. Ma come, direte, è proprio la mafia che impone di non parlare, di fare come le tre scimmiette. Appunto, perché le conviene che di lei non si parli. Ma a sua volta le conviene, e molto, che gli altri parlino di sé stessi e della vita quotidiana dei propri simili. Questo lo vuole eccome.

Credo cioè che ancora non sia chiaro un principio, a dispetto delle tonnellate di libri sulla mafia: che la prima, primissima risorsa della mafia non sono i soldi ma le informazioni. Tante, aggiornate, su tutti, come neanche lo Stato si sogna di averne. Ottenute gratuitamente. Non ci avete mai che proprio là dove dovrebbe regnare il silenzio delle scimmiette è sorto invece il detto “qui anche i muri hanno le orecchie?”. Silenzio da un lato, saper tutto dall’altro. Riuscendoci grazie a quell’alleato prezioso: la rana dalla bocca larga. La nostra cassiera che parla e poi parla. Sì il giudice viene qui sempre alle..., le pulizie su credo che le faccia l’impresa..., c’è la ditta che fa i lavori..., in genere sono insieme, sì sono molto amici...

Ci si domanda come le sappia quelle cose. Chissà quante rane dalla bocca larga sono passate e passano dal suo bar a seminare informazioni, compiaciute di averle e di cui non sanno che farsi; ma che sono utilissime ad altri. Tempo fa in un ristorante di Brescia un magistrato sentì provenire da un discorso fatto a voce altissima (perché bisogna far vedere che “si sa”!), notizie personali che mi riguardavano. O forse che il procuratore Caccia non venne ucciso a Torino anche grazie alle notizie che gli addetti ai lavori diffondevano sul suo operato al bar del tribunale, sorvegliato da malintenzionate orecchie criminali dall’altra parte del bancone? E d’altronde come si viene a sapere dove vanno a scuola le bimbe di “quella signora così gentile e simpatica” e che è in realtà l’impiegata che blocca una pratica illegale, se non da un collega che vuole fare il cordialone con lo sconosciuto? Ricordate: ci chiedono di fare le tre scimmiette con gli affari loro e la rana dalla bocca larga con i nostri. Perché non rovesciamo?

IDEE E SE COMINCIASSIMO INVECE NOI A PRATICARE IL SILENZIO?


A mio avviso  , lo  stesso  pensiero   di Nando  dalla  Chiesa  , sopra   riportato  ,  potrebbe  essere    applicato ai casi  di  femminicidio    \  violenza    di genere   quelli  che   per  usare  un  termine  alla  moda    vengono  chgiamati  ,  coime   la   famosa trasmissione  Rai  amori  criminali 

Infatti  si parla  troppo ,  al 95  %  in maniera   morbosa   e  cronmachistica   senza  ( salvo eccezioni   soprattutto  nella  settimana  el  25  novembre  )   analizzare  in profondità  il   fenomeno   e le  cause  antopologiche   sociali    di  un fenomeno   ormai diventato emergenza    sociale 




8.12.24

Giulia Cecchettin, la sorella Elena contesta la sentenza su Turetta ma i familiari non erano contro l'ergastolo ?

 E' vero   e sono  d'accordo     elena   cecchetin    quando  dice  : «Sapete cosa ha ucciso mia sorella? Non solo una mano violenta, ma la giustificazione e il menefreghismo per gli altri stadi di violenza che anticipano il femminicidio » .Per  il  resto non la  capisco e  non li  capisco  dicono  d'essere  contro l'ergastolo  e  poi ricorrono  la  sentenza   che  ha condannato il  carnefice del loro  familiare  .  Non  è accanimento  verso  uno che  è  stato  già  condannato  ad  una  pena   pesante  ,  cosa   rara  nel casi  di violenza  di genere  o meglio   di femminicidio   ? 

Elena Cecchettin. (Getty Images)



Mai poi rileggendo meglio le sue storie sui social mi accorgo che ha ragione la legge va modificata lo stalking dovrebbe essere considerato un aggravante Perché, come lei stessa sottolinea,  su  ;   Elena Cecchettin contro la sentenza per Filippo Turetta
in iO Donna  « la violenza non inizia con il coltello o con il pugno. Inizia molto prima, si insinua sottile nelle pieghe della quotidianità, si maschera da attenzione ossessiva, da gelosia, da controllo ».


Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata XII . quando la LEGITTIMA DIFESA, QUANDO È POSSIBILE E QUANDO NO . e se vi aggerediscono in due

puntate  precedenti  


Cosa succede se fate del male a qualcuno che decidete deliberatamente di colpire, dopo che siete stati minacciati da lui? Le conseguenze sono disciplinate in maniera chiara: nel caso di legittima difesa domestica la legge 36/2019 sancisce che non è punibile chi ha agito per la salvaguardia della propria o altrui incolumità e si trovava in stato di minorata difesa ovvero in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto (art. 55 c.p.). Insomma, difendervi è un vostro sacrosanto diritto,
anche se talvolta alcuni episodi di cronaca che hanno conquistato il palcoscenico dei media possono farvi dubitare della cosa. Resta il fa!o che potete difendere voi stessi o un altra persona da un aggressione, a patto che la difesa non superi l'offesa. Ma cosa significa? Significa che se un aggressore vi minaccia con un coltello attentando alla vostra vita, avete la facoltà di renderlo inoffensivo dal momento che la difesa è proporzionale all offesa che state subendo, vostro malgrado. Occorre però prestare particolare a!enzione a certe sfumatureche paradossalmente potrebbero me!ervi nei guai. Per esempio, se durante un diverbio una persona vi spintona, reagire con un pugno in faccia renderebbe la vostra difesa superiore all'offesa e sareste quindi perseguibili per legge.
 Il dibattito sulla legittima difesa è acceso più che mai, e talvolta anche strumentalizzato da politici che scelgono di cavalcare la questione perché consapevoli della sensibilità e dell'attenzione della cittadinanza. Quello che dovete avere ben chiaro è che è un vostro diri!o difendervi, senza naturalmente sfociare in condo!e di violenza fuori controllo o che ricordino il Far West. Tenete bene a mente che la vostra reazione deve essere necessaria per salvaguardare il bene che si trova in una condizione di pericolo. Avete due possibilità, insomma: reagire o subire l'offesa. L'inevitabilità o meno della reazione verrà valutata in base al caso concreto: il mezzo difensivo, quello offensivo, la forza fisica di entrambi, la modalità d'aggressione, l'età di entrambi e le circostanze di tempo e di luogo.
Infatti  la legge dice che la  reazione della vittima  dev’essere necessaria o inevitabile. Se in qualche
modo è possibile fuggire  dall’aggressore, la  legittima difesa non c’è  più. Quindi se venite aggrediti, pensate prima  di tutto a scappare.
Questo vi metterà al  riparo sia dall’aggressore  sia da futuri guai con la  giustizia. La miglior  difesa, insomma, resta la  fuga.

Meglio essere  considerati  fifoni    che  fare inutilmente  il carcere    o  avere poi  sensi  di colpa    del tipo  , ma  potevo evitare    di  ucciderlo   potevo  fuggire  ,  eccc.

“IL FEMMINICIDIO NON PUÒ ESSERE GIUSTIFICATO DA FATTORI GENETICI di Marlisa d'amico


Durante il processo per l’omicidio di Viktorija Vovkotrub uccisa a Brescia nel 2020 la difesa di Beriša Kadrus, kosovaro di 62 anni, ex compagno di Viktorija, avevaparlato di ‘gene guerriero’.
Si tratta di un’idea basata su teorie non del tutto accettate dalla comunità scientifica. Queste teorie mirano a dimostrare che alcune persone potrebbero essere più inclini alla violenza a causa di un fattore biologico, come un gene specifico. Spesso questa teoria viene usata per cercare di giusti!care comportamenti violenti.
Tuttavia la maggior parte degli esperti ritiene che il comportamento umano dipenda da una combinazione di fattori genetici ambientali, psicologici esociali, e non solo da un singolo gene. Nel caso di Viktorija Vovkotrub, la difesa di Kadrus Berisa ha usato questa teoria, ma ciò ha suscitato molte polemiche, poiché potrebbe far sembrare che la violenza fosse inevitabile a causa di una predisposizione biologica. Secondo il diritto, però, un crimine come il femminicidio non può essere giusti!cato da una causa genetica o biologica. Pertanto, a nulla dovrebbe valere invocare il‘gene guerriero’per escludere l’applicazione della pena a carico dell’uomo violento”. 

                      Marilisa d'amico Ordinaria di diritto costituzionale all’Università Statale di Milano

7.12.24

«I miei 90 anni senza lavatrice» A Sadali nonna Cecilia fa ancora il bucato nell’acqua del fiume ., Non morì ad Auschwitz»: Trudy ritrovata negli Usa da una preside di Roma

 fra  le  storie     che  mi  hanno colpito  di più questa  settimana        ce  ne sono due  .  la    prima  presa  dall'unione  sarda       mi  pare    del 1\12\2024 la seconda    dal msn.it  
Iniziamo  con la  Prima 

Di buon mattino per le vie di Sadali ci si può imbattere in una scena normale cinquanta e più anni fa ma che nel 2024, per molti, è fuori dal tempo: una figura femminile longilinea che sul capo porta con innato equilibrio e eleganza una bacinella contenente i panni da lavare al lavatoio. Si tratta di Cecilia Deplanu, novantenne, che sull'utilità della lavatrice non ha dubbi: «Giusto per le emergenze, come quando trent'anni fa fui ricoverata per un intervento chirurgico, oppure dare una rinfrescata al bucato perché, per come la vedo io, se in lavatrice si mettono i panni puliti vengono puliti, se invece si vuole dare una lavata come si deve a quelli sporchi, resteranno sporchi».
La famiglia
La novantenne è nata e ha vissuto stabilmente la sua vita a Sadali. Primogenita di undici figli del
cantoniere Salvatore Deplanu che nel 1952, come si usava dire, «le prestò quattro anni» per andare in sposa, ancora 17enne, ad Armando Carta, classe 1927. Cecilia ed Armando hanno avuto quattro figli maschi. «I miei ragazzi, sin da piccoli - racconta la novantenne - sono stati abituati ad aiutarci in casa e nei campi. Il maggiore, Antonio, badava ai più piccoli. Tutti venivano con noi a lavorare la campagna o fare legna. Li abbiamo cresciuti come i nostri genitori fecero con noi. A undici anni, mia mamma mi mandava al fiume, che scorreva poco distante dalla nostra casa, a lavare i ciripà dei miei fratellini. Ricordo quando abitavamo nella cantoniera, tra Sadali e Seulo, che è stata abbattuta molti anni fa, ci spostavamo a piedi fino all'orto nei pressi di Villanova Tulo».
La vita
Nonna Cecilia prosegue lucidissima sul filo della memoria di un'infanzia vissuta in una civiltà che ormai non esiste più: «Ricordo i giorni della trebbiatura nelle calde giornate di luglio, la nostra vita era così, semplice e scandita dal lavoro. Non avevamo tutto ma l'indispensabile non ci mancava. Facendo il paragone con i tempi attuali, ho l'impressione fossimo più felici noi. Adesso hanno tutto eppure non è mai abbastanza, le persone sembrano sempre insoddisfatte, scontente. Non cambierei la mia vita, trascorsa al fianco di mio marito che mi ha lasciato all'inizio di quest'anno dopo 72 anni di matrimonio. Con Armando ci siamo sempre rispettati e voluti bene, i nostri figli ci hanno dato grandi soddisfazioni. Il maggiore laureato in veterinaria ha fatto tutto da solo, il diploma alle scuole superiori di Nuoro e la laurea a Sassari. Con suo padre andammo il giorno della discussione della tesi a Sassari, ricordo ancora l'emozione quando i professori vennero a congratularsi con noi genitori. Così gli altri figli e i nipoti, mai un dispiacere. Auguro a tutti una vita, se non migliore, felice come la mia».
Nonna Cecilia, negli ultimi giorni le temperature sono calate sensibilmente, non sarebbe meglio ricorrere alla lavatrice?
«No, l'acqua del lavatoio non è mai particolarmente fredda, e poi, non so, sarà una fissazione la mia, ma venire qui a fare il bucato mi fa sentire bene, alcuni giorni al lavatoio vengono anche alcune ragazze».
Quanti anni hanno?
«Credo una ventina meno di me».
Dopo aver fatto il bucato riportarlo a casa sulla testa appesantito dall'acqua è ancora più faticoso?
«Per questo, lavo prima le cose più ingombranti e difficili da strizzare a mano che stendo a sgocciolare mentre finisco di lavare il resto del bucato, questo proprio per evitare che l'acqua appesantisca eccessivamente il carico che devo portare».
Quando ha imparato a portare sulla testa i carichi così pesanti?
«Da bambina, mia nonna e mia mamma mi insegnarono come fare, con “su tidili” un grembiule ripieganto circolarmente da frapporre tra la testa e il peso da portare, è stato semplice fin da subito. Il lavatoio è stato un grande vantaggio per le donne, prima andavamo al fiume».

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 La seconda  

Per anni Gertrude è stata una dei troppi bambini la cui esistenza si era spezzata nel campo di concentramento di Auschwitz. Una rapida apparizione nella storia la sua, scoperta per altro casualmente, al fianco del padre Isidor Stricks, un cittadino polacco ebreo catturato vicino a Roma e deportato nei campi di sterminio.

Per una facile associazione, e dal momento che non sempre i bambini venivano registrati sui treni della morte, la convinzione che anche lei avesse finito i suoi giorni in un lager.
«Ma Trudy lì non e mai arrivata, si è salvata ed è ancora viva: oggi ha 86 anni, si trova in America, è sposata e ha tre figli. Ha un sorriso bellissimo e una forza senza pari»: la descrive così Maria Grazia Lancellotti, oggi preside del liceo classico e linguistico della Capitale Orazio che, nell’ambito del progetto «Il civico giusto» (diretto da Paolo Masini), che si pone l’obiettivo di scoprire storie di solidarietà e di coraggio nell’Italia fascista al tempo delle leggi razziali, si è imbattuta in un dettaglio che ha catturato la sua attenzione, tanto da portarla alla ricerca della verità.
«Mi stavo documentando sulla fuga di Sandro Pertini e Giuseppe Saragat dal carcere romano di Regina Coeli quando nei racconti Marcella Ficca, la moglie di Alfredo Monaco, il medico che quella fuga ideò, comparvero Trudy e suo padre - racconta Lancellotti -. Mi disse che quest’uomo che teneva stretta a sé una bambina di 5-6 anni, prima di essere caricato sul camion diretto a Fossoli, le rivolse uno sguardo terrorizzato, come di chi non sapeva cosa lo aspettasse, trovò gli occhi di una donna, le fece un cenno, si fidò e le affidò quello che aveva di più caro pur di salvarlo». Così Marcella ospita la piccola in casa sua per qualche mese, fino a quando la mamma, Fanny, non la rintraccia e la riprende con sé.
Da qui iniziano peripezie, fughe e lunghe settimane nascoste in due distinti conventi di Roma, fino alla fine della guerra. Poi la salvezza arriva quando a luglio del 1944 salgono a bordo Herry Gibbons, nave che salpa da Napoli con mille profughi e raggiunge Oswego, negli Stati Uniti.
«Da qui si perdono le tracce della piccola Trudy, la mamma si sposa e cambia cognome. La stessa cosa fa lei anni dopo - riprende il filo dei ricordi Lancellotti -. Ma a questo punto volevo arrivare alla verità su di lei per cui ho scritto a un museo della città: Trudy in America doveva essere arrivata viva e qualcuno doveva sapere qualcosa di lei. Poco dopo mi ha risposto direttamente suo figlio Brian e mi ha raccontato la vita di sua mamma Gertrude».
Il caso poi ha voluto che lo stesso Brian avesse già in programma un viaggio in Italia per la scorsa estate. Con l’occasione è andato anche a Roma, dove ha potuto conoscere e abbracciare i figli di Alfredo e Marcella Monaco. «Purtroppo loro sono morti senza sapere se quella bambina ebrea che avevano salvato alla fine ce l’avesse fatta, ma l’aver scoperto il loro grande gesto d’amore ha fatto in modo che venissero avviate le pratiche allo Yad Vashem per far insignirli del titolo di “Giusti fra le Nazioni”». Non è stato facile per la preside Lancellotti. «Ci sono stati momenti in cui mi sono sentita in soggezione, sono entrata a gamba tesa nella vita di tante persone e ho riallacciato un filo che negli anni si era lacerato - conclude -. Ma questo è anche il bello del nostro progetto che portiamo nelle scuole, perché la storia si possa vivere con empatia. E comunque le vicende di Trudy non finiscono qui, perché voglio farne un libro».



6.12.24

Moshe Yaalon ex ministro israeliano ha detto che in Israele c'è un genocidio . Ci si inizia a rendere conto dei crimini che si stanno commettendo. Solo in Italia e in Usa qualcuno continua a dire che la parola "genocidio" sarebbe una bestemmia.

Le   risposte d'israele e  dei  suoi  seguaci   coerenti  e  banderuole   alle  critiche  ed  alle   accuse   per la  sua   condotta     dopo  il 7 ottobre    non  ha    , almeno  dovrebbe   avere ,  significato  d'antisemitismo  e  d'odio  verso  israele  in  quanto   un suo  stesso ex ministro della Difesa ha accusato Israele più  precisamente  il  governo  di «pulizia etnica»

leggo    su       https://www.ilpost.it  del  4\12\2024   che   

Moshe Yaalon ha detto che il governo di Benjamin Netanyahu sta «di fatto ripulendo i territori dagli arabi» In varie interviste nel fine settimana l’ex ministro della Difesa israeliano Moshe Yaalon ha accusato il governo di Benjamin Netanyahu di portare avanti una «pulizia etnica» nei confronti della popolazione palestinese.In una prima
intervista sabato Yaalon ha detto che ciò che stanno facendo il governo e l’esercito israeliano è «occupare, annettere e fare pulizia etnica», facendo espressamente riferimento alla zona settentrionale della Striscia. Ha anche sostenuto che Israele stia andando nella direzione di costruzione di insediamenti stabili a Gaza, come vorrebbero gli esponenti più radicali della maggioranza di governo, di estrema destra.
Quando poi l’intervistatore gli ha chiesto di chiarire se ritenesse che Israele fosse «sulla strada di compiere una pulizia etnica», Yaalon ha risposto:

Perché “sulla strada”? Cosa sta succedendo là? Beit Lahia [cittadina palestinese, ndr] non c’è più. Beit Hanoun non c’è più. Ora stanno operando a Jabalia. Stanno di fatto ripulendo il territorio dagli arabi.

Yaalon è stato prima capo dell’esercito, poi ministro della Difesa del governo di Netanyahu nel 2014, in un altro periodo di forte conflitto a Gaza. Le sue relazioni con l’attuale primo ministro si sono però interrotte nel 2016 e da allora è diventato molto critico nei confronti dei suoi governi In un’intervista successiva, domenica, Yaalon ha detto di temere che il governo stia esponendo i soldati israeliani al pericolo di azioni giudiziarie da parte della Corte penale internazionale (ICC), il principale tribunale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità: «Parlo a nome dei comandanti dell’esercito che stanno operando nel nord della Striscia. Mi hanno contattato per esprimermi preoccupazione per quello che sta avvenendo laggiù». Yaalon sostiene che l’esercito non sia responsabile di quanto sta succedendo, ma teme che gli ufficiali, seguendo le indicazioni del governo, «alla fine si ritrovino ad aver commesso crimini di guerra». Dieci giorni fa l’ICC ha emesso un mandato d’arresto contro Netanyahu, e contro l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, licenziato lo scorso mese da Netanyahu. La decisione dell’ICC è stata fortemente criticata da tutti i partiti politici israeliani e in generale le critiche degli esponenti politici al modo di condurre la guerra sono molto rare, cosa che rende quelle di Yaalon ancora più notevoli. Netanyahu e vari esponenti del governo hanno respinto le accuse di Yaalon, sostenendo che «colpiscono Israele e aiutano i suoi nemici».

il treno dei bambini film di cristina comencini tratto dall'omonimo romanzo di viola ardone . una storia di solidarietà del nord verso il sud , dei comunisti


 In   una notte  buia e tempestosa  d'inverno    del desolante    panorama  tv  italiano  ,  accendo  netflix  per vedere la seconda  stagione di Lidia  Poet ma ecco che   trovo    nell'elenco dei  film appena  usiciti   il treno dei    bambini di Cristina  Comencini   tratto  dall'omonimo  romanzo  Il treno dei bambini appunti  di  Viola Ardone pubblicato da Einaudi  ( foto a   sinistra   e  qui  chi volesse  Leggerne un estratto )  . Una  storia  di  cui   nei  giorni nostri  s'era  persa  la  menoria   , ma  poi  ritrovata  grazie  al  libro  della Ardone  e  al  film    della  Comencini  Un  film  bellissimo    d'influsso neorealista  . Infatti  molti   ad iniziare da : <<  Il treno dei bambini è il film di Natale che ci fa piangere senza ritegno |>>  di Vanity Fair Italia    affermano   giustamente    che <<  [...]  ricorda, per ambientazione, stile produttivo e la presenza dietro le quinte di alcuni sceneggiatori in comune, il film C’è ancora domani di Paola Cortellesi. Anche lì, un’Italia povera, ma intrisa di dignità, diventa il terreno fertile per raccontare storie dal respiro universale.  [...] >>La domanda  che mi pongo  e    si pone  lo  stesso articolo  di vanity : << [...] è legittima: si tratta di un tentativo consapevole di replicare il modello di un cinema italiano popolare, appetibile anche per il pubblico internazionale? Forse sì, e non sarebbe una cattiva idea >>.
Un  ottimo dosaggio  tra   finzione  e  realtà     come     fa anche   notare :  Il treno dei bambini, la storia vera dietro al film: Amerigo Benvenuti è un vero violinista? di  Cinefilos.it .IL film , come il romanzo , ricostruisce una delle iniziative più belle del Dopoguerra italiano che salvò migliaia di bimbini del sud d'italia dalla fame e dalla povertà. una fetta di Storia del dopoguerra, quando l'Italia, pur lacerata, aveva trovato la forza di andare avanti .  


Uno  degli esempi di come    anche durante   il periodo natalizio   si  possano fare   film   senza  scadere   nei  consuenti   sterreotipi o luoghi  comuni  (     babbi natale  , nascita   di gesu  , tuti più buoni ,  pranzi  e  cene e  regali  , ecc  )  
 

per  chi  volesse   aprrofondire  le  tematiche  del film  

5.12.24

La predica-camomilla allontana i fedeli

Spett Redbeppe
  cosa pensa dell'invito di papa Francesco, rivolto ai preti, a tenere prediche più brevi? Confesso che, quando mi reco a messa, mi annoio a morte quando il sermone si fa lungo e sarei tentato di alzarmi e andare via, se solo non avvertissi questa mia eventuale scelta come una grave mancanza di rispetto sia nei confronti del sacerdote, sia nei confronti del Signore. Lei cosa ne pensa?



Caro ****
finalmente qualcosa di sensato: le prediche devono essere concise, stringate ed efficaci, poiché il loro scopo non è  oalmeno non dovrebbe  essere né punitivo né espiatorio, bensì esse devono indurre il fedele a compiere delle riflessioni, devono offrire quindi uno spunto e non costituire una sorta di lavata di capo fatta al buon cristiano che ancora si reca a messa, in questa società dove le chiese sono sempre più vuote, probabilmente pure a causa di certi predicozzi insostenibili. Di certo il pippone propostoci dai sacerdoti non ci incoraggia a mettere piede all'interno della casa del Signore.
Siamo onesti. Forse risulterò blasfemo  e  miscredente  nel pronunciare questo pensiero, ma sarebbe opportuno essere sinceri ed ammettere che le prediche sono spesso più soporifere di una camomilla con melatonina e valeriana, anzi ancora più di un sonnifero potente. E ne siamo terrorizzati. Papa Francesco, uomo saggio e al passo con i tempi, talvolta fin troppo secondo alcuni  , propone di ridurne la durata: dai canonici trenta minuti a dieci minuti, condensando in questo breve lasso di tempo il messaggio che il sacerdote ha da offrire a chi ascolta. Sia chiaro: fosse per me, basterebbe un tweet e poi tutti a casa, ma vada per i dieci minuti, tanto non corro il rischio di subire prediche, dal momento che non entro in chiesa  se  non di rado  . In fondo, a cosa servono i giri di parole? Basta andare dritti dritti al punto, altrimenti si scade nel vizio e nel peccato da parte del sacerdote, come ha sottolineato il pontefice, di predicare non il verbo di Dio ma se stesso, usando l'altare alla stregua di un palcoscenico.

Gregor Formanek Partecipò ad almeno 3.322 omicidi in un campo di concentramento. Ha 100 anni, ma ora rischia il processo. farlo o non farlo ?

  ho letto   di recente    su msn..it    questa    notizia  


 Le autorità tedesche stanno facendo pressione affinché un uomo di 100 anni, ex guardia di un campo di concentramento nazista venga processato quasi 80 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Questo dopo che la corte regionale superiore di Francoforte ha dichiarato di aver ribaltato una decisione di una corte inferiore in base alla quale il sospettato era stato fino ad ora ritenuto non idoneo a sostenere un processo. Gregor Formanek era stato accusato l’anno scorso di favoreggiamento in 3.322 omicidi mentre lavorava nel campo di concentramento di Sachsenhausen a Berlino tra luglio 1943 e febbraio 1945. Tuttavia, un esperto aveva stabilito che Formanek non era idoneo a sostenere un processo. Ora però la corte di Francoforte ha stabilito che la decisione dell’esperto non fosse basata su "fatti sufficienti".



Da  antifascista  ed  anti nazista    sono   perché sia  processato   perché certi  crimini  non  vanno in prescrizione .Anche  se immagino che  finirà  o  come Pribke  o  reato estinto  per  morte del  reo  .  E sarò un capro espiatorio in quanto sarebbero da processare  se  ancora in vita  anche   chi gli ha permesso di farla franca. Ricordiamoci di un certo armadio contenenti fascicoli processuali circa crimini di guerra che fu voltato faccia al muro di un tribunale e dimenticato


Nel senso della  pietas  penso   che    procedere  giudiziariamente  sia un accanimento   in quanto  avrebbero dovuto processarlo quando ancora gli sarebbe importato qualcosa di trascorrere il resto della sua vita in carcere.processarlo a 100 anni mi sembra assurdo. Inoltre la sua coscienza lo avrà perseguitato per tutto questo tempo.Quelli privi di una coscienza obbedivano a quel tipo di ordini, non era un soldato ma un aguzzino e merita almeno il processo.sarà stato anche un bastardo assassino a 20 anni....80 anni fa...80 anni in cui sarà stato perseguitato dai fantasmi delle atrocità commesse. Trovo assurdo accanirsi, particolarmente se oggi la progenie delle vittime è  il nuovo carnefice


qui   mi sento  come  gli gli ignavi nella Divina Commedia di Dante Alighieri  cioè   il nome che Dante attribuisce ai peccatori che il Sommo Vate incontra nell’Antinferno. Li trovate ampiamente descritti nel Canto III dell’ Inferno, dal verso 22 al 69.

4.12.24

«Io, figlio in affido, ora sono prete per i ragazzi feriti»

 

altro che servizio pubblico è la7 che ha trasmesso il bellissimo film Jean-Jacques Annaud Notre Dame in fiamme .

Lunedì 2 dicembre serata speciale su La7 dalle 21:15 con La Torre di Babele condotta da Corrado Augias che presenta: Notre-Dame in fiamme(  foto   della  locandina  a sinistra ) il film capolavoro di Jean-
Jacques Annaud che racconta cos’è accaduto prima durante e dopo quel maledetto 15 aprile 2019, in vista  della 
la visita di venerdì da parte del Presidente della Repubblica Francese Emmanuel Macron  e  dell'imminente riapertura al pubblico , il 7 dicembre della cattedrale francese
 Nel docufilm , ma  in realtà  è un  ibrido  tra  documentario  e azione,  il regista ricostruisce l’incendio che ha minacciato la cattedrale parigina alternando scene ricreate ad hoc e materiale di repertorio e mostrando l’orrore e l’incredulità delle persone che assistevano all’evento. La narrazione si concentra sulle azioni eroiche dei pompieri, protagonisti indiscussi, che rischiarono la vita per salvare uno dei simboli più importanti di Parigi.Un film   senza  infamia  e senza  lode  ma  che  dimostra    come  sia   difficilissimo   raccontare  ,anche  a  caldo  , tali eventi    drammatici  come  questo  avvenuto  a  Notre  Dame appunto   . 
Di solito   non mi piacciono   granchè  i  film  d'azione ( con gli anni i gusti cambiano  ) ma questo merita  per  :   la  maestria   dell'uso  delle immagini   tv e social   e    scene     create  all'uopo , perchè  descrive  benissimo   quello   che  il  mondo   a prescindere  da    credenti   cattolici  e non solo ,  atei   hanno  (  ed  abbiamo noi tutti  )   provato   vedendo   o  dal vivo   o   come   in tv   \ sui  media    quelle  immagini   anche se << [...] Jean-Jacques Annaud ci restituisce un film che fa del tono retorico il suo attore principale, non apportando nulla di interessante neanche sul piano della testimonianza storica.[.... ]  >>come   fa   notare la  Recensione di Alice Catucci
mercoledì 23 marzo 2022 Notre-Dame in fiamme - Film (2022) - MYmovies.it  ] >>  . Infatti il film di Jean-Jacques Annaud racconta cos’è accaduto prima durante e dopo quel maledetto 15 aprile 2019, in vista dell’imminente riapertura della cattedrale francese e dopo la visita di venerdì da parte del Presidente della Repubblica Francese Emmanuel Macron. Nel docufilm il regista ricostruisce l’incendio che ha minacciato la cattedrale parigina alternando scene ricreate ad hoc e materiale di repertorio e mostrando l’orrore e l’incredulità delle persone che assistevano all’evento. La narrazione si concentra sulle azioni eroiche dei pompieri, protagonisti indiscussi, che rischiarono la vita per salvare uno dei simboli più importanti di Parigi  e  del  mondo  .  A mio  avviso   non mancheranno   da   qui ad  aprile  2025   sesto  anno     dall'incendio  , altri  film  apolegettici e  di retorica  stucchevole    come  la  maggior   parte  di   come quelli  usciti   dopo l'11  settembre  2001  per  ricordare  le torri  gemelle  ,     e    si parlerà    come  credo    della  grandissima  opera  di   restauro  , di cui trovaste    qui  le  vicende .
Per  il  restauro   non mi esprimo  oltre    ne ho   già parlato  qui in  questo n°  del  diario    di bordo  è il  II   articolo . Dico  solo che  è stato da quel  dicono le  cronanche   e dopo cinque anni di lavori, un progetto di restauro erculeo che ha messo insieme un migliaio di artigiani specializzati, la cattedrale di Notre-Dame di Parigi, in Francia, riaprirà finalmente il 7 dicembre 2024.Tutto è stato rinnovato all’interno della cattedrale: dagli affreschi al pavimento a scacchi, fino alle campane rimosse dal campanile, ripulite dalla polvere di piombo e restaurate nella fonderia normanna dove furono fuse per la prima volta.  E'  stato  un lavoro  immane  e  che  si è evitato   i  rischio  di pacchianata   e  di snaturare  con  discutibili modernità  un edificio    quasi  millenario come  quello  di Notre  Dame . 

   con questo  è  tutto 


3.12.24

Diario di bordo n 90 anno II . il diritto di essere brutti e piacersi lo stesso., se tutti hanno un costo nessuno ha un valore ., Giulia Lamarca: «Ogni disabilità ha un margine di indipendenza»

In questa tempi in cui la bellezza è imposta ed autoimposta ( vedere l'aumento d'interventi plastici spesso non necessari e il ricorso a me dici senza scrupolo e con conseguenze letali ) la bruttezza può essere rivoluzionaria e si viene mal visti , è il prezzo per non essere schiavi \ succubi di un sistema che ci vuole tutti perfetti e senza difetti , come mosche bianche o strampalati . Infatti Guardiamoci attorno in un luogo affollato, una via centrale o un centro commerciale. Vedremo corpi e volti comuni, più o meno sgradevoli, anonimi o caratteristici, alcuni con elementi più piacevoli, altri francamente belli ma non necessariamente perfetti. Mettiamoci in testa che la bellezza in senso assoluto, è una eccezione in natura. Da sempre gli esseri umani si ingegnano a camuffare i tratti considerati sgradevoli, in nome di una estetica e una simmetria creati a tavolino almeno per ciò che riguarda i volti umani. E a ben osservare lo standard di bellezza a cui tutti aspirano è quello di donne e uomini bianchi, magri, alti, conformi. La la bellezza appartiene a una razza e ad una classe sociale ben definita ed è attraversata da un progetto politico ed economico. Essere brutti non è consentito in Occidente e nel tempo è diventato una forma di discriminazione e di isolamento. Essere brutti è un insulto che non interessa solo i lineamenti ma l'identità più profonda. Ne ha Ne parlato su mi pare su HuffPost Italy  di  qualche  tempo   fa   l'artista Moshtari Hilal che brutta ci si è sentita da sempre: lineamenti forti, pelle scura, denti non allineati. Per essere accettati bisogna rientrare almeno nella norma. Che poi anche questa, a ben vedere è una costruzione sociale e falsa.
<<Quello che etichettiamo come brutto non è naturale, è il risultato di gerarchie" le stesse che governano il potere e autorizzano le sopraffazioni, scrive nel suo saggio ‘bruttezza’ edito dai tipi di Fandango. Ma essere brutti o sentirsi brutti (non è la stessa cosa) determina due effetti: un senso di inferiorità e un dolore dovuto all'inadeguatezza e alla sensazione di non appartenenza. La bruttezza insomma è una croce pesante e la strada dell'accettazione delle differenze estetiche è ancora lunga e tortuosa. Basta guardare un concorso di bellezza internazionale: le caratteristiche etniche sono livellate e sfumate per conformarsi agli standard occidentali. Ed essere brutti non implica necessariamente non piacersi (vale anche al contrario, essere belli non è garanzia di benessere). <<Solo una madre può amare una bambina brutta>> scrive sempre Hilal, << ma vi posso assicurare che in alcune famiglie i brutti godono di trattamento di serie b lottano più degli altri per essere riconosciuti e amati talora senza mai riuscirci. E se la bellezza è una scorciatoia per il successo (le persone belle hanno stipendi più alti e attraggono partner più ricchi). La bruttezza autorizza il resto del mondo a odiarti e a insultarti, basta fare un giro sui social network per rendersene conto. >>

  

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Nessuno si salva da solo e nessuno è libero finché qualcuno è schiavo. Ufficialmente la tratta degli schiavi non esiste più dal 23 febbraio 1807 quando fu cancellata a larga maggioranza (100 voti contro 36) dal Parlamento inglese, cuore della super potenza coloniale dell’epoca. Sappiamo poi che alla fine del XIX secolo un po' tutti i Paesi del mondo hanno messo al bando l’asservimento degli esseri umani. In realtà basta confrontare la pratica con la teoria per accorgersi che non è così. «La schiavitù è una pianta infestante che cresce su ogni terreno», scriveva a metà Settecento Edmund Burke.*
Quanto sia attuale la riflessione del filosofo britannico lo dimostrano proprio la tratta di esseri umani, e in particolare il racket della prostituzione coatta. Nessun angolo del globo ne è immune: Paesi d’origine, di transito e di destinazione. La schiavitù è stata abolita per legge ma non nei fatti. Ha cambiato pelle ma i più deboli sono sempre a rischio assoggettamento. Tante persone povere sono costrette a lavorare sottopagate o senza essere pagate affatto. Le vittime della tratta sono asservite ai mercanti di esseri umani che le degradano a bancomat nelle strade del mercimonio. Intanto i nuovi schiavi del web disseminano di sofferenza la servitù occulta nel mondo della rete. Cambiano le epoche ma resta l’indole dell’uomo di volere sfruttare e approfittarsi dei più fragili per sottometterli. Il Papa testimonia l’urgenza di lavorare affinché nessuno renda schiavo un altro. La schiavitù non è una realtà del passato, e nella “Giornata internazionale per l'abolizione della schiavitù” in calendario domani l’Onu si appella alla coscienza individuale e collettiva.
Sono trascorsi 75 anni da quando le Nazioni Unite hanno approvato la Convenzione sulla soppressione del traffico di persone e lo sfruttamento della prostituzione. Da allora resta ancora lontano l’obiettivo di una società rinnovata e orientata alla libertà, alla giustizia e alla pace. Anzi, le forme di disuguaglianza e discriminazione si sono moltiplicate di pari passo con la globalizzazione dell’indifferenza. Vanno
Uno dei quattro schiavi incatenati raffigurati nella parte inferiore
del 
Monumento dei Quattro mori del XVII secolo a Livorno.
adottate, dunque, misure più incisive per sconfiggere l’asservimento. Secondo i dati del “Global Estimates of Modern Slavery”, tra lavoro e matrimonio forzati, nel mondo 50 milioni di persone (in maggioranza donne e minori) sono ridotte in schiavitù.
Le forme di schiavitù contemporanee sono il traffico di esseri umani, lo sfruttamento sessuale, il lavoro minorile, i matrimoni forzati e l’uso di bambini nei conflitti armati. Solo una mobilitazione comunitaria può sradicare un fenomeno così diffuso. C’è bisogno della piena partecipazione di terzo settore, sindacati, società civile e istituzioni che promuovono i diritti umani. «Gli schiavi di oggi cambiano di geografia, modalità e colore, ma la schiavitù si adatta ogni volta di più – afferma Francesco –. Ci sono sempre più schiavi. Tante forme di       schiavitù sono dissimulate, non si  conoscono, sono nascoste. Nelle megalopoli come Roma, Londra, Parigi, ovunque, ci sono nuove schiavitù». Servono opportunità di educazione e di lavoro. Nessuno può lavarsi le mani se non vuole essere, in alcun modo, complice di un crimine così efferato contro l’umanità», ribadisce il Pontefice. Le vittime della prostituzione coatta sono le moderne schiave, e finché non saranno liberate non potrà essere dichiarata l’effettiva abolizione della schiavitù.
Ho un sogno che mi accompagna di notte lungo le strade della prostituzione, ed è quello di vedere effettivamente abolita la schiavitù. Sui marciapiedi delle nostre città sembra scolpita una condanna antropologica: quella di trasformare la sopraffazione in una modalità di relazione sociale. Le “donne crocifisse” rispecchiano tragicamente l’umana deriva dell’acquisto, dello sfruttamento, dell’appropriazione indebita di altri esseri umani. È come se l’uomo non sapesse evolvere verso una fattuale, intangibile parità di dignità. C’è sempre bisogno psicologicamente, strutturalmente, di qualcuno da sottomettere.
Ci sono altre odiose forme di asservimento che hanno sempre come bersaglio le persone più fragili e indifese, ma la tratta del mercimonio coatto ha questa peculiarità: si distrugge la libertà di un individuo per farne uno strumento dei propri istinti più primordiali, eticamente riprovevoli, socialmente distruttivi. Il costo personale e collettivo della tratta grava come un macigno sulla nostra civiltà cosiddetta post-moderna, ma sempre agganciata alla zavorra di condotte violentemente primitive. Mai più persone in vendita! Se tutti hanno un costo, nessuno ha valore.

* infatti   la lotta  contro  lo schiavismo  continuò  fino  al  secolo  scorso  .    come  testimonia 



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«È molto difficile sradicare la narrazione dell’eroe-salvatore e del disabile-salvato dalla solitudine». Il raccontare la disabilità sta cambiando dal basso grazie soprattutto al mondo aperto dei social media, che ha dato voce a chi prima faticava ad avere spazi nei media tradizionali.

 Un fenomeno nuovo che proprio per questo deve affrontare pregiudizi atavici, come quelli sottolineati da Giulia Lamarca, classe 1991, psicologa, formatrice aziendale e travel blogger, che nel 2011 a seguito di un incidente ha perso l’uso delle gambe e iniziato una seconda vita seduta su una carrozzina. Sposata Andrea Decarlini, con cui ha avuto due figli Sophie di tre anni e Ethan nato da pochi giorni, Lamarca si fa portavoce di un cambiamento culturale necessario per costruire una società più inclusiva: «Non condanno mai troppo gli stereotipi perché anch’io, prima dell’incidente, ma forse anche dopo, ne sono stata vittima. Durante la prima gravidanza mi sono posta una serie di domande: sono in grado di prendermi cura della bambina? Sarò una brava madre? Le domande e i dubbi crescono in base alle situazioni, ma dalla maternità ho imparato ad esempio che ci sono diversi modi di essere presente con i figli. Ci è voluto tempo, ma ho imparato a non farmi condannare dai cliché. Il problema è, soprattutto in Italia, che siamo abituati a pensare alla genitorialità come solo alla figura femminile, mentre un uomo che gioca con i bambini sembra un alieno, ma in altri Paesi non è assolutamente così».
I progetto di vita previsto dalla riforma sulla disabilità lavora anche sull’indipendenza, un altro pregiudizio che va smontato pezzo per pezzo, ma che necessità di interventi importanti sul fronte dell’accessibilità. «Ogni disabilità ha un margine di indipendenza. Certo, c’è differenza tra un tetraplegico e un paraplegico, come lo sono io, ma ognuno ha la possibilità di essere indipendente su qualcosa, anche poco, ma è possibile. Purtroppo la situazione delle barriere architettoniche, almeno in
Italia, resta un problema di complessa risoluzione. Ci saranno sempre scale che non posso salire. Ma è importane che le case di nuova costruzione siano accessibili, perché al momento, per un disabile, trovare un’abitazione adattata alle proprie esigenze è un’impresa quasi impossibile. Lottiamo ancora con camere troppo piccole e bagni impraticabili con carrozzine. Così come abbiamo problemi nell’uso dei mezzi pubblici anche nelle grandi città».
Altro tasto dolente è quello dell’indipendenza economica: in Italia solo il 32,5% delle persone con disabilità ha un’occupazione. «La differenza in questo senso possono farla le aziende private, coadiuvate dallo Stato. Molte imprese oggi preferiscono ancora pagare le sanzioni piuttosto che inserire nel loro organico persone con disabilità, non comprendendo che così si perde un’occasione. Avere una disabilità non vuol dire non saper fare niente e attraverso una formazione culturale adeguata nei posti di lavoro si può inserire una maggiore ricchezza di talenti assumendo persone che portano istanze, esperienze e competenze diverse».
Giulia Lamarca, nonostante la visibilità ottenuta sui social e sui media, vive ancora sulla propria pelle scelte discriminatorie: «In Italia la moda resta uno dei settore più discriminatori. Io, ad esempio, ho lavorato per pochissimi brand e non ho mai ricevuto inviti alle fashion week italiane, mentre a quelle estere sì. In passerella abbiamo visto modelle sfilare con protesi agli arti, ma vedere una modella in carrozzina è ancora una rarità, perché non è ancora stato abbattuto lo stereotipo della donna in piedi».
Dalla scuola ai servizi, dal lavoro alla genitorialità, dai media ai viaggi la complessità della vita di una persona disabile pesa inevitabilmente anche sulla famiglia: «Io, con la mia storia, non ho avuto le stesse opportunità di una persona che sta in piedi e cammina. È difficile da dire e da vivere, psicologicamente questo pensiero ti può distruggere. Io ho lottato più degli altri, sia per il lavoro – prima come psicoterapeuta, poi come content creator – sia sul fronte della vita personale. È un dato di fatto: di volta in volta non c’erano le persone giuste oppure le risorse oppure i servizi e io non ho avuto le stesse occasioni di un normodotato. E questa lotta non è cambiata nemmeno dopo che la mia figura è diventata pubblica. Mi spaventa, quindi, che la mia disabilità ricada su Andrea, sui miei figli, persino sui miei genitori. Che loro abbiano meno possibilità a causa della mia disabilità. Dobbiamo iniziare a riflettere sul mondo in cui vogliamo vivere per poterlo costruire».

in tempo di crisi e di fame busa e non si vuole emigrare meglio addattarsi a tutti i tipi di lavoro anche queli per cui non abbiamo studiato la storia di La scommessa di Paolo Ladu, noto “Cipolla”: lava vewtri da 40 anni

  dala nuova  sardegna   9\1\2025  di Valeria Gianoglio Nuoro La bottega di Paolo Ladu, noto “Cipolla  "è un furgone vissuto, un ampio...