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3.5.13

Sciacalli della moda a caccia di anoressiche e cacciatori di ladri d'opere d'arte

 all'origine  del post  d'oggi   c'è  una  interessante  discussione avuta  tempo  fa  , scaturita  dalla lettura   di questo suo  articolo  , poi ripreso  sul blog  ,   con il mio vecchio  compagnodistrada    di splinder    recuperato  poi su facebook   Fiore leveque

  • Fiore Leveque

    perché trovi interessante l'aver postato il dialogo?
  • Giuseppe Scano

    perchè nonostante abbia studiato glottolofgia e filologia romanza dimenticavo l'origine di tale parola e l'uso proprio ( il tuo articolo ) e improprio che si fa nei media . vedi il libro manomissione dele parole di g.Carofiglio
  • Fiore Leveque

    ah capisco
    son molti anni che mi dedico alla rivalutazione e alla rivalorizazione delle parole
    a poche persone interessa
    perché stiamo tutti inglobati in una banalizzazione della parola
  • Giuseppe Scano

     e fai bene perchèp come dice moretti le parole sono impotanti http://www.youtube.com/watch?v=qtP3FWRo6Ow
    esatto
  • Fiore Leveque

    ogni parola ha dietro un discorso e una etica
  • Fiore Leveque

    cui oggi non si da importanza
    e per qusto le parole son come gioie falsifificate
Giuseppe Scano

purtroppo

  (....)  





è da questa discussione che riporto due articoli interessanti sul molteplice uso della parola caccia

IL Primo  è tratto da  repubblica  online del 30\4\2013  

Sciacalli della moda a caccia di anoressiche





QUANDO una modella muore di anoressia ne parlano tutti. Si scandalizzano, si indignano, protestano. Si decide che non è più possibile continuare con questa storia della magrezza a tutti i costi, e che il mondo della moda deve essere il primo a reagire in modo drastico. E talvolta si prendono anche decisioni importanti, come in Spagna o in Israele dove, dopo la morte nel 2006 della top model brasiliana Ana Carolina, si è deciso di non far più sfilare le ragazze troppo magre. 
Ma dopo l’emozione del momento, tutti (o quasi) ricominciano a vivere tranquillamente dimenticandosi dell’accaduto. Anzi, ci sono anche coloro che continuano a sguazzare nel mare di dolore di molte ragazze che soffrono di disturbi del comportamento alimentare e che ne approfittano. Al punto da non esitare a “reclutare” modelle tra le pazienti di una clinica svedese specializzata proprio nella cura dell’anoressia. 
È quello che si apprende in questi giorni, dopo la denuncia fatta dai medici del Centrum för Ätstörningar di Stoccolma, che hanno deciso di non permettere più alle proprie pazienti di uscire ed entrare liberamente dalla clinica. «Alcuni agenti che lavorano nel mondo della moda abbordavano queste ragazzine di 14-15 anni proponendo loro di lavorare come modelle», denuncia una dottoressa del Centrum. «Come si fa a far prendere loro coscienza della propria malattia, quando c’è chi le corteggia proponendo loro di diventare famose?» 
Uno dei problemi più grandi, per chi soffre di anoressia, è quello di capire e accettare che il proprio rapporto con il cibo è problematico e pericoloso. Molte ragazze sono convinte che il fatto di non mangiare le renda più forti e più sicure. Dietro il sintomo dell’anoressia, c’è sempre il bisogno di controllare il cibo per controllarsi, di negare la fame per sentirsi più forti e indipendenti. Anche se poi si dipende talmente tanto dal giudizio degli altri, che si preferisce morire piuttosto che smetterla di cercare di fare di tutto per corrispondere alle aspettative altrui. 
Come fa allora una ragazzina che ha una frattura narcisistica di questo tipo a capire che sta per distruggere la propria vita quando qualcuno le si avvicina e le dice che è “talmente bella che può diventare una modella”? 
I medici del centro di Stoccolma denunciano questi sciacalli della moda e chiudono le porte della propria clinica. Ma non è giunto il momento di smetterla una volta per tutte con queste pratiche immorali e con questo mito falso e bugiardo del “corpo-moda”? Quante altre vittime innocenti devono ancora esserci prima che la società si renda conto che la vita di una ragazza vale molto di più di qualche foto patinata in prima pagina di una rivista femminile? 


Il secondo  sempre  da repubblica  del 28\4\2013


La crociata dei Rosenberg a caccia di opere d' arte saccheggiate dai nazisti


NEW YORK - Era una delle (tante) ossessioni dei gerarchi nazisti: rubare opere d' arte. Secondo un calcolo approssimato per difetto, ne saccheggiarono oltre centomila nei paesi occupati per un valore attorno ai 10 miliardi di dollari. Avevano creato una divisione apposta che aveva il compito di setacciare musei, case d' aste e collezioni private. Come quella della famiglia Rosenberg, che da allora, da oltre settant' anni, da tre generazioni, insegue il suo tesoro perduto con pazienza, tenacia e incredibile capacità, tanto da aver recuperato quasi il 90 per cento dei quattrocento pezzi originali. La loro avventura sembra un film, e in effetti - benché solo come spunto - lo è già: "Il treno". Una pellicola di guerra con Burt Lancaster dove si racconta il tentativo di un colonnello delle SS di mettere in salvo, in Germania, il suo bottino di tele pregiate (e rubate). Ed è anche un libro, 21 rue La Boetie, della giornalista francese, nonché ex moglie di Dominique Strauss-Kahn, Anne Sinclair che è la nipote del capostipite, Paul Rosenberg.(  foto  a  sinistra presa  da http://intranews.sns.it/intranews/20130429/SIL1048.PDF  )
La storia, raccontata dal New York Times, inizia a Parigi negli anni Trenta, dove il giovane Paul fonda una galleria d' arte che diventa presto una delle più importanti. Amicissimo e confidente di Picasso, il quale cerca una casa a due passi da lui: "Ciao Rosi", "Ciao Pic", è il saluto dei due ogni mattina, il mercante crea una rete di rapporti con i migliori pittori e, di conseguenza, una collezione prestigiosa: Matisse, Braque, Cézanne e poi ancora Renoir, Van Gogh. La notte scende quando arriva la guerra e con i nazisti alle porte Paul Rosenberg decide, per sfuggire ai campi di concentramento, di andare negli Stati Uniti, destinazione New York, dove apre subito un' altra galleria nell' Upper East Side. Prova a spostare anche le sue opere d' arte ma è impossibile, non c' è più tempo. Prima di scappare, le nasconde inutilmente in una banca e in una casa di Bordeaux, ma soprattutto, cosa che si rileverà molto più efficace, mette per iscritto con amore maniacale un inventario completo. Nei giorni confusi della Liberazione, nell' agosto del 1944, Alexandre, il figlio maggiore, entra nella capitale al comando dell' esercito francese e dopo un breve scontro a fuoco fa irruzione nel treno numero 40044 (quello del film) diretto verso la Germania e nei vagoni trova decine di sculture, oggetti preziosi e quadri, molti di quelli che lui aveva imparato a conoscere sulle pareti della casa paterna. La caccia parte da qui.


 La piccola lista è ora un archivio monumentale con oltre 250mila documenti che occupa un intero piano della casa di famiglia a Manhattan. E a portare avanti "la crociata dei Rosenberg", c' è Marianne la figlia di Alexandre che fa l' avvocato: «Non lasceremo mai perdere, non dimenticheremo: è la nostra missione». Per anni, leiei suoi parenti hanno spulciato i cataloghi dei musei, le pubblicazioni delle case d' aste, gli archivi dell' Interpol e quelli delle associazioni - come quella del Getty di Los Angeles o dell' Holocaust Memorial Museum- che hanno messo online l' elenco delle opere rubate dai nazisti. Un dipinto di Braque viene trovato nel negozio di Josée de Chambrun, guarda caso la figlia di Pierre Laval uno dei leader del governo di Vichy. Un Matisse viene individuato durante un' esposizione temporanea al Centre Pompidou, un altro viene scovato, proprio in questi giorni, in Norvegia. E via così, quadro dopo quadro, scoperta dopo scoperta. Ogni volta è una battaglia legale, ogni volta è una sfida contro le leggi dei paesi, che nonostante ripetuti accordi internazionali spesso intralciano il recupero. Difficoltà che non fermano i Rosenberg: «Paul sarebbe andato sino alla fine del mondo per ritrovare e portare a casa i suoi adorati quadri», dice un amico. E gli eredi hanno lo stesso sangue: «Adesso toccherà alla quarta generazione finire la caccia», giura Marianne. Tanto, manca ancora poco prima dei titoli di coda con il lieto fine e la scritta missione compiuta

«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

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